Paesaggi in “Porco Rosso” (parte 1 di 2) Il giardino di Madame Gina

Fuck Your Lecture on Craft, My People Are Dying

By Noor Hindi

Colonizers write about flowers.

I tell you about children throwing rocks at Israeli tanks

seconds before becoming daisies.

I want to be like those poets who care about the moon.

Palestinians don’t see the moon from jail cells and prisons.

It’s so beautiful, the moon.

They’re so beautiful, the flowers.

I pick flowers for my dead father when I’m sad.

He watches Al Jazeera all day.

I wish Jessica would stop texting me Happy Ramadan.

I know I’m American because when I walk into a room something dies.

Metaphors about death are for poets who think ghosts care about sound.

When I die, I promise to haunt you forever.

One day, I’ll write about the flowers like we own them.

“The corner store” di Ruan Guang-min, se si accettano i difetti, allora è vero amore. 阮光民《The Corner Store》,意大利版。”The corner store”, italian review

向下滚动阅读中文版本。由 ChatGPT 翻译。Scroll for the English version (translated with ChatGPT)

The corner store. Una vecchia drogheria è una delle uscite migliori degli ultimi anni. Sorprendente è dire poco. Ruan Guang-min, un autore taiwanese, porta in scena un insieme di personaggi normali, comunissimi, e certamente più interessanti dei vari superpotenziati che abitano i manga giapponesi. Il manhua taiwanese è largamente inesplorato in Italia, anche in alcune delle sue vette artistiche (come Chen Uen o Little Thunder). Da pochi anni la casa editrice Toshokan ne sta traducendo alcuni, con grandissimo favore del pubblico più maturo e raffinato.Guang-min è molto noto in patria per avere centrato storie corali imperniate su piccole attività commerciali di famiglia, ha vinto numerosi premi e i suoi manhua vengono trasposti in serie televisive. The corner store sente certamente l’andamento del drama, dello sceneggiato, non solo nel succedersi degli eventi, ma anche della scansione dell’azione in pagina, della prospettiva, dell’inquadratura. Guang-min è senza alcun dubbio uno dei migliori artisti che circolano tra gli scaffali italiani, la sua tecnica di disegno è sorprendente per l’efficacia, per l’icasticità, la velocità con cui la rappresentazione raffigurata diventa vivida, reale, vicina. La sua capacità di far correre l’occhio e la lettura è straordinaria. In questo lo ritengo supremo, inarrivabile.

Lui disegna in digitale ma il tratto rimane sempre molto artigianale, con delle sporcature tipiche del carboncino, della matita grassa passata di taglio sul cartoncino ruvido. Non si perdono le linee ravvicinate dello schizzo a matita e a pennino, le finezze del pennello. Una attenzione allo strumento utilizzato che è praticamente ignota a molti mangaka giapponesi, che ci danno sempre un tratto fine e pulito, perfetto e anonimo, e che in Europa viene invece molto apprezzata poiché segno caratteristico e distintivo di una sola mano, di un unico individuo. L’unicità, la riconoscibilità, è sempre un elemento positivo per l’occhio europeo, poiché avvicina l’artista alla creazione divina.

L’emozione che mi ha suscitato questo manga è di una immensa nostalgia di qualcosa che non ho mai posseduto. Sono una X Gen, i “corner store” esistevano ai miei tempi, anzi, non c’era altro tipo di negozio. Si chiamavano “bottega”, “emporio”, “spaccio”, o meglio ancora, con il nome del proprietario. “Vado dal Carlino, dal Ieraci, da Torre”, oppure si usava il soprannome paesano “il Magnamagna”, “il Brigante”.

Per me erano posti terribili, dove andare perché necessario, per una richiesta ricevuta in famiglia, che per una bambina diventa un ordine. Lì dentro mi sentivo un agnello il mezzo ai lupi, un pezzo di carne da pesare, una merce da poter acquistare semplicemente prendendola dallo scaffale. Sin da piccola sentivo il puzzolente fiato del patriarcato sul mio collo. Gli sguardi sezionatori dei “vecchi” (magari quarantenni) che indugiavano sul mio corpo di scolara elementare come se fossi una sugosa pietanza ambulante. Le donne adulte o erano acquirenti, quindi di passaggio, oppure mogli dei titolari, quindi ipostasi dei mariti. Le bambine non sarebbero state ammesse in bottega, nemmeno se figlie del titolare. Troppi maschi, troppi vizi, alcool, sigarette, possibilità di violenza, e non ultima, la vicinanza al mondo del danaro, dell’attività commerciale, da cui le femmine venivano accuratamente tenute lontane.

Perciò il pensiero che avrei potuto aspettare il bus alla bottega, o fare i compiti assieme agli altri bambini, mangiucchiando biscotti, come hanno fatto i protagonisti di The corner store, mi ha letteralmente assestato una coltellata nelle costole. A me, questa vita, questi ricordi, che probabilmente sono condivisi da molti miei coetanei maschi, sono stati negati poiché nata femmina. E mi chiedo quanta distanza ci sia tra i negozietti d’angolo della remota provincia calabrese degli anni ’70-’80 e quelli della provincia taiwanese di qualche anno fa. Mi chiedo se le millennial di Taiwan abbiano sentito anche loro il peso dello sguardo maschile andando a prendere un ghiacciolo. E inevitabilmente mi dico di sì.

