La rete impazza per i fiori di Sebastian Stan dopo la nomination al Golden Globe per “Pam&Tommy”. Nomination della quale Seb non sembra curarsi dopo aver detto che i social gli stanno indigesti (stacca il numero e mettiti in coda).
I fan e le fan si chiedono a chi e dove li stesse portando. Non lo so, ma a guardare i fiori si può tirare una conclusione abbastanza chiara.
Abbiamo un bouquet molto alto e di un certo peso, considerando l’altezza di Sebastian e la sua forza. Il bouquet deve essere sostenuto con due mani durante l’attraversamento della strada. Ovviamente si deduce la presenza di un vaso abbastanza impegnativo, forse di cristallo, di forma quadrangolare, ottimo per essere utilizzato su una mensola o su un mobile, molto meno come centro tavola (sarebbe stato tondeggiante). Difatti la composizione è regolata per essere bella da tutte le angolazioni, ma è privilegiata la parte frontale con il logo.
I fiori sono delle orchidee Vanda, degli ibdidi di Anemone coronaria e di Matthiola incana. Questi ultimi due sono giganteschi, personalmente non li ho mai visti così grandi, e immagino che la coltivazione di piante dal fiore così pesante sia estremamente costosa e non diffusissima. Ci sono anche delle rose da taglio del tipo HT.
Il verde pare il Ruscus che va tanto di moda oggi, che tra l’altro l’Italia esporta molto facilmente.
I fiori -si capisce dal marchio- sono stati confezionati da Julia Testa a Manhattan e basta guardare la sua gallery di foto per trovare molti dei fiori del bouquet di Seb.
Logo di Julia Testa -New York
Ora, io non conosco molto bene le abitudini di gifting degli americani per quanto riguarda i fiori, ma immagino siano molto simili alle nostre.
La composizione trasmette pace e gentilezza, ma anche una certa vivacità. La Matthiola, nella sua versione spontanea, è anche un fiore edule.
In Italia sarebbe una bellissima composizione per festeggiare la nascita di una bimba (dato che è prevalente il rosa) o un compleanno di una bimba, un battesimo, o qualche evento legato a una bambina.
Tutte le foto sono state scaricate dal Daily Mail, a questo indirizzo:
Per la rassegna cinematografica Forum Ambiente a Milano, dopo la proiezione di mercolì scorso del Tempo del Casoncello, di cui ho parlato in questo articolo, sabato 8 ottobre 2022, a partire dalle 16:30, dopo il film Alberi, il film documentario Giardini Indecisi di Emilio Tremolada (per chi ricorda il forum di CdG, stiamo parlando di Trem).
Ho visto maturare entrambi i progetti, Trem è stato così gentile da farmi avere le anteprime, da discutere con me su alcuni punti. Ci siamo scambiati idee e opinioni, perciò io so già che Giardini Indecisi è un film bello, ma complesso, a cui si arriva prima con l’intuizione che con l’analisi.
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate, se avrete la possibilità di vederlo in zona Milano, questo sabato, il mio consiglio è di non lasciarvi scappare quest’opportunità.
***
Attraverso le più svariate esperienze e vissuto nella natura, Giardini Indecisi coglie l’intimo dilemma del giardino contemporaneo e di chi lo pratica.
Spingendosi nelle frange delle funzioni in cui il giardino è oggi sfilacciato, Giardini Indecisi si interroga su quale sia il totale da ricomporre.
Senza giudizi né sentimentalismi, Giardini Indecisi raccoglie il silenzioso muoversi della vegetazione attorno alle aree urbane, la paziente operosità dell’umana che alleva api regine, la pluridecennale raccolta di varietà di frutta dimenticata, la creatività mistica di uno scultore di ossa e sassi, la dedizione della gente comune nella coltivazione collettiva di ortaggi e verdure, quella della singola persona nel curare il giardino in modo da non ledere la terra.
