Si dice spesso che il mondo moderno ha perso il contatto con il mondo naturale, tanto spesso che ormai questa frase, seppur vera, è stata svuotata di ogni valore. L’Uomo ha dimenticato cos’è e da dove proviene, e con amarezza mi chiedo se Leibniz, trasportato magicamente nella nostra epoca e datosi una buona occhiata intorno, sarebbe ancora convinto che il nostro è il migliore dei mondi possibili. Io credo che non lo sia oggi come non lo era allora.
La Razza Umana è nella fase della sua adolescenza: incurante del futuro, sprecona, convinta di vivere per sempre, chiassosa, colorata, amante delle feste e della velocità. Sopravvivremo alla nostra adolescenza tecnologica? Lo sapranno solo le generazioni posteriori a noi, impreparate al futuro, credo molto triste e pericoloso, che le attende.
In questi giorni festeggiamo il Natale senza più domandarci cosa facciamo e perché, come degli zombi che si aggirano incoscienti tra ipermercati e centri commerciali. Per molti – indipendentemente dalla loro religiosità – tutto questo movimento generato dal consumismo supino, è diventato ormai inaccettabile.
Potrà allora essere interessante andare a spulciare qualcosa attorno alle più remote origini del Natale, e come queste si colleghino direttamente ai culti della Natura, pre-cristiani e pre-ellenici, cioè a quell’infanzia dell’Uomo, quando questo non dimenticava di provenire dalla terra e ad essa di ritornare, perlomeno nel corpo.
Non è un caso che il Natale cada pochi giorni dopo il solstizio d’inverno, cioè il giorno più corto dell’anno. Gli equinozi e i solstizi sono dovuti all’inclinazione dell’asse terrestre, che determina anche l’avvicendarsi delle stagioni e quindi i cicli di produzione agricola. Sin da quando l’Uomo divenne stanziale, trasformandosi cioè da cacciatore in agricoltore, fu per lui di importanza capitale capire in che modo e con quale ritmo si avvicendavano i cicli stagionali, poiché da questo dipendeva la buona riuscita del raccolto e la sua stessa sopravvivenza. L’anno fu grosso modo diviso in quattro trimestri e nel tempo furono identificate le date chiave degli equinozi e dei solstizi, in corrispondenza delle quali si celebravano feste e si svolgevano riti e cerimonie.
Quella del Natale ha origini presumibilmente persiane e deriva dal culto di Mitra, a sua volta – pare – identificabile con quello di Mazda o Zoroastro. I Romani celebravano in questa data il Solis Invictus cioè il Sole Vittorioso, o Sole Nascente, poiché è da questo punto dell’orbita che il moto apparente del sole, dovuto all’inclinazione ed alla rotazione dell’asse terrestre, inizia a risalire sul piano dell’eclittica, e i giorni ad allungarsi nuovamente.
Nella celebrazione del Natale (come per altre date della religione cristiana) confluiscono quindi elementi di altre religioni del bacino del Mediterraneo, culti che avevano alla propria base il rapporto (tutt’altro che ideale) con la terra, con la sua fecondità, con il lavoro dei campi e con la conoscenza empirica del calendario. Molte di queste tradizioni si sono trasmesse alla religione ellenica, e sono poi confluite, con un processo che si chiama sincretismo, in quella cristiano-cattolica.
Che uno di questi simboli sia l’abete non è un caso, poiché l’abete è in tutta l’Europa centrale albero legato ai culti pre-cristiani. Rappresenta in questo caso l’albero cosmico (tra gli alberi cosmici il più conosciuto è senza dubbio Yggdrasyl, un gigantesco frassino che appartiene alla mitologia protogermanica).
Nell’Antico Testamento l’albero cosmico si chiama Albero della Vita ed è piantato al centro dell’Eden. In molti scritti l’Albero viene identificato con la figura stessa di Cristo, e sarebbe per tali motivi che l’abete di Natale viene addobbato con lumini (che dovrebbero rappresentare la sua luce, come Sole-Bambino), e dolciumi (cioè il suo amore offerto a noi).