E questa cosa mi fa arrabbiare, e mi addolora.

Nel racconto di Guang-min i personaggi femminili non mancano, ma quelli importanti sono solo tre rispetto agli innumerevoli maschi. Tutte e tre sono legate a temi romantici, e una soltanto ha una caratterizzazione forte al di fuori della sfera sentimentale. Se tra i maschi avvengono dialoghi e considerazioni sul senso della vita, sui propri sentimenti e sul commercio, questo non avviene tra i personaggi femminili, che si sovrappongono o si lambiscono occasionalmente, spesso senza avere una reale interazione che non sia la condivisione dello spazio nella pagina. Manca anche un analogo rapporto intergenerazionale che si sviluppa attorno al protagonista maschile.

La lettura è sempre molto piacevole, davvero commovente. Ma si avverte questo ronzio, il rumore di fondo, quella distorsione della realtà data dall’ assenza di metà del mondo. Se il manga giapponese è tristemente famoso per questa assenza o per la trasfigurazione delle donne in bambole scervellate, in una narrazione di persone ordinarie era legittimo avere una aspettativa più alta. Qui la scarsa presenza femminile non è una scelta editoriale, ma viene spontanea come specchio della società.

Se mi soffermo su questo punto invece che sulle altre qualità del fumetto è per due ragioni: la prima è che questa serie ha ricevuto moltissimi consensi e recensioni, e gli aspetti tecnici e narrativi sono stati già ampiamente esplorati. La seconda è è perché ritengo sia molto importante sottolineare come spesso i maschi descrivano un mondo a metà (le recensioni scritte da donne sono ancora troppo poche, sempre indulgenti o poco attente alla rappresentazione mediatica dei generi). Noi donne siamo abituatissime a immedesimarci in personaggi maschili, ecco perché il female gaze ci sconvolge sempre, o la ragione dell’enorme successo dei boy’s love.

Sentirsi tagliate fuori da un racconto di supereroi è brutto, ma se succede in una storia di persone ordinarie, si sente un dolore tanto forte quanto più è bella l’opera. E The corner store è veramente bellissimo. La vitalità dell’andamento narrativo, mescolata a temi umani così forti e toccanti, l’espressività dei personaggi, rendono questo manhua un vero tesoro, quel tipo di racconto da leggere e rileggere nell’arco del tempo, nel quale rivedersi, ogni volta cambiati (e uso il maschile di proposito) a seconda dell’età, delle scelte di vita. A colpire direttamente è però l’abilità artistica di Guang-min, che ha uno stile molto incisivo, carico nel segno ma privo di orpelli, che insiste nel dettaglio pur concedendosi la sporchevolezza della bozza. Una magia che pochi artisti sanno fare.

Personalmente ho apprezzato molto il personaggio di En Pei, proprio per la sua scelta (e anche perché è molto carino).

Da rimarcare lo splendido lavoro fatto dall’editore Toshokan sulla traduzione e sulle note, che hanno spesso occupato una parte considerevole dei margini.

Ruan Guang-min è anche un artista molto social e estremamente disponibile e alla mano: risponde sempre a tutti e tutte con parole di ringraziamento e gentilezza. Questo è il suo account Instagram, dove pubblica spesso anche disegni a colori da lasciare senza fiato.


漫画正是以这句话结束的:如果能够接受对方的缺点,那就是真爱。也许对漫画来说也适用吧?我想是的。

《小角落杂货店》(The Corner Store)是近年来最出色的新作之一,用“令人惊艳”来形容都显得太轻了。台湾漫画家阮光民带来了一群平凡普通的人物,比起那些充斥日本漫画的超能力角色,他们真实得多,也有趣得多。
台湾的漫画(manhua)在意大利基本上还是一片未被开发的领域,即使是像陈又宁、Little Thunder这样达到艺术高峰的作品也鲜有人知。最近几年,Toshokan出版社开始翻译一些台湾漫画,深受成熟且品味独特的读者群体欢迎。

阮光民在台湾非常有名,擅长描绘以家庭小型商店为背景的群像故事,赢得了无数奖项,他的作品也常常被改编成电视剧。《小角落杂货店》充满了电视剧般的节奏感,不仅体现在故事的发展上,也体现在分镜、透视、构图等画面布局上。
阮光民无疑是目前意大利书店里最杰出的艺术家之一。他的绘画技巧令人惊叹:画面生动、凝练、充满现实感,几乎一瞬间就能把读者带入故事之中。他让眼睛和思绪飞驰流动的能力,堪称无敌。对此,我认为他是至高无上的,无可匹敌。

虽然他使用数位工具作画,但笔触依然非常有手工感,保留了炭笔、粗糙铅笔在粗纸板上划过的那种质感。
他从不抹去铅笔或钢笔速写的紧密线条,细致的笔刷处理也清晰可见。对绘图工具细腻的掌控,在许多日本漫画家那里是很少见到的——他们往往追求细腻干净、完美而略显无个性的线条。而在欧洲,这种独特、辨识度高的个人风格反而非常受到推崇,因为它让艺术家显得像是独自创世的存在。
独特性辨识性,始终是欧洲读者眼中极其正面的价值。

