256 sfumature di confusione

color-thesaurus-correct-names-green-shadesÈ da qualche tempo che ho maturato una certa difficoltà nel farmi capire quando parlo dei colori. Mi chiedo se sia un problema tutto mio o se sia generalizzato. Forse è qualcosa che ha a che fare con la nomenclatura del Novecento, perché io nel Novecento ci sono nata.
Anche voi, fidi lettori, vecchi babbioni del secolo precedente, avete le mie stesse difficoltà? Avete continue incomprensioni con l’estetista, il parrucchiere, le commesse dei negozi di abbigliamento?
Io sì.

In genere -quando non mi ritrovo con le loro palette- sto zitta e cerco di riadattare la mia paletta alla loro. Mi sforzo di capire dove collocano i colori secondari, i freddi e i caldi. Ma vi garantisco che è difficile. Quando sento dire: “Il cedro è un colore caldo” o “Ma non è grigio, è tortora!”, mi viene da svenire e mi torna in testa una frase del mio lessico familiare: “Non è pesce: è tonno!”.
Mi ritrovo a dove usare i colori primari, e descrivere i secondari come mescolanze: “Intendi dire quel giallo verdino?”.

Penso di essermi scombussolata il cervello, di aver perso l’occhio, di avere un astigmatismo galoppante o un daltonismo incipiente. Poi parlo con gli amici giardinieri, con i colleghi pittori, e tutto magicamente si incasella. Nessuna incomprensione, tutto va al suo posto: temi di non essere compresa, ma ti accorgi che dall’altra parte il messaggio telepatico contenente quella certa frequenza e lunghezza d’onda, è arrivato senza fraintendimenti.

Allora perché le etichette sono così confusionarie?
La spiegazione è semplice, ma quello che c’è dietro è molto complesso. Sono le merci che provengono da altri paesi a non essere etichettate in maniera coerente con le nostre vecchie diciture, e -anche peggio- non coerente tra loro. Noi acquistiamo le merci (in realtà solo le merci che acquistano noi, ma questo è un altro capitolo della storia), leggiamo le etichette, apprendiamo che quel cappello o quello smalto sono di quel colore, e lo trasferiamo ad altri oggetti, i quali non hanno la stessa provenienza e hanno etichette differenti, con un colore differente. Iniziamo pertanto a utilizzare i due termini in maniera interscambiabile, facendo confusione.
Le parole migrano molto velocemente.

Esempio lampante: il viola. Noi per viola intendiamo una mescolanza più o meno equilibrata tra il pigmento azzurro e quello magenta.
Viola caldo se è più magenta, viola freddo se è più blu. Viola scuro se è più saturo, viola chiaro, lilla o ciclamino se c’è più bianco.
Con l’importazione di merci e colori americani, è diventato comune l’uso di indicare come “porpora” i colori viola. Perché per gli anglofoni il porpora è un viola acceso, mentre “violet” è un color viola freddo, a seconda dei casi c’è pure un po’ di grigiolino.
Non sono proprio termini invertiti ma quasi. Basta che diate un’occhiata alle pagine di Wikipedia inglesi o americane, cercando “purple” e “violet”.
Il fatto è che da noi il porpora è un rosso acceso, scuro, saturo. Eppure spesso sono costretta a usarlo per intendere un viola scuro e freddo, che noi indichiamo genericamente con il termine “indaco”. Ma se dico “indaco”, di solito le persone pensano ad un azzurro chiaro, ceruleo.

