Recensione con SPOILER


Heat è uno dei manga più apprezzati della consolidata coppia Buronson-Ikegami grazie anche al fatto di essere stato pubblicato non ribaltato. Beneficiando della precedente esperienza con Sanctuary, la Star Comics pubblica Heat in lettura alla giapponese. Heat diventa cultuale negli ambienti degli amanti del manga di yakuza-pulp. Tale è l’apprezzamento per questa coppia che la Star ripubblicherà Sancuary in edizione non ribaltata a partire da questa estate. Se consideriamo che per Akira sono occorsi 32 anni e che per alcuni titoli non sembra neanche profilarsi all’orizzonte una eventuale ripubblicazione (come Jenny la tennista, in cui sono tutti mancini), la riedizione di Sanctuary è certamente notevole.
Penalizzato da un formato piccolo che non toglie nulla al disegno sempre nitido e dal segno spesso di Ikegami, risulta faticoso da tenere in mano e da sfogliare. Inoltre le rifilature (specie in alto) a volte mangiano uno o due millimetri. Questo è purtroppo un terribile e annoso difetto tipografico che accomuna negativamente tutte le più note case editrici italiane di fumetti, dalla Panini alla J-Pop (forse la più manchevole in questo senso), alla Star Comics.
Nonostante sia stato pubblicato nel 2012 e il copyright riporti come data di pubblicazione in Giappone il 2010, con ogni evidenza il manga è di almeno dieci anni anteriore. Lo si nota non solo da alcuni dettagli, ma dall’ambientazione e dai continui riferimenti all’esplosione della bolla edilizia e al decennio perduto.



Il manga è ambientato a Kabukicho, il noto quartiere luxury di Tokyo, dei giochi d’azzardo e della prostituzione. Il protagonista, Tatsumi Karasawa, è un giovane affascinante e spavaldo, che vuole “picchiare tutti i bastardi che non gli vanno a genio” e mettersi a capo dei poteri che govenano Kabukicho, sfidando anche la yakuza.





Lo sfondo del quartiere è decisamente uno dei protagonisti. I paesaggi urbani sono una delle qualità più irresistibili del manga, che qui si appoggia a degli scatti di Ito Masazo e dello stesso Ikegami. Kabukicho viene spesso ritratto di notte, quando le luci sono accese, i neon lampeggiano e le insegne creano dei grafismi pop e postmodern. Ikegami riesce a ottenere una grande profondità di campo attraverso l’uso combinato del retino e del tratteggio. Alleggerendo sia l’uno che l’altro, e soprattutto “aprendo” il tratteggio (cioè distanziando i singoli tratti di penna), le luci distanti diventano evanescenti e il paesaggio urbano morbido ma non confuso, con le tipiche sfocature delle fotografie notturne dei quartieri ricchi di insegne e neon.
La città diurna è invece imponente e “ufficiale”, ricca e militaresca. I grattacieli sono ripresi quasi sempre senza distorsioni prospettiche, il che a volte li rende statici. Minuziosa la cura dei dettagli, dai quali si può evincere la probabile collaborazione di un certo numero di assistenti.





Inevitabile il confronto con Sanctuary, Heat ha numerosissimi e inattesi problemi che lo appesantiscono e ne diminuiscono il fascino in modo sensibile. Il protagonista, Tatsumi Karasawa, non ha la ricchezza della personalità di Akira Hojo (la sua controparte in Sanctuary) né un aspetto particolare. I visi di Ikegami sono sempre molto simili a un Elvis giovane, e Karasawa ha una capigliatura disordinata che non lo rende “selvaggio” ma solo scomposto, con qualcosa di John Travolta da Febbre del sabato sera. L’apprezzamento per i volti cinematografici è una costante in Ikegami, che è probabilemente un grande fruitore del cinema occidentale e per questa ragione riesce a disegnare molto bene diversissime fisionomie. Ikegami è anche uno dei rarissimi disegnatori giapponesi in grado di rendere bene i tratti africani e i diversi colori dell’incarnato con una retinatura molto precisa.



Il volto di Karasawa non è convincente, come anche la sua espressione un po’ monolitica e spavalda, ma è il problema minore, sebbene il fascino dei personaggi maschili sia uno dei pilastri di Ikegami. Il punto è che il lettore non riesce a entrare in sintonia con Karasawa e prendere le sue parti. Sia perché il personaggio ha spesso atteggiamenti violenti e da teppista di strada -che vengono però descritti come eticamente accettabili o addirittura nobili- sia perché non riesce a condurre il filo narrativo in modo lineare.


