Ippolito Pizzetti: un poeta, un artista, un giardiniere


Nella sua postfazione al volume di Marie Luise Gothein Storia dell’Arte dei Giardini, Mario Bencivenni definisce Russell Page un giardiniere “irregolare”, formatosi cioè al di fuori del percorso di ufficiale studi. Tale era anche Ippolito Pizzetti, scomparso il 15 di agosto di quest’anno (2007).

Solo a chi non è vero giardiniere, giardiniere di mano e di petto, può sembrare strano, insolito e rimarchevole che si possa diventare giardinieri e progettisti di giardini senza una laurea in Architettura o in Agronomia. In realtà chi questo ambiente lo frequenta sa che è invece così il più delle volte, che molto spesso i migliori giardinieri hanno percorsi di studio e di lavoro completamente diversi, così che non è raro trovare giardinieri laureati in Economia, o con un diploma di Scuola d’Arte, o che prima facevano i pizzaioli. Perché l’amore per il giardinaggio nasce sin da piccoli, ma si concretizza con lentezza e impiega tempo a prendere corpo, non diversamente da come un pittore impiega molti anni ad apprendere le tecniche e capire quale sia la più adatta ad esprimere se stesso.

Sebbene avesse lavorato per molti anni presso un famoso studio di architettura, la laurea gliel’hanno data tardivamente, honoris causa, in un momento in cui il gesto risultava un po’ svuotato del suo significato simbolico.

La sua formazione era letteraria, i suoi articoli di critica musicale sono ancora nella memoria di tutti, specialmente di chi abbia una certa età, la sua famosa “Garzantina dei fiori” (Dizionario dei fiori e delle piante) è diventato il compagno di vita di molti giardinieri italiani. Lo stile unico, nitido e graffiante con cui è scritta, unito all’autorevolezza delle indicazioni colturali, ne fanno uno dei volumi più preziosi e divertenti da leggere che si possano trovare da leggere in ambito internazionale.

Che la formazione di Pizzetti sia stata fondamentalmente di tipo letterario, e che uno dei suoi lavori fu il traduttore, è fortemente palpabile durante la lettura. La “Garzantina” non è infatti un prodotto tipico della cultura del giardinaggio italiano, perlomeno non di quello contemporaneo, e il suo stile e molto più vicino ai libri della Sackville-West o del Canonico Ellacombe, e per certi versi anche di Goethe, che alla manualistica specializzata italiana. Nella “Garzantina” non troverete anonimi elenchi di piante e di norme orticolturali, ma un piccolo trattato di estetica del giardino, esposto con semplicità, in prima persona, senza fronzoli, a volte con un certo piglio polemico, fulminante per il suo acume. Non rare sono le invettive contro certi usi consolidati da una tradizione borghese e consumistica, di alcune piante, come la iucca, il geranio, la zinnia.

Pizzetti aveva precorso i tempi, aveva capito che la tecnica orticolturale è solo una base da cui partire per catturare la vera essenza di un giardino, e il suo approccio era di livello sempre superiore: romantico, filosofico e poetico (in una parola: artistico). Nel suo libro forse più bello, Pollice Verde. Il giardinaggio, un hobby, una filosofia, un’arte , le indicazioni sulle colture sono per un certo tipo di lettore avido e anticonformista, solo il contorno di un piatto forte rappresentato dal suo modo di vedere le cose e di raccontarle con il coraggio dell’esperienza, con la semplicità di un tono colloquiale, domestico, ma anche diretto e sincero.

Pizzetti aveva ben presente che il giardinaggio è prima di ogni cosa un’avventura del cuore, della fantasia e dell’intelletto. Con ciò non voglio dire che fosse uno di quegli scrittori tutto romanticherie e sdolcinatezze, o che cadesse nella prosa (molto in voga ultimamente) tutta buttata sull’aneddotica e sulla favoletta deamicisiana. Sapeva che l’arte non nasce sempre e soltanto da uno stato puramente emotivo o di esaltazione, ma anche dalla paziente operosità, dalla lenta acquisizione di esperienza, dall’incessante lavorio della ragione, da una ricerca estetica e filosofica, dalla fantasia inseguita, e magari realizzata, con gli strumenti della logica e del discernimento. Non a caso amava le fate, era un appassionato lettore di Tolkien, e – credo – di fantascienza.

