I dieci gradi di sofisticatezza dal giardiniere

Grado zero: non fare alcun tipo di attività di giardinaggio
Grado uno: prendersi cura di una singola pianta già esistente nel giardino di casa
Grado due: rubare talee
Grado tre: comprare qualsiasiasi tipo di pianta
Grado quattro: comprare solo le piante di cui ci si è perdutamente innamorati
Grado cinque: comprare le piante che servono per dare un aspetto gardevole al giardino
Grado sei: comprare le piante che servono per dare al giardino l’aspetto che il giardiniere vorrebbe ottenere
Grado sette: regalare tutte le altre piante
Grado otto: tenere quelle piante che resistono alle mutate condizioni del giardino e del giardiniere
Grado nove: guardare
Grado dieci: non fare alcuna attività di giardinaggio

Corpi che creano, corpi creati e “Alien Theories”

Per ragioni troppo lunghe da spiegare, posso dirvi che non ci sono altre saghe filmiche che conosco tanto bene come quella di Alien, attualmente riproposta dalla Rai per seguire la scia di Alien: Covenant.
Il mondo del web è popolato da “Alien Theories”, ad esempio chi ravvisa uno stretto legame tra Alien e Frankenstein di Mary Shelley, o con i romanzi gotici ottocenteschi.

I riferimenti sessuali sono chiari in tutta la saga, disseminati un po’ ovunque nel primo film, dal fallomorfismo dell’alieno, al giornale arrotolato che Ash usa per strozzare Ripley, ad alcune espressioni di Sigourney Weaver durante l’esplosione della Nostromo. Lasciamo perdere gli slip finali, quelli sono molto cinematografici e americani. Fare degli organi sessuali un elemento estetico ha comunque portato bene al film e l’ha distanziato da tutta la produzione cinematografica dell’epoca, e posso dire che non ci sono altre pellicole che ne abbiano fatto un uso così sofisticato dal punto di vista visivo.
D’altra parte Alien poggiava sui meravigliosi disegni preparatori di Giger. Mi spiace che Wikipedia abbia rimosso dalla pagina dedicata al film una interessante riflessione su uno “stupro al contrario” da parte dell’Alieno, avrei voluto qui poter citare l’autore di questo interessante spunto di discussione.
In realtà oltre a questo c’è anche una maternità indesiderata e mortale. Il primo dei corpi che creano è un uomo, Kane.
Il secondo è la Regina, ed è il corpo creativo logico, lineare, biologicamente corretto: cioè la madre degli alieni (o perlomeno del loro primo stadio vitale). Nel secondo film la maternità è molto ben delineata: il rapporto tra Ripley e Newt è quello tra madre e figlia. Nelle scene tagliate c’è il racconto di come Ripley abbia lasciato sulla Terra una figlia della stessa età di Newt, e a causa dell’ “ipersonno insolitamente lungo” questa sia morta di vecchiaia poco prima del rientro di Ripley sulla Terra.
Nel terzo film Ripley ha dentro una Regina. Anche qui non sono mancati riferimenti al sesso, ma molto più banali e funzionali a solleticare pruderie e affluenza di pubblico.

Alien3 ha una scena di grande delicatezza e -per me- molto commovente. Quando Ripley si getta nel piombo fuso la Regina le sfonda il torace: nasce. Ripley dà alla luce quella creatura e la stringe al petto, con rudi guanti da lavoro, non per amarla o coccolarla, ma per portarla con sé dentro lo stampo con il piombo bollente. Se si accettano nel “canone” sono le scene andate al cinema e non gli extra o i cut, quella è l’unica maternità di Ripley, una materintà mortale, orribile, annichilente.

A quanto ne so il quarto film è stato addirittura eliminato dal “canone” e per me è stato criticato negativamente in modo esagerato. Non è per nulla da buttare ma purtroppo ha troppi, troppi difetti per poterne dire bene, ed è un vero peccato. Se avesse mantenuto la qualità del primo quarto d’ora sarebbe stato un capolavoro e saremmo qui a parlare di questo e non degli altri. In Alien Resurrection (in Italia Alien – La clonazione) c’è un continuo rimpallo tra l’idea della nascita come morte. È qualcosa di estremamente interessante che si sarebbe potuto esplorare meglio. La scena di Ripley8 che si sveglia in un sudario e ne esce come fosse una placenta, è estremamente sofisticata e densa, così come quella del parto della Regina, a cui Ripley ha donato un utero: la Xenomorfa è diventata mammifera? Appena nato, il cucciolo divora la madre, come i ragni del ricordo di Rachel in Blade Runner. Alla nascita si accompagna una morte, un concetto lontano dal mondo della cinematografia americana e forse per questo abbandonato o trattato in modo superficiale.