这部漫画给我带来了一种对未曾拥有过的东西的巨大怀念。我是X世代,当年,”corner store”(街角杂货店)确实存在,事实上,那个时候只有这种店铺。它们被叫作“杂货店”“百货店”“供销社”,或者直接叫店主的名字,比如“去卡尔利诺家”、“去耶拉奇家”、“去托雷家”,又或者用乡村的绰号,“去大胃王家”、“去土匪家”。

对我来说,那些地方是令人害怕的地方,必须去,是因为家里交代了任务,对一个小女孩来说,就是无法抗拒的命令。
走进去,我仿佛是一只走入狼群的小羊,是一块等待被称重的肉,是货架上可以随手取走的商品。从小我就感受到了那股刺鼻的父权气息。
那些“老男人”(其实可能才四十岁左右)的目光,在我小小的女学生身体上流连,就像在打量一盘新鲜美味的菜肴。
成年女性不是匆匆而过的顾客,就是老板的妻子,是男人的附属品。小女孩则根本不应该出现在杂货店里——那里有太多男人、太多恶习(酒、烟、暴力),还有最重要的,钱与商业的世界,是女孩子被刻意远离的禁地。

因此,当我读到《小角落杂货店》里那些小孩可以在店里做作业、吃饼干、等公交时,我的心仿佛被狠狠地捅了一刀。
这种生活,这样的回忆,可能是很多男性同龄人共有的,而对我而言,仅仅因为是女孩,就被无情地剥夺了。
我不禁想,1970-80年代遥远的卡拉布里亚乡村小杂货店,与近年台湾乡镇的小角落杂货店之间,究竟有多少相似?
台湾的千禧一代女孩,在买冰棒时,是否也曾感受到男性目光的沉重?我想,答案是肯定的。

而这让我愤怒,也让我悲伤。

在阮光民的故事里,虽然也有女性角色,但重要的只有三个,相较之下男性角色却数不胜数。这三位女性角色都与浪漫情节有关,只有一位在爱情之外有着强烈的个性刻画。
男性角色之间有关于人生、情感、商业的对话和思考,而女性角色之间几乎没有真正的互动,顶多是偶尔擦肩而过,在画面上共享同一空间而已。
缺乏女性之间类似的代际传承与联系——而这种联系,男性角色间却是故事主轴之一。

阅读体验依然非常愉快,很多地方令人感动,但背景中,总有一种嗡嗡作响的不协调感:女性的缺席,扭曲了现实的完整性。
如果说日本漫画因女性角色的缺失或异化(变成无脑的娃娃)而臭名昭著,那么在描写普通人生活的作品中,我们本应期待更高标准。
《小角落杂货店》中女性的少数,不是编辑选择,而是自然而然地反映了现实社会。

我之所以特别强调这一点,有两个原因: 第一,这部作品已经收获了大量赞誉和评论,技术和叙事上的优点大家都讲得很多了; 第二,我认为指出这种现象非常重要:男性创作者经常只描绘出一半的世界,而女性评论者又太少,且往往太宽容,或者缺乏对性别呈现的敏感观察。

我们女性早就习惯于代入男性角色了,所以每当遇到真正的“女性视角”(female gaze)时,总会被深深震撼;也因此,boy’s love作品在女性群体中才会如此成功。
如果在超级英雄的故事里被排除在外已经让人心寒,那么在讲述普通人日常生活的故事里被排除,更是深深刺痛人心——尤其是当这部作品本身如此美丽动人时。
《小角落杂货店》正是这样一部杰作。
那种温暖的人情流动,与深刻动人的人生主题交织在一起,加上角色鲜活的表情和动作,成就了这部值得反复阅读、随年龄与人生经历不同而不断有新感悟的珍宝(我这里故意用了男性词形)。

最直接打动人心的,还是阮光民那种独特的艺术技巧——线条厚重有力,但绝不华而不实;细节充沛,却又大胆地保留粗糙与不完美。他掌握的那种“草图中的魔力”,是极少数艺术家才能做到的。

我个人非常喜欢**恩沛(En Pei)**这个角色,特别是因为他的选择(还有,他真的很可爱)。

还要特别表扬Toshokan出版社在翻译和注释上的用心——许多时候,注释占据了大量页面边缘,非常丰富而且清晰。

最后要说,阮光民本人也是一个非常亲切随和的艺术家,超级活跃在社交媒体上。他总是认真、友善地回复所有留言。这是他的Instagram账号,他经常分享一些让人屏息的彩色插画作品

阮光民也是一个非常亲切、极具亲和力的艺术家:
他总是温柔地回复所有粉丝的留言,表达感谢。
这是他的Instagram账号,他时常发布令人屏息的彩色插画。


The comic ends precisely with this sentence: if you accept the flaws, then it’s true love. Maybe it’s the same for manga? I’d say yes.
The Corner Store — an old-fashioned grocery shop — is one of the best releases in recent years. Calling it “surprising” would be an understatement. Ruan Guang-min, a Taiwanese author, brings to life a group of ordinary, everyday characters who are far more interesting than the super-powered ones populating Japanese manga. Taiwanese manhua are still largely unexplored in Italy, even in their artistic peaks (such as Chen Uen or Little Thunder). Only recently has the publisher Toshokan started translating some of them, to great acclaim among more mature and refined readers.