Perché il giardino non è solo piante e fiori, accostamenti di trame, superfici, colori e periodi di fioritura – questa è solo la base da cui poter iniziare finalmente a cercare– ma una progressiva e quotidiana conoscenza del mondo, dell’Uomo, della Natura e di se stessi, mediata dal giardinaggio.

Per le sue peculiari capacità di rispondere ad un duplice ordine di esigenze intime, comunicare con gli altri e riflettere su se stessi, il giardinaggio è sempre stato una finestra aperta sull’animo umano.

Pizzetti, forse più di ogni altro, aveva capito che il giardinaggio è un territorio di frontiera tra la tecnica e la poesia, tra la logica e la fantasia. Non sembra esagerato affermare che – anche solo attraverso i suoi scritti– egli abbia “fatto” la cultura italiana del giardinaggio, perlomeno la sua parte buona, e che nella sue azioni, nei suoi libri e nei suoi giardini, abbia sempre tenacemente lottato contro quei luoghi comuni, quelle consuetudini consumistiche che non hanno nulla del genuino, del popolare e del tradizionale, contro quel “lato oscuro della Forza” insomma, in cui in Italia sta affogando oggi la cultura del giardinaggio, e che lui , con un senso dell’umorismo corrosivo, aveva chiamato G.M.M.M, Grande Madre Massaia Mediterranea.

Speriamo che il suo nome non cada troppo presto nell’oblio, e che i suoi libri non spariscano dalla circolazione troppo presto, in modo che possano ancora emozionare ed insegnare a nuove, future, generazioni di veri giardinieri.

Stralci da “Pollice Verde”

Da: le libellule II, 20 maggio 1979
Ancora le libellule: ma cosa c’entrano col giardino? C’entrano invece, e mi ha fatto molto piacere che la lettrice di Bologna abbia scritto chiedendo dove trovarle e come allevarle. Vuol dire che ha capito come io consideri il giardino prima di tutto un luogo di incontri. Con le piante, con gli uccelli, con le lucertole, con gli insetti, magari anche con le stelle, la luna le nuvole che cambiano, se uno si sente portato per gli astri o per le chimere, non importa; ma il giardino per il giardino, senza spiragli e aperture, puro scenario o peggio puro trompe l’oeil lo lascio fare agli altri: che facciano. Il giardino come lo vedo, o cerco di crearlo, è un luogo dove – le piante per esempio – siano scenari e personaggi al medesimo tempo. Dove le parti si possano perfino invertire: non soltanto le piante scenario per gli uccelli, ma gli uccelli (o libellule) scenario per le piante.