Compaiono nel film i pensieri in corsa di Lara Amalfitano per il suo giardino di campagna, gli ailanti e le robinie e i pioppi che crescono nell’area della ex fabbrica Innocenti, la sorellanza con le api di Benedetta Berardi che seleziona api regine e ne assiste le famigliole, il giardino alimentare tra la terra e la luna di Carla Leni, i suggerimenti notturni di un barbagianni e di un gatto bianco che richiamano Francesca Bettini alla cura di un vecchio giardino, la sapienza e le varietà di antica frutta di Isabella Dalla Ragione, le sculture di sassi, utensili in ferro e ossa nell’orto giardino di Lorenz Kuntner, gli ortisti degli orti condivisi del Giardino San Faustino a Milano.
Nell’inarrestabile scivolare verso la postmodernità, Giardini Indecisi decide di andare controcorrente e ricostruire un intero, un insieme di attività, ludiche, sociali, umane, di pratiche destinate all’alimentazione, alla cura dell’ambiente e della fauna, o semplicemente mosse dalla vocazione all’ornamento.
Guidato da un senso poetico, con il genuino intento di esplorare un’arte da sempre scucita tra scienza, hobbistica, piacere e intuizione, Giardini Indecisi insegue la domanda e la risposta che da sempre agitano le menti dei giardinieri: cosa fa di un giardino un giardino?
Come la natura che ama nascondersi, nella colonna sonora composta da Andrea Inchierchia, gli strumenti musicali si mimetizzano, abbandonano la loro timbrica usuale, suonano spesso in modo indeterminato per essere una nuova voce. Il paesaggio sonoro, suoni di traffico, vento, api, uccelli, trattori, è elemento della partitura che compone la musica di Giardini Indecisi.
Il nuovo The Batman si configura come l’ennesimo prodotto dell’industria dell’intrattenimento cinematografico, perfettamente collocato nel solco della batmanitudine già ampiamente esplorata nel corso di decenni.
Dopo essere stato presentato in ogni modo possibile, Bruce Wayne viene ridimensionato all’umano e assume sembianze fragili e sessualmente indifese. Una scelta precisa, dettata da esigenze di mercato, che sortisce l’effetto di immediata gratificazione da parte del pubblico, quindi nulla di particolarmente originale o nuovo sul fronte della rappresentazione cinematografica di un personaggio dei fumetti americani.
Il film è frutto della potente macchina dell’industria cinematografica e i rimandi ad altri film del circuito abramsiano sono numerosi e paiono finalizzati a promuovere la fruizione di altri film, incrementando introito su pellicole ormai vecchie, o destando interesse verso reboot e saghe senza fine. I continui rimandi visivi e musicali sono perfino soverchianti e non sortiscono un effetto estetico soddisfacente, anzi invecchiano la pellicola, facendola cadere nel Kitsch più pienamente descritto da Greenberg, Dorfles, Moles. “Fare il vecchio col nuovo”, così appare The Batman.
Penalizzato dall’essere inserito in una struttura di postmodernismo estetico in cui legami e rimandi ad altre opere sono fin troppo dichiarati e a rischio obsolescenza, il film è comunque buono e ben interpretato. Questo è un merito lodevolissimo, ma da qui a gridare al miracolo e al capolavoro ne passa.
Insalvabile. Così mi viene da descrivere Cruella, il buon successo Disney, lodato dalla critica e dai tabloid pinkwashed per essere uno dei nuovi film trend del “femminismo mainstream”.
Niente, neanche la precisa e misuratissima interpretazione di Emma Stone, che tiene le righe senza andarci neanche un millimetro sopra, salva questo film pasticciato. Neppure il superbo, svavillante, incredibile, roboante e originalissimo ventaglio di costumi che la geniale e pluripremiata Jenny Beavan ha messo in scena. Niente, nulla, nix, nada, zippo: il film rimane seduto. Emma Thompson, scaltra e navigata, l’ha capito. In ogni singola scena si percepiva nei suoi occhi una sorta di commiserazione per lo stato dell’arte cinematografica e probabilmente per sé stessa e la sua carriera. Un: “Dio mio, come sono cadute in basso queste due” è scappato anche a me, più volte durante la visione.
Il problema è che non c’è più un “alto” dove tentare di andarsi a collocare. Questo è quanto offre il cinema statunitense. Vuoi lavorare? C’è Cruella da fare, se ti piace bene, se no cercati un pulcioso produttore coreano indipendente e vai a fare la fame.