Guang-min is very famous in his home country for his ensemble stories focused on small family-run businesses. He has won numerous awards, and his manhua have been adapted into TV series.
The Corner Store definitely carries the pacing of a drama, not only in how events unfold but also in the way action is laid out on the page — the perspective, the framing. Guang-min is without a doubt one of the best artists currently available in Italian bookstores. His drawing technique is astonishing for its effectiveness, its vividness, and the speed with which the images come to life, feeling real and close. His ability to guide the reader’s eye and reading flow is extraordinary. In this, I consider him supreme, unreachable.

He draws digitally, but his linework always retains a handmade quality, with the smudges typical of charcoal or a soft pencil rubbed sideways on rough paper.
You can still see the close lines of pencil and pen sketches, the finesse of the brush.
Such attention to the tool used is practically unknown to many Japanese mangaka, who often offer clean, thin, flawless (and anonymous) lines — whereas in Europe, this more personal, handcrafted touch is highly appreciated because it reveals the artist’s individual hand.
Uniqueness, recognizability, is always a positive element for European eyes, as it brings the artist closer to the divine act of creation.

The emotion this manhua stirred in me was an immense nostalgia for something I never actually had.
I’m from Generation X — “corner stores” existed in my time; in fact, there weren’t any other kinds of shops. They were called “bottega”, “emporio”, “spaccio” — or, better yet, by the owner’s name: “I’m going to Carlino’s, Ieraci’s, Torre’s.”
Or sometimes by their nickname: “Magnamagna” (Big Eater), “the Brigand”.

To me, they were terrible places — places you went because you had to, often for a family errand which, for a little girl, felt like an unbreakable command. Inside, I felt like a lamb among wolves, a piece of meat to be weighed, merchandise that could be plucked off a shelf.
Even as a child, I could feel the foul breath of patriarchy on my neck.
The scrutinizing stares of the “old men” (often barely forty) lingering on my elementary-school girl’s body as if I were a tasty, walking morsel.
Adult women were either customers — thus fleeting presences — or the shop owners’ wives — mere extensions of their husbands.
Little girls weren’t really welcome in those shops, not even if they were the owners’ daughters.
Too many men, too many bad habits — alcohol, cigarettes, the ever-present risk of violence — and not least, the proximity to the world of money and business, from which females were carefully kept away.

So the idea that I could have waited for the bus at a shop, done homework together with other kids while munching on cookies — as happens to the protagonists in The Corner Store — felt like a stab in the ribs.
This life, these memories, which were probably shared by many of my male peers, were denied to me simply because I was born female.
And I wonder how far removed the little corner stores of rural Calabria in the ’70s and ’80s really are from those in Taiwanese provinces just a few years ago.
I wonder if millennial girls in Taiwan, too, felt the weight of male gazes when buying a popsicle.
And inevitably, I tell myself — yes, they did.

This thought both angers and saddens me.

In Guang-min’s story, there are female characters, but only three important ones compared to the countless male ones.
All three are tied to romantic subplots, and only one has a strong characterization outside of sentimental themes.
While the male characters have conversations about the meaning of life, emotions, and business, this kind of exchange doesn’t happen among the female characters, who merely overlap or brush against each other, often without meaningful interaction beyond sharing space on the page.
There’s also no intergenerational bond among the women like there is around the male protagonist.

The reading experience remains very pleasant and truly moving.
But there’s this constant hum, this background noise — the distortion caused by the absence of half the world.
If Japanese manga are sadly notorious for this absence or for turning women into brainless dolls, in a story about ordinary people, one might have hoped for something better.
Here, the underrepresentation of women isn’t an editorial choice: it feels natural, a mirror of society.

If I’m focusing on this aspect rather than the other many qualities of the comic, it’s for two reasons:
First, because this series has already received plenty of praise and reviews discussing its technical and narrative strengths.
Second, because I believe it’s crucial to highlight how often men describe only half the world (and how there are still too few female reviewers, often overly forgiving or not very attentive to gender representation).
We women are very used to identifying with male characters — that’s why the female gaze shocks us so much, and partly why boy’s love stories are so incredibly popular.

Feeling excluded from a superhero story is painful; feeling excluded from a story about ordinary people is even worse — especially when the work is so beautiful.
And The Corner Store is truly beautiful.
The vitality of the narrative flow, the touching human themes, and the expressiveness of the characters make this manhua a true treasure — the kind of story you reread over time, finding yourself in it again and again (and yes, I’m using the masculine consciously) depending on your age and life choices.

What strikes directly, however, is Guang-min’s artistic skill: his style is bold yet stripped of frills, deeply focused on detail while still embracing the roughness of a sketch.
A magic that few artists can achieve.