Da: le palme, 26 agosto 1979
Tra le altre piante che ogni tanto qualcuno mi informa che non amo – come le rose, le dalie ecc. – ci sono le palme: «Tu odii le palme». «Ma no, che non le odio.» «Sì, tu le odii: dimmi in quale dei giardini che hai fatto, hai mai messo una palma.» E con questo argomento il mio interlocutore pensa d’aver tagliato la testa al toro. Pensa lui. Bel ragionare, bell’idea dell’amore come appropriazione ed esibizione. È vero che non ho mai messo palme nei miei giardini. Ma ho le mie ragioni. Perché non amo affatto il giardino simbolico. Non amo che le piante vengano usate con una funzione simbolica, singola o collettiva, e non mi riferisco qui ai giardini ermetici del Cinque-Seicento che erano costruiti sul simbolo. Parlo della piccola e giuliva simbologia personale. Mi spiego meglio. Non mi riferisco a un fatto religioso o filosofico. Va bene che oggi in America conviene trafficare in religioni per motivi fiscali, ma il discorso qui è un altro. Ci sono posti dove le palme sono state messe in una certa epoca e che a poco a poco da questi luoghi sono state accettate e assorbite; e oggi ci stanno benissimo. Certe piazze, certi giardini. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di gruppi, bei gruppi massicci, di palme, e non di palme singole. Facciamo il caso di Piazza di Spagna. Inoltre si tratta, nella maggior parte dei casi, appunto di piazze: dove la palma ha per sfondo la pietra, per base la pietra, del selciato, delle facciate dei palazzi.
Non sono queste le male palme di cui parlo. Ma della palma cacciata a forza, recalcitrante, nel grande o piccolo giardino, come un tocco di esotismo. La palma perché mi fa pensare, che ne so, all’Egitto o a Tahiti, la betulla perché mi fa pensare a Sibelius o alla Russia, il banano alle isole Felici, l’abete a Thomas Mann, e così di pianta in pianta arriviamo a creare il nostro bel giardino kitsch, che non è più un giardino, ma un muro da scriverci slogan, il teatro di esibizioni della nostra cultura. Andiamo avanti per proiezioni, senza tener nessun conto del giardino in sé. Altro che religione. Mi sono trovato questa primavera a mettere le mani su un giardino dove c’era di tutto. E mi sono anche trovato a dover togliere e togliere, e non ho ancora finito di togliere a tutt’oggi. Come un restauratore che si trovi davanti strati e strati di (chiamiamoli così) interventi, cervellotici e arbitrari, di imbrattatele presuntuosi, e gli tocchi d’andare a cercare, sotto, il disegno originario. Che non sempre c’è, ma tanto vale in questo caso ritornare alla superficie nuda e pulita. Ma non c’è santo che riesca a sposare il diavolo con l’acqua santa, e la betulla e la palma messe spalla a spalla «sono» il diavolo e l’acqua santa.
Invece mi sto occupando adesso di un giardino, in Sicilia (dove prima di tutto il clima si presta alla cultura delle palme, dove non sono una scommessa contro natura) e in questo giardino proprio le palme costituiranno uno dei motivi, se non addirittura il motivo centrale. Ma non mi sono limitato alla solita Phoenix, al solito Cocos, mi sono messo a dieta di palme (ho messo anche Domitilla, cui le diete giovano, alla medesima dieta), mi sono messo a pellegrinare per palme nei vivai, a cercare illustrazioni e descrizioni di palme. E così, dopo avere studiato di ciascuna le dimensioni, il carattere delle chiome, il colore della fronda, e aver compulsato Parey e Bailey, con Domitilla ne abbiamo fermate sulla carta una ventina di specie, appartenenti a una decina di generi, poco più poco meno. E sono davvero elementi tanto esotici che non c’è molto da stare a badare donde provengano: voglio dire che si può, senza farle stridere e gridare aiuto aiuto, accostare una figlia dell’Asia e una figlia dell’Africa. Gli si può anche far svolgere tutti i compiti: quello strutturale alle grandi, e quello di massa, movimento, pausa, ammorbidimento, ecc. alle piccole. Ma la palma diventa qui la vera protagonista, può esporsi in tutta la sua varietà e ricchezza.

Da: dello scriver di piante in prima persona, 6 aprile 1980
Una volta, diversi anni fa, litigai con un mio editore imbevuto di rigori giansenisti, perché sostenevo che un libro sulle piante (a meno che non si tratti di un testo scientifico, e anche in questo caso non sempre: nell’opera di Linneo la persona Linneo salta prepotentemente fuori ogni dieci o quindici righe), vada tutto scritto in prima persona: non c’è niente in questo campo di più pericoloso e malproducente delle generalizzazioni (di cui sembra tuttavia che il pubblico sia sommamente avido): un libro del genere vale soprattutto quale testimonianza di una esperienza, o come un modello di esperienza, e non quale codice di leggi da seguire. L’io, ben lontano dall’essere (come riteneva quell’editore) espressione di presunzione, è invece tutto al contrario un segno di modestia: «Io ho fatto così, ho ottenuto o non ho ottenuto questi risultati: adesso vedete voi», e se mai insegna qualcosa, oltre alle nozioni che offre, è ad aver fiducia nella propria esperienza, inventiva e ingegnosità, e – cosa che non conta meno – il senso della responsabilità delle proprie azioni e affezioni, dei limiti, nel senso dei confini e contorni, della propria persona.Infine, sul piano della scrittura, l’io obbliga a rispettare la semplicità del linguaggio quotidiano, pieno di cose e oggetti concreti della cerchia familiare. Il che è al polo opposto del deprecabile sforzo, goffo e presuntuoso, di tradurre magari una esperienza piccinissima, e il più delle volte, peggio, un materiale raccogliticcio, in un astratto vangelo di regole, espresso in un linguaggio tutto infiniti e imperativi senza colore e senza tempi, l’anonimo dettato, per capirci, dei nostri politici, che si esprimono per convergenze parallele e attestamenti sui preamboli.
Nei paesi anglosassoni, in Inghilterra soprattutto, dove questo culto nazionale e antidemocratico per la cattedra e i cattedratici non esiste, si sono scritti libri come Home & Garden, o Wood & Garden di Gertrude Jekyll, My Garden di E.A. Bowles, The Alpine Garden e The Garden Beautiful di W. Robinson, In My Vicarage Garden di Ellacombe, Potpourri in a Surrey Garden di C.W. Earle, o i libri tutti di W.H. Hudson – per citarne solo qualcuno – divenuti ormai dei classici, non certo meno piacevoli (o utili) da leggere oggi di quando sono stati scritti: ebbene sono tutti libri che più in prima persona di così non potrebbero essere. Qui, a casa nostra, cercate fin che volete. Ottocento o Novecento che sia, ma non troverete niente del genere.