In realtà l’uso di inghirlandare lunghi tronchi con dolciumi e prodotti commestibili era già ben diffuso in tutta l’Europa continentale ed insulare, e ce ne rimane una testimonianza, relativamente recente, nell’ “albero della cuccagna”. Ancora oggi in molte zone d’Italia e dell’Europa, rimangono tracce di queste usanze molto antiche. Addobbare l’abete con cose buone da mangiare era quindi solo un elementare rituale propiziatorio, per promuovere nel Sole-Bambino la volontà di essere prodigo. In molte parti d’Europa, nel medioevo gli abeti venivano decorati con uova dipinte e dolciumi. Si passava attorno all’abete tutta la notte, accanto a dei fuochi, e spesso ci si abbandonava a riti orgiastici.
Nei paesi latini l’uso dell’abete, portato con le invasioni barbariche, ma poi scomparso dopo l’evangelizzazione degli invasori, si affermò più tardi. In Francia ad esempio vi fu portato solo nel 1840, dalla moglie del Duca d’Orléans (figlio di Luigi Filippo), Elena di Mecklenburgo. All’epoca la cosa generò una gran sorpresa e fu accolta come una novità. Ma l’albero di Natale così come lo conosciamo noi nasce alla corte della Regina Vittoria. Fu infatti suo marito, Alberto di Sassonia-Coburgo, a portarne l’uso in Inghilterra. Non stupisce che questa creatura, che nella sua forma moderna nacque sotto l’ala del decorativismo fracassone del vittorianesimo, si presti così facilmente a farsi portavoce del mercato e della speculazione.
Una curiosità poco risaputa ed irrinunciabile in ogni discorso filologico riguardante il Natale, anche se non strettamente collegata alle piante, è l’origine del costume di Babbo Natale (che non era fino a quel momento una figura particolarmente notevole): la tradizionale divisa bianca e rosso deriva – in modo un po’ prosaico – da una campagna pubblicitaria della Coca Cola.
Oltre all’abete molte piante sono legate alle tradizioni religiose cristiane. Ad esempio in Inghilterra si dice che il biancospino metta le gemme il giorno dopo Natale e fiorisca a Pasqua. Secondo Giuseppe Pitrè, piante consacrate al Natale, in Sicilia, erano il mirto, l’oleastro, il pungitopo, l’asparagina, e la menta pulegium, che senza rinverdire, fiorirebbe a natale. Nel 1600 i contadini emiliani usavano bruciare rametti di ginepro nelle case per benedirle, oppure appenderne un rametto nelle stalle come portafortuna, o sulle porte per impedire alle streghe di entrare in casa. Il ginepro è una pianta assai considerata dalla liturgia cristiana, tanto che viene spesso identificato con la stessa figura di Cristo. In Germania si crede che il ginepro abbia uno spirito femminile, chiamato Frau Waccholder, che protegge le case dai furti.
Anche l’agrifoglio e il pungitopo sono piante legate ai riti natalizi e considerate portafortuna. Gli antichi romani ne portavano dei rametti durante i saturnali, riti dedicati a Saturno, che precedevano il solstizio d’inverno. Probabilmente le loro funzioni di difesa dai malefici e il loro simboleggiare la nascita del Solis Invictus è dovuta all’aspetto coriaceo e lucido delle foglie, che sono molto spinose, e dal fatto che le bacche rosse siano presenti per tutto l’inverno. In Inghilterra, Francia, Germania e Svizzera, se ne appendevano dei ramoscelli fuori dalle porte. Oggi noi appendiamo ghirlande già pronte, fatte con fiori e rami finti, comprate al supermarket, ma quest’uso moderno ha radici ben più antiche, millenarie.
Altra pianta solstiziale, che poi è miseramente finita a rappresentare l’unità nazionale italiana, è il corbezzolo, poiché i colori delle bacche, dei fiori, delle foglie (rosso, bianco e verde), sono quelli dell’alba solstiziale. Il vischio meriterebbe un lungo discorso a sé, ma diremo che è un simbolo di rigenerazione ed immortalità, ed era pianta sacra presso i druidi dei culti celtici. Addirittura il nome celtico del vischio significava “ciò che guarisce tutto”. Noi, da buoni razionalisti, aggiungiamo che le bacche di vischio sono pericolose se ingerite.