Personally, I really appreciated the character of En Pei, both for her choices and because — well — he’s also very handsome.

It’s worth highlighting the excellent work done by publisher Toshokan on the translation and notes, which often took up a significant part of the margins.

Ruan Guang-min is also a very social and extremely approachable artist: he always replies to everyone with words of gratitude and kindness. This is his Instagram account, where he often posts breathtaking illustrations.

#DRCL Midnight Children di Shin’ichi Sakamoto, il più grande artista postmoderno vivente (ita-eng-jap)

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Quando parlo di Shin’ichi Sakamoto sento di potere abbandonare le infinite cautele che adotto usualmente nell’analisi dell’Arte. So che qualsiasi iperbole possa usare (“il più grande artista vivente, il più grande mangaka della storia”) non è una assurdità. C’è, semmai, una sproprzione tra la considerazione che nell’Arte riveste il manga e la sua effettiva qualità artistica, ontologicamente intesa.

Se a qualcuno può sembrare che esageri, è solo perché il suo non è un nome tanto celebre come quello di Marina Abramovic, Joseph Kosuth o Sebastião Salgado. La diffusione del nome di un artista, nel mondo del Postmodernismo, è essa stessa un fatto pertinente all’Arte, e non è secondario, né considerabile puramente mercantilistico. C’è da aggiungere che il fumetto è considerato un’arte, sì, ma il retaggio classico che ci portiamo dietro lo fa qualificare come un parente povero della pittura (un po’ come era considerata la fotografia alla sua nascita).

#DRCL è arrivato al quarto numero in Italia, ed è il vertice tecnico della produzione di Sakamoto. Confesso di avere anche paura del numero 5. Si potrà superare? Vedremo.

Ho scritto il “vertice tecnico” per una ragione: nonostante il dispiego di energia, #DRCL non riesce a minare il primato di Innocent e Innocent Rouge nella descrizione dei personaggi. Innocent è certamente il manga meglio riuscito del nuovo millennio, è uno dei grandi capolavori della storia del manga, una pietra miliare, in cui disegno e scenggiatura sono perfetti, e che descrive due tra i personaggi più belli e realistici mai narrati dalla cultura pop giapponese.

Era difficile fare di meglio, ma Sakamoto è un tipo di artista che non si adagia, che si spinge sempre al di fuori della sua zona di comfort, tecnica e narrativa. L’essere sempre alla ricerca è una delle sue caratteristiche artistiche. Nuovi modi di osservare le solite cose. Nel suo feed su Instagram vediamo ogni giorno fotografie sempre diverse di un unico posto: un cavalcavia tra due arterie stradali, uno dei più grandi di Tokyo, presumibilmente dove si ferma durante il jogging che gli serve per sgranchirsi dopo tante ore di lavoro (da qui deduciamo una grande costanza nel disegno). Fotografare quel cavalcavia è un esercizio, una disciplina mentale, una routine di orari e di mantenimento degli impegni di livello quasi agonistico. Insomma un artista costante, organizzato e di grande partecipazione interiore nei confronti di ciò che produce. Nel documentario Manben di Naoki Urasawa, Sakamoto dice una cosa inusuale: che si diverte. Sia a disegnare che a correre. Il che non è sorprendente di per sé, quanto per il fatto che con il tempo il disegno diventa routinario e poco allettante per chi lo svolge a livello professionale. Anche per questa ragione -credo- ha una necessità di spingersi in territori estetici sempre nuovi e di affondare il pedale del “concetto” all’interno della rappresentazione visiva.

In #DRCL io ravviso un grande apporto del concettuale, e non ho citato Kosuth casualmente. C’è un alta quantità di ragionamento sull’Arte e sul manga, visibile sin dal secondo numero, ma adesso lampante. Sakamoto spinge la tecnica, la praxis del disegno del manga, in territori che nessuno conosce, che nessuno ha toccato, neanche lui, perché è lui il pioniere, è lui che nella storia di questo medium artistico sta creando un sentiero, come un rover marziano. Se non li tocca e non li sperimenta lui, nessun altro lo farà, perché lui sta spingendo al massimo le funzioni del disegno digitale. Lui sta portando il manga dove non era mai stato prima. E se noi consideriamo il fumetto un’arte, possiamo dire che sta portando l’Arte dove non era mai stata prima.

L’idea di cambiamento permea tutto #DRCL. Sakamoto stesso lo ha più volte ripetuto in interviste al Festival di Angoulême nel 2023. Il cambiamento è uno dei mulinelli narrativi della letteratura del tardo Ottocento europeo. La tecnologia di quel periodo è stato uno dei più grandi vettori narrativi. Tutto il mondo cambiava attorno ad essa, tanto che era quasi un passatempo per la borghesia. Molti avevano gli atlanti di Luke Howard, piccoli telescopi e binocoli, minime attrezzature meteorologiche, sistemi di scrittura veloci ed efficienti, come le macchine stenografiche e i cilindri fonografici. In #DRCL tutto cambia: l’età dei protagonisti, il loro status sociale, la loro fisionomia e la loro natura.