“Sono la madre del mostro”

Un passeggero infettato chiede drammaticamente del mostro che porta dentro, e domanda a Ripley: “Lei chi è?”. Ripley risponde:”La madre del mostro”. La maternità come tale viene definita verbalmente solo in questo episodio, Ripley e i suoi cloni non sono solo materiale genetico, ma proprio corpo biologico che genera, anche se grazie alla tecnologia, mentre la Xenomorfa diventa madre quasi amorevole nei confronti del cucciolo, che invece si lega a Ripley, la parte umana di sé.
Ripley è insomma una madre dal secondo film in poi, eccetto i crossover con Predator, in cui non appare Sigourney Weaver.

Il cambio di passo arriva non con Prometheus, ma con Alien: Covenant. Dal cesareo in emergenza della dottoressa Shaw, ospite di un parassita, passiamo a una diversa capacità creativa, quella della mente, della logica, del computer, che negli stereotipi di genere è considerata maschile. È l’androide David8 che crea gli Xenomorfi attraverso esperimenti sul corpo della dottoressa Shaw e sugli organismi del pianeta di cui ha annientato la fauna. La creazione rimane morte, ma ridiventa appannaggio del maschio, come era stato per Kane nel primo film. Il tema della creazione (non solo organica, ma artistica tout court) e della nascita viene affidato al personaggio più amato, quello a cui sia lo zoccolo duro che i nuovi fan sono più interessati: David.
David è un caso di androide piuttosto raro nel cinema di fantascienza, e l’interpretazione superlativa di Michael Fassbender ne ha fatto un’icona che non sarà presto dimenticata e con dignità passerà alla storia della SF.

Un giardino Pandora (J’accuse#2)

Qualche tempo fa ho intercettato l’ennesima discussione facebucchiana sulla pubblicità Pandora, fatta non da femministe o maschi Neanderthal, ma da giardinieri.
Lì per lì mi è venuto da ridere.
Mi sono chiesta: ma possibile che manco i giardinieri si siano resi conto di quanto è brutta? E dire che il giardiniere dovrebbe avere una stretta frequentazione con l’Estetica (a quelli che confondono l’Estetica con l’estetista consiglio di passare ad altro blog).
Dato che oltre a una occasionale e non sempre riuscita funzione aggregativa e sociale, i giardini non hanno altro scopo che essere belli (funzione estetica -Mukarovsky), i giardinieri dovrebbero essere in grado di percepire il Bello, anche se la sua definizione non è univoca. E altrettanto dovrebbero essere in grado di riconoscere il Brutto, e visto che la storia della Filosofia ha evidenziato nel corso dei secoli un profondo legame tra l’Estetica e l’Etica, anche l’etico e il non etico. In breve, l’Estetica ci aiuta a comprendere quale è la parte più umana e preziosa di noi, come individui e come specie, e quale dovrebbe essere superata.

La mia sorpresa nel nel leggere commenti del tipo “Pandora libera la filippina che è in te” , “La pubblicità è riuscita nel suo scopo, cioè far parlare di sé” o ancora “bisogna prendere le cose con leggerezza”.
Altri non me ne ricordo ma erano tutti sullo stesso tenore: indifferenza, qualunquismo,abdicazione al senso critico, stupidità o conformismo spregiudicato.

E dargli fuoco?

Sulla filippina che è in te, finalmente liberata dal gioiello Pandora, taccio poiché si tratta di razzismo puro e semplice (pare che vada ancora di moda, specie al Nord).
Che lo scopo delle pubblicità sia far parlare di sé è un pleonasmo, ma non a scapito di qualcuno. La pubblicità non deve essere offensiva o denigratoria, per due ragioni: la prima è che denigrare, sminuire, svilire, decontestualizzare una categoria sociale riposizionandola a seconda delle necessità del brand è semplicemente sbagliato, antietico, e anche brutto. Sì, brutto.
La seconda ragione è quella categoria di persone potrebbe essere indotta a non acquistare più quel marchio o invitare le altre persone a non acquistarlo: questo non non è un buon affare per quella marca.
I più matusa -qui- ricorderanno la protesta dei veterinari contro una pubblicità di non ricordo quale liquore, un amaro, che in maniera “incidentale” li ritraeva come persone amanti del buon bere. I veterinari s’incazzarono un bel po’, e quella marca dovette ritirare lo spot per buttarla poi su un prezioso vaso che doveva essere salvato con un aereo, o qualcosa del genere.
Nessuno si è scandalizzato per la protesta dei vet, né ci ha riso sopra, né ha invitato questi professionisti (per il solito molto ricchi e assai corporativi), a “prenderla con leggerezza” o gli ha mai detto “e fattela ‘na risata, doc!”, specie se il suo cane stava sul tavolo operatorio con una zampa in attesa del gesso.
Delle volte mi viene in mente Lisistrata e sospiro.

Quindi per me chi dice che “Pandora ha centrato il suo scopo” è afflitto da conformismo ed è così biscottato dalla società da non riuscire a distinguere il Brutto dal Bello, il Buono dal Giusto, il Vero dal Falso.

Perché non te lo compri? Costa solo venti dollari!