Il sesso -si sa- abbonda nelle opere di Ikegami almeno quanto il sangue: Karasawa è un violento, ma sempre nei confronti degli spavaldi e di “quelli che non gli vanno a genio”. La violenza sessuale sulle donne per estorcere un’informazione o per umiliare un altro uomo è contraddittoria ed è fanservice di bassa qualità, su cui è necessario passar sopra, ma che di certo diminuisce l’appeal del protagonista (al contrario di quanto avviene per Yo Hinomura di Crying Freeman, che contiene più scene di sesso violento, ma non intrinsecamente contraddittorie con il personaggio).
In Heat sono presenti temi molto caratteristici di Buronson e Ikegami, la povertà dei quartieri marginali, lo strozzinaggio, il potere del danaro, il sangue, la fratellanza tra gli yakuza, anche se a differenza di Sanctuary qui l’omosessualità è dichiarata, specie nella prima parte del manga, quando un gruppetto di ragazzi apre un bordello di maschi a Kabukicho, e successivamente nel rapporto tra Raymond Tao e il giovane Han (devo confessare che moltissimi elementi di questa vicenda mi hanno ricordato il BL Finder di Ayano Yamane).





Tastumi Karasawa riesce, con il suo fascino sugli uomini e le donne, con la sua integrità (a patto non si tratti di stuprare una donna di quando in quando, ça va sans dire ) e la sua sete di giustizia, a aggregare attorno a sé un certo numero di ragazzi a cui dare una speranza per il futuro, a far convergere gli interessi di gruppi finanziari ed etnici differenti, della yakuza stessa, su Kabukicho, per rinnovarlo e migliorarlo. Nessuno è immune al fascino di Karasawa, tanto che alcuni uomini se ne dichiarano “la donna” (è il caso di Itami, lo strozzino), e altri agiscono per puro sentimento di invidia nel tentativo di distruggerlo (come Murasame). A volte, vinti dal suo potere attrattivo e dalla fermezza delle sue convinzioni (stupri a parte, ok, ok), dopo aver invano lottato, si alleano con lui (come il boss Fujimaki, il personaggio più bello e tridimensionale di tutta la storia). Karasawa è insomma il motore totalizzante del manga, ma vuoi per esigenze editoriali, vuoi per una certa stanchezza di Buronson, Karasawa risulta quasi sempre indigesto. Le scene di lotta e di armi da fuoco rimangono sempre la parte migliore del manga, mentre la vicenda stenta a trovare una sua linearità proprio per un tentativo non perfettamente centrato di narrare attraverso le vicende di un singolo, quelle di un Giappone in fase di mutamento. Dal passaggio alla ricchezza prodotta dalla bolla, alla sua esplosione. Karasawa si fa chiudere in galera per qualche anno proprio a metà del manga, riemergendo in una Kabukicho frenetica e lussuosa.




Heat si muove a zig zag, va a salti, ha una narrazione a singhiozzo che non coinvolge. Inoltre è molto lungo. Dieci numeri di personaggi che ripetono le loro azioni sono tanti. Infine Karasawa riesce a fare quello che doveva fare, ma non si capisce bene come. Ciò che manca in Heat, mentre è assolutamente cogente in Sanctuary, è uno scopo dei personaggi. L’azione è dispersiva e Karasawa non basta da solo. Non si comprende bene né da quali principi etici e morali parta (che siano condivisibili o meno è una questione totalmente diversa), e quale sia il suo scopo finale. Sembra solo desideroso di imporre il suo metro di giustizia, che non è neanche univoco, ma variabile a seconda delle esigenze di sceneggiatura e di “picchiare tutti i bastardi che non gli vanno a genio”. Come Karasawa, l’intera narrazione sembra annaspare alla ricerca di un concetto fisso di giustizia nel quale poter affondare una pietra angolare. Infine Karasawa riesce a conquistare una felicità personale, ma in modo frettoloso e poco comprensibile, come fosse un “atto dovuto” della scenggiatura a un personaggio che ha faticato per dieci numeri.

Il mantra del personaggio reggente – non basta che ci sia una giustizia in termini de iure, ma deve esserci de facto– non sembra sufficiente a condurre il racconto in modo lineare, ma soprattutto fa risultare Karasawa in contraddizione con sé stesso, dato che lo vediamo comportarsi spesso in modo iniquo, anche per quelle che sono le “leggi della strada” o lo “spirto yakuza ch’entro mi rugge”, o -più semplicemente- per lo stile rude e violento di Buronson, reso sofisticatissimo dal disegno della Divinità Ikegami.