Dopo Maleficient, Cruella è il secondo live action ripreso dai classici film animati, dove si assiste a un ribaltamento dei ruoli che trasfoma la villain in protagonista. L’operazione si presenta con le sembianze di un approccio innovativo, progressista e incline all’introspezione emotiva dei personaggi, lontano dai cliché abusati dalla Disney, di cui ormai anche le persone meno informate hanno notizia. Tuttavia siamo distanti da mutamenti realmente emancipatori, sia cinematograficamente che socialmente.
Considerando solo il linguaggio cinematografico, si sono semplicemente formati nuovi cliché narrativi, adatti alla società attuale, su cui poggiano questi film. Socialmente non c’è nulla di innovativo, ma tutto di accomodante. Viene data la rappresentazione di una donna che appare malvagia, e a tratti lo è, ma questa sua malvagità è spiegata con dei traumi vissuti in giovane età. La “risultante” è una figura fuori dall’ordinario, dotata di genialità o di sensibilità tradita, emarginata a causa delle sue qualità che la società non riconosce. Il film insomma fornisce una backstory alle spettarici totalmente ordinarie, che hanno traumi ordinari per quanto drammatici (padri violenti, mariti abusanti, famiglie prevaricatrici, per esempio), lasciando spazio alla costruzione di un’idea socialmente distruttiva, cioè che l’emarginazione sociale e la mancata comprensione nei nostri confronti sia dovuta alla individuale genialità e all’invidia del mondo.
Quanto di più sbagliato! Non veniamo rigettate dalla società poiché “siamo troppo splendide”, ma perché la società non è strutturata in modo inclusivo (per tutti e tutte). Sposta il demerito della mancata inclusione ai singoli individui.
Questo -lo dico chiaro- è un pensiero malato, e se non lo è, è un pensiero che produce malati.
Un pensiero che sostiene il regime patriarcale in cui vige il “divide et impera”. Le donne non si vedono tra loro come amiche, sorelle, non collaborano, non fanno squadra per ottenere ognuna qualcosa: sono nemiche tra loro. Ne deriva una legittimazione di odio verso le altre donne con una pretestuosa pretesa di essere migliori, più geniali, più sensibili e più meritevoli rispetto alle altre. Se siamo indietro è colpa delle altre donne, è perché noi valiamo troppo per questo mondo e le altre ci boicottano, è perché siamo invidiate per il nostro intrinseco valore. Non è mai perché la società è deliberatamente strutturata in modo da limitare le capacità espressive e l’accesso alle possibilità delle donne. No, la colpa è di altre donne, a cascata.
Cruella molto più di Maleficient, trascina spettatori e spettatrici in questo loop di errata percezione del sé e del mondo in cui viviamo, rafforzando un nuovo stereotipo, che la donna possa anche essere geniale, ma se lo è diventa perfida e la società ha il diritto di isolarla, o -in qualche modo- solo le donne traumatizzate possono essere geniali. Cruella assolve il patriarcato e tutti i suoi errori perché sottilmente invita a pensare che una donna non traumatizzata non possa essere davvero geniale. No, vi assicuro, le donne possiamo essere geniali con e senza traumi, come i maschi, e francamente preferiremmo essere geniali (ma anche mediocri) SENZA alcun trauma. Questo Cruella è davvero la rappresentazione fatta e finita di una auto-assoluzione sociale, più impalpabile dell’evidente e smaccato dualismo standard dei film animati Disney, che si avvia ad essere il nuovo e sottile “cliché principessa”, con la differenza che quello lo avevamo già sgamato, questo ancora no.
È stata recentemente data alle stampe un’opera di Isaac Asimov, rimasta inedita e per buona parte della sua esistenza, anche sconosciuta.
Sembra che l’opera sia stata nascosta dallo stesso Asimov nel doppio fondo di un baule e che questo sia stato donato alla sua zia Tatiana Golubevjia, morta tempo addietro all’età di 107 anni. Il balule, danneggiato durante il trasporto, ha rivelato i dattiloscritti nascosti nel sottofondo.