A chi sostiene “prendila con leggerezza” o invita alla risata, rivolgo una domanda: perché sulle bacheche di tanti e tanti giardinieri in questi giorni ci sono dotte e infinite elucubrazioni su “Spelacchio”? Perché ve la prendete se abbattono gli alberi nelle vostre città? Siete sempre a lamentarvi di questo o quello (condividendo, non sia mai scrivendo un pensiero proprio o FACENDO qualcosa), tutti a dire “ah, le fioriture sono impazzite a causa del clima” o “certo, questo accade se le amministrazioni mettono degli stupidi a potare gli alberi”, e poi però -quando la cosa non tocca voi e il vostro giardinetto- tutti a dire “E prendila con leggerezza”.

E che giardinaggio vuoi fare così, core bello? Ma dove vuoi andare? Ti fermi giusto alle rose, tutte ammucchiate perché “di più è più bello”, alle fioriture in massa, alle cazzatelle shabby chic, al romanticismo senza interpretazione. In te non si alzerà mai l’ala della poesia, non avrai mai il coraggio di fare il passo del leone, e il mondo finirà alla siepe del tuo giardino: ciò che accade fuori non ti turba, non ti interessa e non ti disturba. Finché avrai acqua abbondante per irrigare, i soldi per comprare le rose a radice nuda, il diserbante e l’antiparassitario al supermarket, per te andrà bene tutto. E rimanici nel tuo “tutto”.

Giardiniere Pandora, tu sei un giardiniere Kitsch, prendine atto.
Ti è piaciuta la pubblicità Pandora? E beccati un giardino BRUTTO.

Ecco i giardini che ti meriti, giardiniere Pandora: li ho scelti col cuore pensando a te.

La “Zoppa”

A Siderno vive una signorina che viene chiamata “la Zoppa”. È una donna piccola, magra, un po’ stortignaccola e con disturbi di afasia, tanto che a volte, oltre a “Zoppa” viene chiamata anche “la Muta”.
Da noi il soprannome viene detto ‘ngiuria, ma non in senso dispregiativo. Molte persone se lo fanno scrivere sotto al manifesto funebre, altrimenti nessuno capirebbe chi è il morto.
Ovviamente “Zoppa” e “Muta” sono un po’ diversi dalle ‘ngiurie comuni, perché evidenziano una diversità, una malformazione, una incapacità.
Al lettore le proprie conclusioni.

La Zoppa viveva in casa col fratello, che ha accudito fino alla di lui dipartita. Si dice che questi la trattasse male, che la insultasse; ma la Zoppa, non avendo né lavoro né indipendenza, era costretta a stare in casa e a sopportare le sue sfuriate. Non so quante ne abbia passate la Zoppa, e se ne passi ancora. La vedo sempre con i sacchetti della spesa, pioggia o solleone. Una donnina composta, con un viso floscio alla Braccobaldo, una bocca mai sorridente e mai triste, i capelli corti, come un maschio. La mia curiosità umana per la Zoppa -confesso- è enorme.
Non so se ci sia nata, zoppa, o ci sia diventata. Una cosa deve esserle stata subito chiara: nella sua famiglia era lei l’orso bianco della fiera.
Non avendo da portare in seno alla famiglia altro che (presumo) una pensione di invalidità, la sua vita si deve essere ben presto tradotta nello svolgimento di compiti di accudimento familiare. Le spese sicuramente limitate a quelle alimentari, non essendo la Zoppa in grado di compilare una distinta in banca o di dettare un telegramma.
Non essendo bella non è stato possibile maritarla. È venuto meno quindi il ruolo primario della femmina, quello di bestia da riproduzione. Un matrimonio è anche garanzia di una collocazione sociale positiva.

Quindi alla Zoppa non è rimasto che fare avanti-indietro con i sacchetti della spesa, e su e giù per le scale quando qualcuno aveva bisogno di qualcosa.
Spesso i destini di donne né zoppe né mute sono questi, arruolamento coatto nell’esercito di famiglia, in cui non si è altro che un soldatino agli ordini di chi comanda.
Non penso che La Zoppa se ne sia resa conto, o se lo ha fatto ha creduto che il suo destino fosse giusto, inevitabile. C’è chi se ne rende conto, e riesce a scappare in tempo. C’è chi se ne rende conto dopo decenni, convinta che no, non potrà mai accaderle ciò che ha visto succedere a quella poverella. E nel frattempo che la convinzione di non essere l’orso bianco della fiera aumenta, di pari passo amenta la sottomissione. Quando si realizza di essere sempre stati l’orso bianco della fiera, ormai le ginocchia sono consumate, sono arrivate la flebite, la menopausa e la calvizie. Ma il più delle volte -il più delle volte- si continua a farlo, continui a essere l’orso bianco della fiera perché non hai altra scelta, esattamente come la Zoppa.