Il cambiamento ambientato nel passato è un espediente consolidato per descrivere quello del presente (l’evidenziazione dell’hashtag ne è la riprova), perciò a quale cambiamento può far riferimento Sakamoto se non al suo, a quello che sta apportando lui stesso al manga, o almeno alla sua componente tecnica e realizzativa? Io trovo questa consequenzialità assolutamente sbalorditiva e ammirevole. Sin dal numero 2 Sakamoto ha fatto un grandissimo lavoro sui grigi, inserendoci dei vettori decorativi e sovrapponendoli. In genere l’inserimento di motivi e decorazioni così fluidi e morbidi si riserva agli sfondi o alla rappresentazione figurativa delle emozioni. In #DRCL Sakamoto li usa invece anche negli abiti e nelle zone in primo piano della tavola, creando una distorsione semantica pazzesca. Altrettanto spesso l’insieme di questi elementi decorativi (sfumature, oggetti, disegni, stilizzazioni, tratteggio) viene frazionata in porzioni, nel più pieno stile Postmodernista, creando anche una sensazione di imbricamento tra vuoto e pieno, dentro e fuori, viscere e derma.

Il manga, come ogni medium, ha una sua semantica estetica, e Sakamoto la sta mandando all’aria a partire dalle basi, dal tratteggio e dal retino, che sono anche gli ambienti più sofferenti delle tecniche tradizionali. Io penso che molti suoi colleghi lo guardino con una certa soggezione. Secondo me Inoue lo odia. Il manga non potrà più essere lo stesso dopo #DRCL, forse questo cambiamento non arriverà subito, ma arriverà.

Il processo di lavoro stesso è uno spigere a un estremo le potenzialità del mezzo digitale. Per quello che abbiamo visto del Manben di Urasawa, Sakamoto impugna un comando con la sinistra, con il quale sposta il lavoro, lo capovolge, lo ruota, lo specchia, ingrandisce e rimpicciolisce (tutto senza guardare, come fosse un videogioco), mentre con la destra disegna, e sceglie di volta in volta il tipo di oggetto chi serve: abbigliamento, acconciature, sfondi, ecc, e ovviamente anche sfumature e vettori decorativi. Le due mani rispondono a differenti necessità in modo velocissimo. Nel lavoro tradizionale una mano disegna, l’altra è a riposo o tiene il foglio. Guardarlo lavorare è impressionante.

Tanto lavoro chiederebbe di essere celebrato, ma se la trama lo richiede, lo occulta senza problemi. Nel secondo volume ha sfocato alcune tavole che in partenza erano ricchissime di dettagli. Come fossero in origine non lo saprà nessuno.

La ricchezza delle tavole è arte-illustrazione tout court, ed è incredibile che tavole così belle riescano a mantenersi fedeli a una dimensione narrativa propria.

La cultura artistica di Sakamoto è impressionante, l’amore per l’Arte in ogni sua espressione è palpabile. Lo senti, percorre ogni pagina. Si possono trovare riferimenti ovunque. In Innocent erano già presenti, da Piranesi a Doré, da Jacques-Louis David a da Honoré Daumier e Sailor Moon , ma perlopiù erano sottili, per conoscitori, diciamo. ma qui sono massimaliste, esuberanti.

Dracula è Michael Jackson, oscuro e meravigioso. Le gradazioni di chiaro e scuro sono lasciate al lettore.

La tecnica a tratteggio ha assunto in questo numero il sapore dell’incisione della metà del Cinquecento (il melograno è un frutto simbolo del Rinascimento), in cui il segno del bulino è più largo dove si appoggia e più sottile nella direzione del tratto. Ovviamente per fare questo bisogna creare un pennello digitale adatto ed enfatizzare le caratteristiche del reale. È un incredibile lavoro mentale, una mirabile capacità di sintesi grafica.

Dürer è una delle fonti primarie dalla quale si abbevera la storia della grafica occidentale (un manga fortemente ispirato allo stile di Dürer è Atelier of Witch Hat).

Sinistra: Dulac. Centro: la pittura impressionista, Toulouse-Lautrec, Renoir, la morbidezza di Ingres. Destra: la favolistica fin de siècle, Arthur Rackham, il Liberty di Beardsley.

Il Discobolo di Mirone, ma dopo che ha scagliato il disco

Le influenze di Sakamoto appartengono più alla fotografia che alla pittura: la stilizzazione teatrale del corpo di Joel-Peter Witkin, i tatuaggi di Chloé Jafé, la complessa composizione visiva di Daido Moriyama, l’erotismo di Nobuyoshi Araki. La capacità di Sakamoto di accogliere suggestioni provenienti da ogni epoca e ogni media è semplicemnte sterminata. È una caratteristica specifica del Postmodernismo, di cui è oggi una delle voci più nitide. Questo quarto numero di #DRCL è un momento memorabile della storia dell’Arte contemporanea. È una cosa per la quale sono grata di vivere.

Il corpo è basilare nell’opera di Sakamoto, anche nelle opere precedenti a The climber che gli ha dato la fama anche in occidente. Lo racconta (sempre in Manben) a proposito di Hokuto no Ken, che lo impressionò per i muscoli. Il corpo come veicolo, agente e memoria, quindi come trasformazione, azione e cadavere.