Anni sono occorsi per una revisione totale del testo e per ricomporre l’ordine delle pagine, ma ciò che ne è emerso compone oggi 15 volumi di circa mille pagine l’uno.
Il titolo dell’opera è -appunto- “Voglio la macchia mediterranea in giardino, disse il cliente” ma ancora non sono stati resi noti i titoli dei singoli volumi.
Sembra che il nucleo dell’opera sia il tentativo di garden-forming a “macchia mediterranea, ma quella che dice il cliente, non quella vera”.
Già, perché ogni cliente ha la sua idea di “macchia mediterranea” o “giardino mediterraneo” (che già di loro sono due cose diverse), completamente aliene dai concetti intesi dallo specialista.
I casi più diffusi di garden-forming a “macchia” sono un’ampia distesa di prato alto due cm e una Cycas al centro di un circolo di sassi bianchi.
Altrettanto diffusa l’idea che la macchia mediterranea in giardino consista in un gruppo di alberi di olivo con al piede salvie e lavande, con qualche inserimento occasionale di Strelitzia, agapanti e “ibisco blu” (su cosa sia l’ibisco blu ancora ci si interroga, ma è probabile che sia un’invenzione originale dello stesso Asimov).
L’opera, come nello stile sognante e avventuroso di Asimov, si distanzia quindi dalla hard sci-fi, che avrebbe visto un insieme di piante apparentemente anonime, alberi di quercia, nelle sue varie specie, mirti, corbezzoli, qualche rosa selvatica a scelta tra la sempervirens e la canina, cisti, ginestre e varie specie infestanti più o meno gradevoli.
Quando il “paesaggismo” diventa demagogia, abdicando alla sua funzione primaria, diventa ridicolo, così come chi lo “professa” in quasi-odor-di-santità. Accondiscendere alle mode non giova altro che alle tasche di chi lo fa, non certo alla salute del globo, né alla bellezza dei giardini o delle installazioni.
Il “giardino sostenibile” è un ossimoro. Da sempre sappiamo (almeno chi di filosofia estetica si è letto qualche libro) che il giardino è l’esatto opposto della Natura. Non a caso Pizzetti scrisse che il vero luogo dei giardini è la città.
Questo non avalla il vebleniano consumo vistoso o lo sciupìo, e men che meno l’inquinamento o il comportamento predatoriao nei confronti dell’ecosistema.
Ma non raccontiamoci favole: il giardino non sarà mai “a zero manutenzione”, a “impatto zero”, “a irrigazione zero”.
Zero è il numero dei neuroni arttivi in queste speculazioni demagogiche rivolte a un pubblico pigro e culturalmente sciatto.
Tutto ciò ha un nome, si chiama “greenwashing”
On air la carogna mattutina con scialletto da nonna.
#mbuti!
Voglio un albero che sia colorato e appariscente, che non sporchi, non perda foglie in continuazione, lasci passare la luce in inverno e faccia una bella ombra d’estate.
Voglio che non si sciupi col vento e la salsedine, che non richieda annaffiature, che non cresca troppo ma non sia neanche piccolo, che non ingombri e che non sia necessario potarlo, e soprattutto che costi poco.
Con 10 euro lo prendi alla Lidl del colore abbinato alle tue petunie.
Qualche tempo fa ho intercettato l’ennesima discussione facebucchiana sulla pubblicità Pandora, fatta non da femministe o maschi Neanderthal, ma da giardinieri.
Lì per lì mi è venuto da ridere.
Mi sono chiesta: ma possibile che manco i giardinieri si siano resi conto di quanto è brutta? E dire che il giardiniere dovrebbe avere una stretta frequentazione con l’Estetica (a quelli che confondono l’Estetica con l’estetista consiglio di passare ad altro blog).
Dato che oltre a una occasionale e non sempre riuscita funzione aggregativa e sociale, i giardini non hanno altro scopo che essere belli (funzione estetica -Mukarovsky), i giardinieri dovrebbero essere in grado di percepire il Bello, anche se la sua definizione non è univoca. E altrettanto dovrebbero essere in grado di riconoscere il Brutto, e visto che la storia della Filosofia ha evidenziato nel corso dei secoli un profondo legame tra l’Estetica e l’Etica, anche l’etico e il non etico. In breve, l’Estetica ci aiuta a comprendere quale è la parte più umana e preziosa di noi, come individui e come specie, e quale dovrebbe essere superata.