Il livello Telecom

Il “livello Telecom” è uno stadio dell’esistenza umana nell’epoca post-capitalista. Non per tutti si chiama “livello Telecom”, potrebbe essere “livello Eni Gas e Luce”, oppure “livello Infostrada”.
In termini psichiatrici e antropologici, il “livello Telecom” identifica quella fase dell’esistenza in cui non si è più capaci di mantenere le apparenze e si diventa completamente inabili nel contenere il fastidio arrecatoci da persone, cose e situazioni. In letteratura medica si riscontrano diversi comportamenti: non rispondere più al telefono manco se è dio (ciò include la messaggistica istantanea: i messaggi vengono visualizzati, ma se non richiedono risposta, vengono ignorati), non rispondere al citofono, buttare vecchi oggetti come cimeli familiari o mobili, ignorare i rompipalle e sfancularli implicitamente, “amici”, datori di lavoro e eminenti personalità incluse.

Il “livello Telecom” prende questa denominazione (che, come avete visto, è variabile) dall’espressione della voce durante i colloqui con il 187. Se non avete raggiunto il “livello Telecom” probabilmente tentate ancora di essere cortesi con l’operatore che vi risponde, vi sforzate di esporre il vostro problema con gentilezza, di infilare una sorta di sorriso immaginario nel dialogo, anche se tutto risulta innaturale e “sudato”.
Quando avrete raggiunto il “livello Telecom” il tono della vostra voce suonerà inequivocabilmente minatorio sin dal salve, il mio numero cliente è ….
L’operatore Telecom, che è come un cane da tartufi per capire l’umore delle persone, ché Freud poteva portarsi le barche all’asciutto a confronto, risponderà a tono, perché lui o lei, il “livello Telecom” l’ha raggiunto molto prima di voi. Perciò ve lo dico, non pensate di poter battere un centralinista Telecom: semplicemente in voi la “telecommaggine” non è così forte. Immaginate di essere cintura marrone e loro dan di novantesimo livello.
Alla vostra richiesta il suo “attenda” suonerà come lo vedi questo bottone? Se lo schiaccio la tua linea andrà per sempre a 2 mega, perciò non ti conviene.

Anche con i call center che propongono offerte il soggetto che ha raggiunto il “livello Telecom” non tenterà neanche la strada del mi scusi sono sotto la doccia, no grazie non mi interessa, non le faccio perder tempo, etc + saluto di cortesia. No. Chi ha raggiunto il “livello Telecom” riattacca, e basta.

Il soggetto che ha raggiunto il “livello Telecom” è perfettamente capace di chiudere rapporti personali o lavorativi anche di lunga data se si sente in qualche modo insultato o -anche involontariamente- privato della sua dignità. Il soggetto “livello Telecom” non sopporta telefonate di durata superiore agli otto minuti.

Il soggetto “livello Telecom” non è assoggettabile con la forza di volontà o con la blandizie e difficilmente nutre ammirazione per le “persone normali”. Diventa assai pericoloso se si compie un’evidente ingiustizia di fronte ai suoi occhi: nel qual caso potrebbe reagire con violenza.

Il soggetto “livello Telecom” diventa aggressivo e in grado di arrecare seri danni in caso di saccenza e in presenza di persone che parlano con tono di voce acuto. È infatti testato che frasi come ma tu sbagli, dovresti fare così, non ti sei comportato bene, hai fatto un errore, guarda me, perché non hai chiamato me e similari possono indurre il soggetto a afferrare la prima cosa che capita e scagliarla addosso all’interlocutore.

In particolare le risposte con due o più parole, di cui la prima è “no”, determinano una reazione violenta e incontrollabile.

Arredare un giardino (J’accuse)

Quando mi interrogo sul significato di un termine complesso, il dizionario etimologico è una delle prime risorse a cui faccio capo.
Tempo addietro mi capitò di leggere una domanda su come “arredare” un giardino.
Purtroppo, complice il linguaggio burocratico, subito ripreso da siti contenitore di qualità scadente (“I dieci modi per arredare il tuo giardino con meno di 100 euro” e cose così), questo sintagma errato e francamente pure brutto a sentirsi, si è diffuso tra chi il giardinaggio lo pratica due volte l’anno: la prima quando spende 500 euro in vivaio per piante, vasi, terricci, concimi e decorazioni varie, la seconda quando le piante morte e il terriccio indurito vengono gettati nell’organico.

Ho cercato dunque i termmini “arredare” e “arredo” sui dizionari etimologici di cui dispongo, uno dei quali è il Pianigiani, usato su etimo.it.
Così recita il Pianigiani:
Ne emerge subito che l’etimologia, come per tutte le parole complesse e che sono fondative della nostra quotidianità (anche mentale), non è univoca.
La Treccani:


Garzanti, laconico

Sabatini Coletti, come sempre semplice e chiaro

Nessuno di questi dizionari fa menzione di giardini da arredare, neanche la Treccani, l’unica che -almeno online- parla di “arredo urbano”, definendolo quel complesso di oggetti, come panchine, statue e fontane, che servono per rendere accogliente, bella e funzionale una città o un paese. Comprese le aiole di proprietà comunale, quindi le rotatorie, le fioriere, le alberature pubbliche.