Per quanto sforzo Ikegami ha profuso nelle scene d’azione, nella dinamica dei movimenti, che per certi versi sono superiori in plasticità a quelli di Crying Freeman, non si riesce proprio a parteggiare per Karasawa, tanto che l’interesse si sposta verso personaggi secondari, come Joshima o Murasame. Se il corpo di Karasawa si muove, il suo volto rimane immobile. Questo è un tratto tipico dei personaggi reggenti di Ikegami, che risultano imperturbabili laddove i personaggi secondari sfoggiano una quantità infinita di espressioni e fisionomie. Ma tra l’imperturbabilità e la monoespressività il passo è sottile e qui Ikegami sembra affaticato.









Il personaggio più interessante è senza dubbio il boss Fujimaki, lo stesso Ikegami, in una purtroppo brevissima intervista alla fine del decimo volume, rivela essere stato il suo preferito. Io ho apprezzato moltissimo Joshima, il procuratore corrotto che alla fine corrompe la sua corruzione in favore di Karasawa.
Il boss Fujimaki rappresenta il vero “cuore yakuza”.




Come sempre, Ikegami inquadra i suoi personaggi da sotto in su, ottenendo sia maggiore plasticità nei volti, sia quella solennità espressiva che lo contraddistingue e che ad oggi non è stata raggiunta da nessun altro mangaka.



Heat non è una vicenda divisa in episodi, quanto la serializzazione di azioni e scenari funzionale alla vendita di quanti più numeri possibile. Da qui la cesura poco dopo la metà (cosa che accade molto spesso nelle pubblicazioni fortemente commerciali, come anche in Death Note, la più esemplare in questo senso) e gli ultimi tre numeri, sconclusionati e frettolosi, e un finale attaccato con la puntina da poster.
Per la stessa ragione gli avvenimenti sono abbastanza confusi e illogici, non sembrano essere stati pensati e costruiti in modo organico, ma solo proposti di volta in volta per essere letti senza ricordare nulla delle “puntate precedenti”. E ancora, è sempre per la stessa ragione che le alleanze mutano piuttosto velocemente, rendendo i personaggi incoerenti, e che a ogni avanzare spuntino sempre nuovi “cattivi”. Altro “malus” è la presenza di una delle caratteristiche dei videogiochi: i numerosi “livelli di vita”. I personaggi prendono pallottole in pieno petto, sanguinano a terra come morti, poi vengono fasciati con la camicia strappata a qualche ragazza di passaggio, e miracolosamente sono già pronti a dar battaglia già alla pagina successiva.
Le personagge come sempre sono molto ben realizzate. In particolare Natsuko, la fidanzata di Karasawa, cornificata millemila volte, e la bellissima moglie di un anziano yakuza, per la quale il boss Murasame sarebbe capace di tutto.



Ce ne sono altre di contorno, perfino interessanti. La più degna di nota è Ryo, amante di Joshima, grazie alla quale si può apprezzare la propensione molto evidente di Ikegami nel disegnare i personaggi, sia maschili che femminili, in pose da rivista di moda, in particolare durante la camminata frontale, che appare quella tipica di modelli e modelle, e che era stata ancora più evidente nella seconda parte di White Haired Devil.

Minuziosa la resa di particolari, come le armi, le automobili, i veicoli. Questo fa pensare a un certo numero di assistenti, che però non sembrano essere stati segnalati. Ovviamente è chiaro l’uso di materiale fotografico di qualità, creato su misura per il manga.


Anche in Heat è magnifica la resa dei volti, ma la quantità di personaggi rende a volte difficile la memorizzazione.



Gli ultimi tre numeri, in cui l’azione è più liquida che mai e tutto sembra rotolare via senza senso, incontriamo una personaggia interessante, affine alle killer di tarantinesca memoria, non giapponese ma cinese.


Heat è senza dubbio un’opera di grandissimo pregio estetico, forse il miglior Ikegami, per complessità di disegno. Tutte le problematiche sono nella conduzione della sceneggiatura di Buronson, che vorrebbe esplorare tematiche profondamente incisive, come la povertà e le strategie finanziarie, ma forse per necessità editoriali rimangono costrette in un abito del tipo “Gomorra” che ben conosciamo.
Un imperdonabile difetto sono le copertine, decisamente bruttine. Tanto che ho dimenticato di fotografarle e vi metto quindi la foto della pila di volumetti.
