Il tempo del Casoncello, di Emilio Tremolada – domenica 27 ottobre a Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come nessuna altra arte il giardino ci induce a un pensiero naturalmente quadridimensionale. Siamo culturalmente avvezzi a definizioni del giardino come di spazio o luogo, ma ognuno di noi è in grado di percepire lo scorrere del tempo all’interno di un giardino. Per quanto riguarda me il giardino è maggiormente un’articolazione del tempo, che si materializza nello spazio tridimensionale.
È solo in quest’ottica che si può comprendere la delicata e potente stratificazione estetica del giardino del Casoncello, di Gabriella Buccioli, nel bolognese.
Di questo giardino abbiamo letto la nascita e l’evoluzione nel libro I giardini venuti dal vento. Un giardino che può variare sensibilmente da un anno all’altro, di cui è impossibile cogliere ogni aspetto, proprio perché mutevole, sfuggente.
Ne racconta alcuni momenti il film di Emilio Tremolada “Il tempo del Casoncello”, un documentario che sia nell’esito che nel procedimento di realizzazione riesce a materializzare l’importanza della quarta dimensione nel giardino.
Girato poco alla volta, senza seguire lo standard dei documentari analoghi, cioè quello del classico fluire stagionale, il film raccoglie momenti, apre porte nella storia di questo bosco giardino, porte che sono ancora aperte, porte chiuse, porte che non portano più dove portavano prima. Porte che possono essere attraversate -oggi- solo in questo film.
“Ho seguito il dipanarsi del filo del giardino per anni, filmando quello che mi piaceva o mi muoveva un emozione, un pensiero. All’inizio non avevo nessun progetto preciso, ma nel tempo -nel mio tempo- il film mi si è materializzato davanti da sé”, dice Tremolada.
Forse perché filmato con uno stile rigoroso, preciso e poco indulgente alle romanticherie, alle ricercatezze di luci dorate o di scene d’effetto, il documentario risulta carico di poesia -come il giardino stesso. Reso ipnotico da un affondo nella ricerca dei suoni della natura, a volte amplificati e resi stranianti, e da una colonna sonora irregolare e aspra, costellata da sonorità metalliche e taglienti: nulla di più distante da ciò che consuetamente immaginiamo per raccontare un giardino.


Il film sarà presentato in anteprima assoluta domenica 27 ottobre alle ore 10:30, al Milano Design Film Festival, all’Anteo Palazzo del Cinema. Il festival si arricchisce della nuova sezione BLOOM dedicata all’ambiente, sostenibilità, giardini, paesaggio e persone, curata da Antonio Perazzi.
Qui potete vedere il trailer del film

Il memo delle date e degli orari:
ANTEO PALAZZO DEL CINEMA, Milano
27 ottobre 2019 ore 10:30

La citazione come elemento distintivo del Postmodern

Un paio di giorni fa, su Radio3, andava in onda un’intervista a Franco Micalizzi sulle numerose citazioni di Quentin Tarantino della sua colonna sonora di “Trinità”.
Micalizzi ha detto qualcosa del genere: “Vengo da una scuola in cui eravamo abituati a comporre musiche originali, l’unicità era ciò che ci distingueva. Ma se altri si trovano bene nell’esprimersi attraverso ciò che ho scritto io, a me fa solo piacere, tantopiù che Tarantino lo fa in modo splendido”.

Poi sono dovuta andare a fare la spesa.

Non è la prima volta che mi capita di sentire qualcosa di analogo, quando mi interrogo sulla natura della citazione: “esprimere se stessi, ma con i termini già fatti da altri in precedenza”.
Se questo è senz’altro vero per la citazione scritta, non lo è sempre per quella visiva o musicale.
Come tutti, sono affascinata dalle citazioni, dagli aforismi e dai brevi proverbi. Sono quel tipo di persona che non ricorda le date e i nomi, ma che sa a memoria interi film, battuta per battuta. Sì, sono una di quelle odiosissime persone che mentre la famiglia è riunita a vedere un film, dice la battuta un secondo prima che esca dalle labbra degli attori.
A volte rispondo frasi apparentemente sconnesse e senza senso:

“E come ci piace la pastella a lei? Normale, al dente o ben cotta?”.
“Era buona la totta?”.
“Sì, però è un caldo asciutto!”.
“Follia completa!”.
“Scusi il francese”.
“Alla grande grande”.
“È stata una giornata brutta brutta brutta”.
“A chi, al tonno?”.
“Sì, la torta la prendo, ma non riscaldata”.
“Tu sei quello che i francesi chiamano “les incompétents” “.
“Piccoli bambini negri di Shimoga più ritardati che io”.
“Stronzo inutile!”.
“Inconcepibile! Del tutto, in qualsiasi altra maniera, inconcepibile!”.
“Travalica la mia capacità di razionalizzare”.

Credo che mai come in questa epoca storica la citazione veda il suo momento d’oro. Non solo la citazione pura, quella dei tesauri o degli almanacchi, delle agende e dei calendari. Intendo proprio la citazione artistica, cha a volte diventa appropriazione di un’altra opera d’arte.
Da studentessa ho imparato a guardare la citazione come un escamotage, tollerata se ispirata alla cultura istituzionale o elevata. Solo i più ardimentosi pescavano nel magma della cultura pop.
Era pericolosa, malvista.
Solo le rock star, i registi, i grandi fotografi, erano ammirati quando riuscivano ad inserire una citazione all’interno delle loro opere. Tutto il resto del mondo era biasimato.

Oggi la citazione artistica è un elemento quasi necessario per farsi comprendere, per parlare agli altri. Le opere originali sono considerate o “visionarie” o “cerebrali”.
La mole di film che citano film che citano altri film, è una testimonianza tangibile, poiché -su tutto- il cinema si presta ad accogliere suoni, parole e immagini, e quindi citazioni provenienti dalle più disparati fonti, anche diverse, mescolandole.

La citazione non è solo un mezzo espressivo attraverso le opere altrui, ma -dopo attenta e lunga anlisi- sono arrivata a concludere che sia uno degli elementi distintivi del Postmodernismo.
Giubbini scrisse che viviamo in’epoca senza stile, come paradigma artistico, non come “classe” o “raffinatezza”.
Il Postmodern si qualifica per non possedere uno stile a margini fissi, ma proprio per il suo eclettismo, molto più ampio di quanto possa essere stato ogni eclettismo passato, grazie alle suggestioni che provengono da ogni parte del globo. Il Postmodern non è riuscito a individuare una serie di regole estetiche precise, nuove, proprie. Ma le ha mutuate dai periodi precedenti, fondendole in un modo perfettamente riconoscibile.

E allora vedete che piano piano ci stiamo arrivando: non è cosa ma come. È il modo in cui questi elementi vengono isolati, frattalizzati, incollati o fusi, su cui si basa lo standard of taste del Postmodern.
Se ne evince che l’originalità non trova facile collocazione all’interno di un insieme eterogeneo. Non si capisce cos’è e la si ignora come elemento estraneo o non pertinente.
Mentre ciò che già risiede nell’immaginario collettivo, vuoi per la sua grande potenza espressiva che per la sua età, assolve meglio alla funzione “copia e incolla”.

Conclusione: ringrazio tutti coloro, dotti e professori, a cui ho posto questa domanda e che mi hanno risposto in modo superficiale e disattento. Ringrazio la mia autonomia di pensiero e la capacità di attendere l’input giusto, e -ovviamente- il signor Trinità.
lo chiamavano trinità