Un giardino insomma non si arreda. Un giardino si crea, si disegna, si imposta, si progetta, si studia, si pianifica, si dispone, si organizza, si sistema, a volte si restaura, spesso si arrangia o si inventa, si allestisce (se si tratta di un giardino temporaneo), un giardino è un qualcosa che deve prendere una forma, una forma che noi decidiamo.
A differenza dell’arredamento d’interni, di cui la progettazione del giardino a volte può anche seguire gli schemi di disposizione prospettica, degli ingombri e dei colori (specie in quel tipo di giardino modernista in cui l’esterno era una proiezione dell’interno, senza che nessuna delle due parti perdesse coerenza se separata dall’altra), il giardino -di solito- si fa con le piante. Le piante (guarda tu se uno deve ribadire certi concetti da prima elemetare) non sono oggetti. Non sono lampade, non sono divani. Non è che dove le metti stanno, e al massimo si impolverano o si rigano o si macchiano. Non è che il divano esce da un ovetto piccino picciò e cresce nel tempo. “Eh, cara, il divano è diventato troppo grande, bisogna chiamare il falegname per farlo accorciare…”.
Il giardino è imprevedibile, perché le piante tendono a fare cose inaspettate e a comportarsi non esattamente come avevamo previsto.
Non sono immutabili, e una volta “composto” o “finito” il giardino (cioè “arredato”), le piante non staranno lì ferme come bomboniere in esposizione, ma faranno un sacco di cose: in alcune speriamo, in altre no, altre ancora le temiamo, altre saranno belle o brutte sorprese, e via via fino a eventi che non avremmo neanche immaginato.
Il giardino è anche (solitamente) costituito di altre cose oltre le piante, vialetti, muri, reti, ringhiere, vasi, ecc. Anche questi subiscono mutamenti a volte anche piuttosto rapidi poiché sottoposti alle intemperie.

Ma più di ogni altra cosa ciò che differenzia il giardino dall’arredamento è che questo ha a che fare con oggetti e cose fatte dall’Essere Umano, “oggetti culturali”. Mentre il giardino ha a che fare con “soggetti naturali” su cui il potere umano è decisamente limitato.

Usare questa espressione è da pigri, ottusi, conformisti che si fermano sotto la soglia della mediocrità, che van dietro alla moda del burocratismo linguistico. Insomma, dei kitschmenchen che pensano con la testa degli altri e abdicano al loro diritto di esercizio della facoltà di giudizio critico.

Ecco perché quando leggo come accetbile o accettata la frase “arredare un giardino”, concludo una sola cosa: chi non si batte contro l’errore concettuale che è alla base, lo fa solo per convenienza. Lo fa perché gli conviene che attorno a sé ci siano persone ignare, ignoranti e vacue, e poter in questo modo risaltare tra esse grazie ai suoi modestissimi talenti.

La domanda che stai cercando è sicuramente sbagliata

Una delle prime cose che mi sono chiesta quale giovane giardiniera è: che cosa mi devo chiedere per conoscere la vera essenza del giardino?
Essendo un figlia della logica capisco che se non mi pongo la giusta domanda non avrò la risposta giusta.
In molti cercano risposte a domande che non sono quelle giuste, e si arrabbiano, o questionano all’infinito su una risposta che non accettano. Ma tutto questo accade perché ci si pone la domanda sbagliata.
Ma qual è la giusta domanda?
Per molto tempo ho cercato, su queste pagine digitali, di trovarla. Oggi mi chiedo: “Esiste una giusta domanda?”.

Il giardinaggio “al femminile” spiegato dai maschi alle femmine. Poi però qualcuno lo spieghi a me, per favore.

Ho letto più volte un noto (in Italia) critico dei giardini, di cui non faccio il nome (Guido Giubbini, presidente del comitato scientifico della celebre (in Italia) rivista “Rosanova”), sostenere che esiste un “giardinaggio al femminile”.
A questo punto il ventaglio delle domande si apre: se esiste un giardinaggio al femminile, esiste anche un giardinaggio al maschile?
E se questo vale per maschi e femmine, vale per gay, lesbiche, trans, bisex, tavestiti, per BDSM, per i fetiscisti, quelli che si travestono da mobili o che si fanno fare la pipì addosso?
E per ognuno di questi generi o transgeneri, quale sarebbe -di grazia- la tipologia di giardinaggio praticata?
Speriamo che l’illuminazione non tardi a venire.
Ma mi domando, non è che poi si rimane sul classico, nel dualismo maschio/femmina, con la consapevolezza di scatenare le ire della gente? Al massimo si scrive “giardiniere 1 – giardiniere 2” tanto per metterci una pezza?
O ancora “giardinaggio al femminile” significherebbe che c’è un modo di fare giardinaggio che sarebbe quello giusto, quello fatto dai maschi, e un altro modo, meno elevato, per così dire, che è quello delle femmine? Un filino subdolo, no? Sono malpensante? Me lo auguro.
Ma attendiamo e per il resto mistero della fede giardinicola.Tanto siamo sotto Natale.

