Dopo un periodo di quasi totale oblio, i carrubi sono ritornati a far bella mostra di sé sui banchi dei dolciumi nelle fiere paesane, e consiglio tutti di assaggiarli almeno una volta.
Dai baccelli di carrubo si otteneva anche una farina che si usava per la preparazione di dolciumi, adesso questo genere di alimento, nonostante sia ottimo al palato, viene considerato “povero”, “miserabile”, una cosa da evitare per non sembrare dei poveracci.
I baccelli di carrubo sono molto lunghi, e contengono parecchi semi durissimi che venivano usati per confezionare rosari. Nei paesi arabi questi semi, chiamati “quirat”, erano usati come unità di misura dei piccoli pesi, da cui deriva infatti la parola “carato”. In Greco questo nome divenne “kération” ed è stato così che il carrubo ha acquisito il suo nome botanico: Ceratonia siliqua.
Il carrubo non è un albero tipico d’Italia, ma in questo periodo sta vivendo un momento di grande revival e viene spesso piantato anche a sproposito, dimenticandosi che è albero di una certa delicatezza, tipico perciò del Sud. Tuttavia non si sa bene se sia davvero originario dell’Italia meridionale o se vi sia stato remotissimamente introdotto, ed infine naturalizzatosi, ma quello che è certo è che la letteratura botanica riconosce il carrubo e l’olivo come gli alberi più rappresentativi del clima più spiccatamente mediterraneo “xerofilo”, cioè molto caldo.
La terra d’elezione del carrubo a dire il vero è la Sicilia meridionale, specie il siracusano, ma la coltura è diffusa su tutti i litorali più asciutti, e si sta propagando anche in terre straniere, come la California, dove sanno far fruttare le cose; basti pensare alle noci che hanno completamente rubato il mercato al prodotto locale ed alle pregiate noci di Sorrento, ed anche alla coltura della vite, che non è limitata alla produzione di uva da tavola ma arriva alla vigna da vino.
Anche il carrubo potrebbe tornare ad avere la sua antica nobiltà e la sua coltivazione uno scopo economico, basterebbe volerlo.