Da: l’orto, aprile 1976
È più che naturale invece – e anche umanamente comprensibile, ma non per questo meno deleterio – che una classe media o piccolo borghese o anche operaia che sia, trovatasi tutto d’un colpo nel vortice dell’avventura consumistica, e in cui è ancora vivo e doloroso il ricordo della lunga miseria rurale, non possa e non sappia vedere in quel mondo che ha lasciato alle spalle nient’altro che una ferita che scotta ancora, una memoria da rimuovere. Viceversa il giardino è accettato, ma nella misura unicamente in cui costituisce il segno di un traguardo raggiunto, un simbolo di stato, opulenza, pompa e orpello. Perciò l’albero ha da essere meno albero che sia possibile (la thuya, il Cupressus arizonica) o nel migliore dei casi esotico: una palma, un abete, e per niente al mondo una cosa viva: non l’ulivo, non il pioppo o i salici nostrani che ricordano; non l’albero fruttifero, che richiede attenzioni e sorveglianza, non le annuali, non soprattutto l’orto, che esige vanga e zappa, il rapporto continuo con la terra, il lavoro: quando è proprio il lavoro, quale che sia – come memoria o come sfinente realtà quotidiana – che si vuole scordare. Donde anche l’aberrante e grottesca farsa dell’hobby: che non è altro che un sintomo di fuga e il segno patetico e squallido di un rapporto disturbato col lavoro. Ed è tutta qui, la differenza sostanziale tra l’attuale giardino italiano e quello tedesco e inglese: che il primo è costituito in funzione antidinamica, statica, che esclude ogni rapporto, tanto che potrebbe sussistere senza che nulla cambi al di là di un vetro; mentre negli altri il lavoro, la partecipazione, il rapporto con la terra e il mondo vegetale è la premessa stessa su cui il giardino si fonda.

Da: i Callistemon, 10 giugno 1979
M’è venuta in mente questa storia del tilt perché ho pensato che quando il Padreterno stava creando quel vecchissimo continente che è l’Australia, cui i Callistemon appartengono, ad un certo punto, o per inesperienza o per stanchezza, deve avere fatto tilt, ed ha messo alla luce appunto tutti questi tipi di cespugli e di alberi le cui infiorescenze hanno l’aspetto inconfondibile degli scovolini per pulire le bottiglie; in quel corto circuito che ha fatto il suo cervello tutto gli si deve esser incasinato, per cui si son confusi i caratteri del regno vegetale e del regno homosapiens con le sue suppellettili che alla fine, anche queste, come ci è stato insegnato, sono ab-origine nella mente di Dio, ed è nata questa roba. E la faccenda degli scopetti deve essere stata in quel momento per il Padreterno una ossessione, un chiodo fisso, perché i Callistemon non sono le uniche piante le cui infiorescenze hanno quest’aspetto: bisogna metterci anche le kunzee, le melaleuche, i metrosideros, perfino certe acacie.

Sono belle queste piante? Dipende fino a che punto uno ha l’occhio antropomorfico. Se uno riesce a dimenticarsi o evitare di associare alla vista di queste piante un emporio e i suoi odori e il tinello e i suoi odori, sono splendide, coi loro pennacchi rosso acceso (in altre specie rosso scuro, giallo mauve) dalle punte d’oro.

Da: Le bacche d’inverno, 21 gennaio 1979
La stoffa del buon giardiniere appare in quel che osa; il che non significa che dobbiate pianta palme a Dobbiaco, che sarebbe stolto, ma che invece dobbiamo sempre cavalcare il limite. Che è poi questa cavalcata, quella che crea, anche per il giardiniere, il suo piacere, come afferma suppergiù, a proposito del testo, Roland Barthes, un signore francese che la sa lunga. E tuttavia, quel che muore muore, ma quel che è vivo, come vive.

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