Non è la prima volta che sento queste cose, e purtroppo per buona parte della mia vita ci ho anche creduto. Una volta una mia insegnante di illustrazione, di cui non faccio il nome (Valeria Ricciardi, tecniche di base, Istituto Europeo di Design, anno Domini 1991), disse che si poteva capire benissimo se un disegno era fatto da un uomo o da una donna.
Il famoso “conto alla femminina” (cioè il calcolo aritmetico per dare il resto) è più che automatico per tutti ma viene declassato come elementare.
Un ingegnere giardiniere che spero legga e si riconosca, disse che l’ingegneria non è per il cervello delle donne, e che le sole donne iscritte a Ingegneria erano “maschi” (dunque non scopabili).

solitary-summer-von-arnimTornando al giardino e al giardinaggio (che sono comunque due cose diverse), mi starebbe benissimo se con “giardinaggio al femminile” si volesse intendere una ricapitolazione storica e sociale di come alle donne di buona società, cioè quelle che potevano permettersi un giardino, non fosse consentito piantare e zappare poiché attività disdicevoli, e di come alle donne fu permesso di lavorare in giardino, blandamente, con i guanti e per piccoli lavoretti di piantagione di fiori, bulbi o semine a spaglio, solo a metà dell’Ottocento, quando l’offerta di piante in vaso era tale da dover smaltire una enorme quantità di merce e si rese necessario raddoppiare il mercato degli acquirenti, inserendo anche la clientela femminile. Abbiamo molte testimonianze dai cataloghi di vendita per corrrispondenza e dagli opuscoli dedicati al pubblico maschile e femminile (all’epoca i gay venivano ancora frustati a sangue e mandati nei campi di lavoro, figuriamoci il giardino).
Sarebbe infatti interessante capire come le necessità hanno influito sull’emancipazione della donna in giardino, specie in America, dove tutto è avvenuto molto rapidamente. Alle donne erano affidati il backyard garden e la manutenzione delle erbe curative, l’orto e il frutteto. Nelle zone del Texas molte donne diventavano curanderas, cioè guaritrici.
Nella Vecchia Europa le cose procedevano molto più lentamente: ce lo racconta Elizabeth von Arnim, ce lo racconta E.M. Forster, ma anche George Eliot, la stessa Sackville-West.
Quando la storia del giardino fu invasa dalle varie femmine giardinicole (Jekyll, Crowe, Hobhouse, Taverna, Verey, Thaxter, Fish e compagnia cantante), il mercato era già pronto, e dunque lo era la società. Via libera alle femmine piantatrici di bulbi che riempiranno di fiori i loro giardini e di soldi le nostre tasche!
Se Emma poteva solo cucire sul prato, ritrarre le rose fiorite e le sorelle Dashwood passeggiare tra le folly, un secolo dopo la Signora Miniver riusciva a mettere le mani nella terra, ma l’unico rapporto che Rebecca de Winter aveva con i fiori era la loro disposizione in vaso. Le classi sociali in questo erano estremamente prescrittive.
Occorre la Seconda Guerra Mondiale, il victory garden, o qui in Italia “orticello di guerra”, il lavoro delle donne in fabbrica e le lotte femministe per ottenere una equipollenza della donna in giardino, che tuttavia non è reale ma -a dir dell’uomo- limitata dalla minore forza e resistenza fisica. Naturalmente tutte le donne che fanno giardinaggio sanno di poter svolgere anche i lavori pesanti (più che un uomo basterebbe solo un’altra persona come aiuto, sia essa maschio, femmina o transgender). D’altra parte la presunta debolezza della donna non coincide con la sua storica posizione di bestia da soma e animale da lavoro: basti pensare alle mondine, alle gelsominaie, alle raccoglitrici di olive, alle donne con cercine e pesanti ceste sulla testa, o in tempi moderni, donne neanche più giovani che scaricano camion di frutta.

Ciò che io temo nella frase “giardinaggio al femminile” è un pretestuoso tentativo di dimostrare, con tendenziosità, che le femmine della specie si dedichino alla coltura del fiore più che della pianta, agli accostamenti tra fiori e colori, alle composizioni in vaso, anche se transitorie come la loro memoria, alle fioriture in massa perché di più è bello, ai colori azzurri e bianchi, rosa e bianchi, rossi e bianchi, alle piante con foglioline delicate e soffici, alle rose, alle rose con le perenni, alle rose con le annuali, alle rose con le graminacee, alle rose con le rose. Insomma che non siano troppo attente alla qualità dei verdi, alle loro sfumature, agli accostamenti tra fogliami, al giardino senza fiori, alle piante legnose, agli alberi, ai prati, alle attrezzature, alle motoseghe, e in genere a tutti i lavori di manutenzione come il tutoraggio dei rami o la potatura delle siepi. Inoltre si sa che le femmine hanno un odio genetico per tutte le piante a spada, quindi tra la Yucca e Satana è meglio Satana, per i cactus troppo grandi (forse perché si spaventano delle forme falliche, poverette), per le palme e gli alberi esotici perché non capiscono un cazzo se una pianta è rara o no. Termini come “monocarpico” o “cleistogamo” non fanno parte del loro vocabolario, che è invece pieno di aggettivi su come descrivere un colore, una foglia, l’aria del mattino, la luce del sole, la pace, il silenzio, il fruscio del vento, la lettura, la tazza di tè. Aspetti tecnici e pratici, quali la botanica, l’entomologia e le sue applicazioni, le patologie, la coltivazione di piante “utili”, sono del tutto estranee alla mente femminile.
Per la femmina il giardino si risolve tutto in letture, pensierini, citazioni, poesiole, consigli su come accostare questa e quella pianta, ghirlande e disegnini.