color-thesaurus-correct-names-grey-shadesI grigi. Anche qui un bel casino. Il grigio è il colore degli anni ’10. Fino a poco tempo fa usato come sinonimo di “cementizio, abbandonato, mortifero, deprimente, anonimo, impersonale”, ora il grigio è status di eleganza.
Il colore che mi sorprende è il tortora. Vi prego, arrotate le erre quando lo leggete. Torrrrr-tou-rah.
Qualche anno fa, in una sfilata importante, alcuni stilisti coniarono nuovi termini per i colori, come il famoso “greige”, un misto tra il marrone e il beige.
Bene, ricordo con estrema precisione una puntata di “Che tempo che fa” in cui Fazio ironizzò sulla necessità di coniare nuovi termini, dicendo: “Ma i nomi per questi colori non c’erano già? Ad esempio il greige non si chiamava tortora?”.
Non so se gli stilisti furono colpiti, evidentemente come lo sono stata io, dal ricordare l’esistenza del color torrr-tou-rah, ma sta di fatto che il tortora impazza (e anche le tortore, uccelli che evidenziano l’impoverimento della biodiversità della fauna periurbana), per quanto le tortore siano più grige che tortora.

La confusione tra verde, turchese, azzurro e blu, è tale che non riesco a scriverne.

Grandissimi pasticci anche per quanto riguarda la temperatura dei colori. A quanto pare “freddo” è diventato sinonimo di scuro, mentre “caldo” di luminoso, quindi poco saturo o con molto bianco.
Il giallo freddo è un mistero della fede per molti.
Verde caldo o verde freddo sono esclusi dalla sfera della merceologia, ci sono solo tinte esotiche, come “verde bengalese”, “avocado”, “lime”, “jungla” “pakistan”, e vi giuro, in un colpo di politicamente corretto, anche un “islamic green”.

Conierò un nuovo nome anche io, il “blu roccella”. Se volete sapere che colore è, prego avvicinarsi alla spiaggia di Roccella, in zona Dogana, verso le quattro dei pomeriggi invernali.

L’etica dell’informazione giardinicola

Esiste un’etica nell’informazione giardinicola? Secondo alcuni sì. Si tratterebbe di rinunciare ad ogni commento nella stesura delle informazioni orticolturali che riguardano le piante. Un po’ come accadeva prima degli anni ’30 negli Stati Uniti, quando si richiedeva ai giornalisti la precisione e l’asetticità delle informazioni: “Tanti piselli un tanto al sacchetto” era il motto dell’imparzialità giornalistica.
Ai commenti si darebbe spazio nelle riviste, non nelle enciclopedie. Ha una sua logica, bisogna dire, purché nelle riviste l’informazione non si riduca al puro commento, come spesso accade.
Il commento è nè più nè meno che l’esternazione della personalità dell’autore, del suo gusto, della sua esperienza (o mancanza di esperienza), dell’ambiente sociale e culturale dal quale proviene,del suo sesso, età, cultura, preferenze botaniche, principi estetici, etici e morali, persino del suo essere a conoscenza del target a cui punta.

Molti si lagnano che la Garzantina di Pizzetti non sia un’enciclopedia, ma una sorta di ibrido tra un pamphlet, un diario personale e un libro sui fiori.
Il valore delle Garzantine è sempre stato quello propedeutico ad altre letture più specializzate, pur mantenendo un’imparzialità informativa di base che le ha da sempre rese strumento importante di consultazione scientifica per studenti e studiosi.
In questo senso dovremmo ammettere che Pizzetti tradisce ben volentieri questo principio, non limitandosi -giornalisticamente parlando- allo straight reporting, ma allo interpretative reporting che -ad oggi- è il modello di tutti i più importanti giornalisti professionisti.

Quindi la Garzantina dei Fiori si pone in maniera anomala rispetto alle altre garzantine, e io credo che non potesse essere differentemente visto il personaggio che l’ha realizzata e il tipo di materia analizzata, così subdolamente al confine tra la scienza esatta e l’arte più volatile.
Che Pizzetti non riuscisse a dire “tanti piselli, un tanto al sacchetto” senza infilarci più o meno di straforo un suo commento, era un dato inevitabile. Pizzetti era un artista, oltre che un giardiniere, anzi, forse era più un artista-giornalista che un giardiniere. Un po’ come Vita Sackville-West, di cui si dice che fosse il suo giardiniere a tenerle in piedi il giardino e che i suoi gusti non fossero poi così raffinati. Ma gli articoli! Oh, gli articoli! Quelli sì che sono dei capolavori, forse ancor più del suo giardino stesso. E pensare che lei li disprezzava chiamandoli: “Quella robetta che mi pubblicano sull’Observer“.