La mia sorpresa nel nel leggere commenti del tipo “Pandora libera la filippina che è in te” , “La pubblicità è riuscita nel suo scopo, cioè far parlare di sé” o ancora “bisogna prendere le cose con leggerezza”.
Altri non me ne ricordo ma erano tutti sullo stesso tenore: indifferenza, qualunquismo,abdicazione al senso critico, stupidità o conformismo spregiudicato.
E dargli fuoco?
Sulla filippina che è in te, finalmente liberata dal gioiello Pandora, taccio poiché si tratta di razzismo puro e semplice (pare che vada ancora di moda, specie al Nord).
Che lo scopo delle pubblicità sia far parlare di sé è un pleonasmo, ma non a scapito di qualcuno. La pubblicità non deve essere offensiva o denigratoria, per due ragioni: la prima è che denigrare, sminuire, svilire, decontestualizzare una categoria sociale riposizionandola a seconda delle necessità del brand è semplicemente sbagliato, antietico, e anche brutto. Sì, brutto.
La seconda ragione è quella categoria di persone potrebbe essere indotta a non acquistare più quel marchio o invitare le altre persone a non acquistarlo: questo non non è un buon affare per quella marca.
I più matusa -qui- ricorderanno la protesta dei veterinari contro una pubblicità di non ricordo quale liquore, un amaro, che in maniera “incidentale” li ritraeva come persone amanti del buon bere. I veterinari s’incazzarono un bel po’, e quella marca dovette ritirare lo spot per buttarla poi su un prezioso vaso che doveva essere salvato con un aereo, o qualcosa del genere.
Nessuno si è scandalizzato per la protesta dei vet, né ci ha riso sopra, né ha invitato questi professionisti (per il solito molto ricchi e assai corporativi), a “prenderla con leggerezza” o gli ha mai detto “e fattela ‘na risata, doc!”, specie se il suo cane stava sul tavolo operatorio con una zampa in attesa del gesso.
Delle volte mi viene in mente Lisistrata e sospiro.
Quindi per me chi dice che “Pandora ha centrato il suo scopo” è afflitto da conformismo ed è così biscottato dalla società da non riuscire a distinguere il Brutto dal Bello, il Buono dal Giusto, il Vero dal Falso.
Perché non te lo compri? Costa solo venti dollari!
A chi sostiene “prendila con leggerezza” o invita alla risata, rivolgo una domanda: perché sulle bacheche di tanti e tanti giardinieri in questi giorni ci sono dotte e infinite elucubrazioni su “Spelacchio”? Perché ve la prendete se abbattono gli alberi nelle vostre città? Siete sempre a lamentarvi di questo o quello (condividendo, non sia mai scrivendo un pensiero proprio o FACENDO qualcosa), tutti a dire “ah, le fioriture sono impazzite a causa del clima” o “certo, questo accade se le amministrazioni mettono degli stupidi a potare gli alberi”, e poi però -quando la cosa non tocca voi e il vostro giardinetto- tutti a dire “E prendila con leggerezza”.
E che giardinaggio vuoi fare così, core bello? Ma dove vuoi andare? Ti fermi giusto alle rose, tutte ammucchiate perché “di più è più bello”, alle fioriture in massa, alle cazzatelle shabby chic, al romanticismo senza interpretazione. In te non si alzerà mai l’ala della poesia, non avrai mai il coraggio di fare il passo del leone, e il mondo finirà alla siepe del tuo giardino: ciò che accade fuori non ti turba, non ti interessa e non ti disturba. Finché avrai acqua abbondante per irrigare, i soldi per comprare le rose a radice nuda, il diserbante e l’antiparassitario al supermarket, per te andrà bene tutto. E rimanici nel tuo “tutto”.
Giardiniere Pandora, tu sei un giardiniere Kitsch, prendine atto.
Ti è piaciuta la pubblicità Pandora? E beccati un giardino BRUTTO.
Ecco i giardini che ti meriti, giardiniere Pandora: li ho scelti col cuore pensando a te.