Per la cronaca, questi l’hanno fatti due maschi.

Best Show Garden designed by Tom Stuart-Smith, Daily Telegraph Garden, 2006 Chelsea Flower Show
Best Show Garden designed by Tom Stuart-Smith, Daily Telegraph Garden, 2006 Chelsea Flower Show

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Ippolito Pizzetti, Canon Ellacombe, Goethe, lo stesso Giubbini, Marco Martella, Richard Mabey, Čapek, Borchardt, Pindemonte, Osti, Trevisan, Delerm, Eden, Peregalli, Monty Don e per finire Pejrone, Pagani e Perazzi, hanno messo nei loro libri oltre a consigli pratici su fiori e colori, una buona dose di poesia, letteratura, citazioni e umorismo. Alcuni non esenti da mielosità dozzinale e appiccicaticcia.
Mentre non c’è prosa più asciutta, divertente e interessante di quella di Andrea Wulf (femmina) o più compassata e accademica di Annalisa Maniglio Calcagno. Beatrix Potter è stata una giardiniera assai pratica e senza illusioni di grandiosità, e credo che nessuno abbia scritto una storia dei giardini così dettagliata e ricca come Marie Luise Gothein.
I consigli per gli accostamenti di colori ce ne dati anche troppi Christoper Lloyd con la serie dei libri per “giardinieri avventurosi” (che diciamocelo, sono un po’ commerciali), e pensieri sparsi e digressioni sono il cuore delle “passeggiate botaniche” di Rousseau.
Insomma, pare che il maschio della specie non sia esente da “scivoloni nel giardinaggio al femminile” (cit.).
Domanda: saranno gay, trans, bi, tri? Oppure, no, dico, la butto lì, non sarà che non esiste un giardinaggio maschile e uno femminile, e che è tutto un fatto storico e culturale, cioè appreso?

Ma già all’orecchio… Lo sentite? “Giardinaggio al femminile”. Come una brutta copia di qualcosa. Una versione adattata per piacere a un certo pubblico, come Jack London che arriva in Italia in versione ridotta illustrato per bambini. Facciamo La Sirenetta a cartoni animati, ma la facciamo finire bene! Facciamo un giardino per femmine, perché esse non sono in grado di comprendere il vero giardino (intanto però gli vendiamo i fiori). E poi, si sa, la brodura mista migliore l’ha fatta Sir Lawrence Johnston, un maschio. I grandi paesaggisti sono tutti maschi, le femmine al massimo fanno l’aioletta.
Ma certo, Caruncho, Barragán, vuoi mettere?
Vuoi mettere che solo dagli anni Ottanta alla donne è stato consentito di avere una visibilità professionale? Vuoi mettere che prima una donna difficilmente poteva iscriversi ad Architettura, e difficilmente sarebbe stata considerata una professionista pari a un uomo? Vuoi mettere che nella storia le donne hanno sempre lavorato ai margini, con talenti enormi che dovevano rimanere imbrigliati nelle possibilità sociali dell’epoca? Vuoi mettere che -come scrisse Virginia Woolf- nella storia la firma “Anonimo” coincide con il nome di una donna?

Ovviamente oggi è tutto diverso, e le femmine possono finalmente fare le architette del paesaggio, ma che risultatati vuoi che ottengano? Boh, robetta, giardinetti pieni zeppi di fiori… Ad esempio questo:

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o questo…

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Insomma, senza andare a scomodare i grossi nomi di Beatrix Farrand, Kathryn Gustafson, Paola Viganò, o la buonanima di Zaha Hadid, di architette ce ne se sono, oggi, eccome.
E a volte mettono tanti fiori nei giardini che progettano, a volte no. Di certo non credo che siano interessate a ciò che i maschi pensano su come loro interpretano il giardino. Credo siano più interessate a guadagnare e fare il loro lavoro, esattamente come i colleghi maschi.