E allora? Cosa dire agli amici che cercano informazioni “assolute” su piante e fiori? Io personalmente direi che esistono altre enciclopedie molto buone e del tutto imparziali a cui attingere, e poi c’è l’esperienza diretta. L’errore in cui si cade è “divinizzare” un opposto o l’altro. Il filosofare senza fare (di cui a qualche coglione sembra che io sia paladina solo perché mi mancano i soldi per comprarmi le piante) e il fare ottuso, privo di qualsiasi connotazione estetica o emotiva, di qualsiasi interpretazione, domanda o riflessione.

Pizzetti non è infallibile e a volte dà dei consigli su cui francamente si può sollevare più di un’obiezione. Molte sono le piante su cui si appunta il suo sdegno per come vengono usate, molte altre sono quelle sulla cui bellezza ironizza. Alcune sono quelle per cui prescrive situazioni estetiche particolari, ma in nessun caso mi è capitato di leggere un giudizio così severo come sui gladioli.
Il gladioli, secondo Pizzetti, sono appena accettabili in vaso, mai in giardino. È una affermazione non troppo ben spiegabile soprattutto perchè posta come un diktat.
Speriamo non molti ne tengano conto, immaginando che Pizzetti dovesse avere un suo motivo particolare per sconsigliare i gladioli in giardino.

I gladioli sono molto belli in giardino, invece, sia nella ormai indistruttibile brodura mista (apice della ottusità giardinicola italiana), sia in versione cottage che in variante “Lloydiana”-tropicaleggiante, dove il fogliame slanciato è apprezzato, sia in versione prairie, tra le graminacee, che ne smorzano l’effetto spadiforme che a molte signore chic non piace, tra fiori semplici che punteggino l’erba (anzi, a questo scopo Pizzetti consiglia di usare il G. byzantinus). Tra l’altro in mezzo all’erba alta, il gladiolo sarà sorretto e perderà quella brutta abitudine di piegarsi all’attaccatura del colletto, evitando il fastidio di sorreggerli con cannucce.
Ma molto meglio rendono in quei giardini dalla terra grossolana, al limitare tra campagna e città, lungo un muro esposto a sud, vicino ad altre bulbose come narcisi, anemoni, crochi, ecc. Un cutting garden all’italiana, insomma. Una macchia di gladioli in un vecchio giardino, tra un hibiscus e una vetusta magnolia, un po’ dietro il fogliame compatto degli asparagi, da raccoglierne qualcuno quando si passa col cappello di paglia in testa per proteggersi dal caldo. Un cespo fitto e non diviso di gladioli nella villetta di una vecchia stazioncina di provincia, dove fioriranno indisturbati da Trenitalia. Gladioli “mediterranei”, d’accordo, ma ogni pianta ha la sua vocazione in luoghi che hanno una vocazione. Se il luogo non ha vocazione, nessun fiore lo renderà bello.

Per finire come non citare il famoso Gladiolus psittacinus, accorsatissimo dai designer più estrosi, o il Gladiolus tristis, dalle sfumature crema-verdastre, amatissime per gli accostamenti più raffinati. O dei gladioli a fiori meno serrati e gola macchiata, come ‘Elvira’, ‘Ninph’, Prins Claus’ o il bellissimo G. papilio, dai curiosi fiori reclinati, anche questi macchiati di verde e porpora.

E per i gladioli in vaso? Io ritengo che il miglior modo di coltivarli sia piantarli in massa, cromaticamente omogenea o no, purchè il vaso ne sia completamente pieno e in estate trabocchi letteralmente.

A quel punto si potrà avvicinare a qualche altro vaso o lasciare isolato a seconda delle preferenze.