L’erotismo che questi corpi emanano è così intenso da non avere necessità di rappresentare.

Nel quarto volume è il paradosso, l’illusorio, l’enigmatico a essere padrone supremo. Le pagine sono abitate da figure geometriche infinite o impossibili, la tribarra di Penrose, cubi di Necker, nastri di Möbius. Geometrie e figure topologiche create o rese celebri da Maurits Cornelis Escher, che potremmo definire il grafico più grande di tutti, guarda caso un incisore, ossessionato dall’idea di convogliare il disordine mentale, artistico, psicologico, in un ordine apparente, superficiale, formale. Escher fu anche l’assoluto mago del frazionamento del piano, la tassellatura (che oggi chiamaiamo pattern). Due curiosità: Escher venne in calabria, fu a Pentidattilo e a Melito, ed è morto nel 1972, l’anno di nascita di Sakamoto.

Ecco perché ho detto che c’è un grande apporto del concettuale in quest’opera: il dissidio senza requie, sempre in movimento, tra gli schemi umani del pensiero e la vastità del reale. L’inconciliabilità tra l’ordine ideale e il caos reale. Il due mondi (idee umane e realtà) non sono commensurabili, cioè non possono essere misura l’uno dell’altro (come misurare la lunghezza in litri). La matematica è uno degli strumenti più efficienti per la conoscenza del mondo, ma non funziona affatto nel mondo delle idee e della conoscenza, men che meno in quello della psiche. Sakamoto accede alla parte più recondita della psiche, producendo un vortice visivo che ha del lisergico.

Le pagine sono così ricche di dettaglio che il formato giusto per apprezzarle è un A3. In Italia purtroppo la serie Innocent è penalizzata da un formato minuscolo con margini esterni e interni malamente tagliati. Nonostante il formato e i difetti tipografici, l’edizione J-Pop rimane la migliore per brillantezza della carta e profondità del nero dell’inchiosto. Quella giapponese non è un granché, perché l’avorio della carta leggermente ruvida non si adatta alla finezza del tratto di Sakamoto, che richiede invece un massimo contrasto e carta liscia e lucida. Questo vale anche per #DRCL, la carta dell’edizione giapponese è opaca e scadente. Probabilmente J-Pop non ha capito cosa aveva tra le mani, e #DRCL è stato stampato a dovere (anche se un formato ancora più grande sarebbe stato meglio). J-Pop è una casa editrice molto variabile per il risultato tipografico, ma ha dei materiali molto buoni e quando lavora bene non ce n’è per nessuno.

ENGLISH- Chat GPT translation (she skipped a few steps, but she makes me feel more skilled than I am)

#DRCL Midnight Children by Shin’ichi Sakamoto: The Greatest Living Postmodern Artist

When I talk about Shin’ichi Sakamoto, I feel I can abandon the endless caution I usually apply to analyzing Art. I know that any hyperbole I might use (“the greatest living artist, the greatest mangaka in history”) is not an absurdity. If anything, there is a disproportion between the status manga holds in Art and its actual artistic quality, ontologically speaking.
If someone thinks I’m exaggerating, it’s only because his name isn’t as renowned as Marina Abramović, Joseph Kosuth, or Sebastião Salgado. In the world of Postmodernism, the prominence of an artist’s name is itself relevant to Art, not secondary or merely commercial. Moreover, comics are recognized as an art form, but our classical heritage makes them seem like a poor cousin to painting (much like photography was viewed at its inception).

#DRCL has reached its fourth volume in Italy and represents the technical pinnacle of Sakamoto’s work. I confess I’m afraid of the fifth volume—can it surpass this? We’ll see.
I wrote “technical pinnacle” for a reason: despite the immense energy it conveys, #DRCL cannot dethrone the primacy of Innocent and Innocent Rouge in character depiction. Innocent is undoubtedly the best manga of the new millennium, one of the great masterpieces in manga history, a milestone where drawing and storytelling are perfectly balanced, depicting two of the most beautiful and realistic characters ever narrated in Japanese pop culture.

It was hard to imagine anything better, yet Sakamoto is the kind of artist who never rests, always pushing himself beyond his comfort zone, both technically and narratively. This constant search is one of his defining traits as an artist: finding new ways to see the usual things. His Instagram feed shows us daily photographs of the same place—a flyover between two major roads, presumably where he stops during his jogging routine to stretch after long hours of work. This reveals a disciplined artist with a near-athletic commitment to his craft.

In Naoki Urasawa’s Manben documentary, Sakamoto says something unusual: he enjoys himself—both drawing and running. This isn’t surprising per se, but it is in the context of professional drawing, where routine often dulls the appeal of the craft. Perhaps this need to explore new aesthetic territories and push the “conceptual” pedal in visual representation stems from this joy.

In #DRCL, I see a significant conceptual contribution, and my reference to Kosuth was not accidental. There is a high degree of reflection on Art and manga, evident from the second volume and now undeniable. Sakamoto pushes the praxis of manga drawing into uncharted territory, even for himself, as he pioneers this medium. If he doesn’t explore and experiment, no one else will—he is pushing the limits of digital drawing, taking manga where it has never been before. And if we consider comics as art, then he is taking Art where it has never been before.