Qualche link utile:
Ranker.com – Architette illustri
Ranker.com – botaniche illustri
Lista di architette su Wikipedia

Sette donne vincitrici di un premio per l’Architettura del Paesaggio

Andrea Cochran
Cheryl Barton Studio
Mia Lehrer e associati
Katherine Spitz
Pamela Palmer
Lauren Meléndrez

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I quattro pilastri del Postmoderno

Fekete, ma anche Sontag, hanno detto che i tre pilastri del Postmoderno sono il Bene, Dio e il Danaro.
Sarò in torto, ma a me non torna nessuno dei tre, neanche il danaro, no.
Un tempo, giova ricordare, la Bellezza era collegata a tre elementi, il Vero, Buono e Giusto. Ma già con l’estetica settecentesca il Vero iniziava a barcollare. Oggi l’inautentico è trionfante, e se c’è un reale crimine nell’estetica Postomoderna è l’abiura al Bene, cioè di un valore etico della Bellezza (che non significa moralismo bacchettone).
Perciò io questo “Bene” non lo vedo manco col cannocchiale.
Dio è più morto di Giulio Cesare, il Danaro in sé non è un valore. Il danaro è un valore per il piacere e il potere che ne derivano. Società complesse antropologicamente vivono senza il danaro ed esercitano potere di acquisto attraverso gerarchie molto prescrittive.
A me sembra che se ci sono dei pilastri nell’estetica Postmodern sono l’Immagine, il Tempo, il Piacere e il Potere. E sono quattro invece di tre, anche se piacere e potere sono spesso sovrapponibili.
La visualizzazione di forme è oggi il veicolo di comunicazione, dalle icone del PC all’infinite scroll di facebook o Pinterest.
Il Tempo è la dimensione della assenza, del ricordo, della nostalgia, della speranza e dell’attesa. Un tempo in cui il presente è annientato e non vissuto, un tempo in cui si vivono solo passato e futuro.
Il Piacere non è solo l’edonismo, ma la ricerca di una assenza di dolore, di una atarassia gradevole, di un oblio onirico indotto dalle pratiche culturali delle classi dominanti, che ci costruiscono sempre meno autonomi, sempre più dipendenti, acritci, mansueti, malleabili, suggestionabili.
Il Potere l’ho disgiunto dal Piacere anche per questa ragione, poiché esercitato con capacità critica, con atto di volontà. Spesso entrambi sono finalizzati al raggiungimento di quello stato di anestesia appagante, beata – ma non sempre. Non è detto che l’esercizio del Potere conduca a uno stato di godimento, anzi, a volte porta al dolore e all’insoddisfazione perenne.

Io non sono riuscita a trovare elementi e valori che contengano questi quattro, e mi sembra che quelli enunciati da Fekete e Sontag non abbiano fondamento all’interno della struttura estetica Postmodern.

E niente, tutto qua.
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Come disse Gertrude Jekyll…

sissinghurst-_white-garden… “perché rovinare un giardino solo per un puntiglio?”.

Vita Sackville West riprese questa frase spiegando il giardino bianco ai suoi lettori dell’Observer.
All’epoca di Jekyll erano di gran moda le fioriture monocolore, che certamente dovevano qualcosa all’estro di Pückler-Muskau e al tardo eclettismo. Spinte in là dal campo da tennis, le complesse aiole si trasformarono in bordi monospecie, in plate-bande estive. La calceolaria gialla è l’epitome narrativa di questo disastro, se si ricorda Il giardino di Elizabeth di von Arnim.
Jekyll, che conosceva a menadito la psicologia della Gestalt, scrisse che un giardino di fiori della stessa tinta, ma con sfumature differenti, poteva anche esser bello, ma non tanto quanto se il colore scelto fosse stato appena esaltato o contrastato. Facendo l’esempio del giardino blu, come quello di Wallis Simpson, spiegava che i blu e gli azzurri non bastano a creare l’idea del blu, ma che occorre qualche delicata luminescenza bianca o di un giallo appena percettibile. Questo l’ avrebbe esaltato e reso il blu più “blu”, foss’anche se -come spesso accade tra i fiori- il colore fosse stato un malva azzurrato, o un blu “sporco”, tendende al viola, al cenere, al bianco, al rosa.
L’importante non è che sia blu, o rosso, ma che sembri blu o rosso.

Se in un disegno ho bisogno di esaltare un azzurro, mi accerto di avere inserito qualche elemento giallastro. Così se mi dicono “rosso” tendo a evitare il colore #FF0000, inserendo un marrone rossiccio, come un Rosso di Marte, o un Terra di Siena Buciata, che hanno comunque una componente giallo-arancio. Questo mi consente di esaltare la componente blu (ottica o pigmentale) pur utilizzando un malva o un azzurro polvere.

E per tornare a Vita e al suo celebre giardino bianco: basta poco, ma bisogna saperlo vedere, per esaltare un colore che tutti oggi ci attendiamo puro e levigato, digitale. Le macchie dorate alla base del petalo dei cisti, il bottoncino dei cosmos, il colore dei lupini, che non è mai bianco, ma sempre con un piede dentro un’impurità grigio-giallina, la delfinia con le punte verde tenero.

In pittura, in disegno, in grafica e in giardino ancor di più, le luci hanno bisogno delle ombre.

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Foto da:
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http://www.honeykennedy.com/2016/05/sissinghurst/