The theme of change permeates all of #DRCL. Sakamoto has repeated this in interviews, such as at the 2023 Angoulême Festival. Change is one of the narrative whirlpools of late 19th-century European literature, driven by the technology of the time, which was a great narrative catalyst. During that era, the bourgeoisie entertained themselves with things like Luke Howard’s atlases, small telescopes and binoculars, meteorological instruments, shorthand machines, and phonograph cylinders. In #DRCL, everything changes: the protagonists’ ages, social status, physiognomy, and nature.

Change set in the past is a well-established device to describe the present (as the hashtag emphasizes). What change could Sakamoto be referencing if not his own—the one he is bringing to manga, especially its technical and production aspects? This consequentiality is astonishing and admirable. From volume 2 onward, Sakamoto has done remarkable work with grays, incorporating decorative vectors and overlaying them. Typically, such fluid and soft motifs are reserved for backgrounds or visual depictions of emotions. In #DRCL, Sakamoto uses them in clothing and foreground elements, creating a semantic distortion.

Sakamoto’s artistic culture is breathtaking, and his love for Art in all its forms is palpable on every page. In Innocent, references were already present—from Piranesi to Doré, from Jacques-Louis David to Sailor Moon—but they were subtle, intended for connoisseurs. Here, they are maximalist and exuberant.
His hatched technique now echoes 16th-century engraving, where the burin’s stroke widens with pressure and tapers off. Creating this effect digitally requires crafting specific brushes and emphasizing real-world characteristics—a brilliant synthesis of graphic skill.Dürer is one of the primary sources from which Western graphic history drinks (a manga strongly inspired by Dürer’s style is Atelier of Witch Hat). However, Sakamoto’s influences lean more towards photography than painting: the theatrical stylization of Joel-Peter Witkin’s bodies, the tattoos of Chloé Jafé, Daido Moriyama’s complex visual compositions, and the eroticism of Nobuyoshi Araki. Sakamoto’s ability to draw inspiration from every era and medium is simply boundless—a hallmark of Postmodernism, of which he is one of the most distinct voices today. This fourth volume of #DRCL is a memorable moment in contemporary Art history, something I am grateful to witness in my lifetime.

The body plays a fundamental role in Sakamoto’s work, even in pre-The Climber projects that gained him fame in the West. In Manben, he recounts how Hokuto no Ken (Fist of the North Star) impressed him with its depiction of muscles. The body, then, is a vehicle, an agent, and a memory—a symbol of transformation, action, and ultimately, a corpse.
The eroticism these bodies emanate is so intense it requires no explicit representation. In the fourth volume, paradox, illusion, and enigma reign supreme. The pages are inhabited by infinite or impossible geometric figures—the Penrose tribar, Necker cubes, Möbius strips. These are geometries and topological figures created or popularized by M.C. Escher, arguably the greatest graphic artist of all time.

Escher, who happened to visit Calabria (Pentidattilo and Melito) and died in 1972—the year of Sakamoto’s birth—was obsessed with channeling artistic and psychological chaos into an apparent, surface-level order. His mastery of plane division, or tessellation (what we now call patterns), mirrors Sakamoto’s meticulous compositions.

This is why I mentioned #DRCL’s strong conceptual core: the unending conflict between human cognitive schemes and the vastness of reality, the irreconcilable divide between ideal order and real chaos. The two worlds—human ideas and reality—are incommensurable, meaning they cannot be measured by the same standard (like measuring length in liters). Mathematics, one of the most effective tools for understanding the world, utterly fails in the realms of ideas, knowledge, and especially the psyche. Sakamoto delves deep into the psyche’s hidden corners, creating a visual whirlwind that borders on the psychedelic.

The pages are so richly detailed that the ideal format to appreciate them would be A3. In Italy, unfortunately, the Innocent series suffers from a tiny format with poorly cut outer and inner margins. Despite the size and typographic flaws, the J-Pop edition remains the best for its paper brilliance and ink depth. The Japanese edition is lackluster—the slightly rough ivory paper does not suit Sakamoto’s fine linework, which demands high contrast and smooth, glossy paper. This also applies to #DRCL: the Japanese edition’s matte paper is underwhelming. J-Pop likely didn’t realize what they had in their hands, but they printed #DRCL properly (though an even larger format would have been ideal).

J-Pop is highly variable in typographic quality, but when they get it right, their materials shine, leaving competitors behind.

captions: 1)Dracula is Michael Jackson, dark and wondrous. The shades of light and shadow are left to the reader.

2)Left: Dulac. Center: Impressionist painting, Toulouse-Lautrec, Renoir, the softness of Ingres. Right: Fin de siècle fairy tales, Arthur Rackham, the Art Nouveau of Beardsley.

3)The Discobolus of Myron, but after he has thrown the discus.

この文章はAI(人工知能)による翻訳です。原文はイタリア語で書かれています。内容の正確さを維持するために細心の注意を払いましたが、必要に応じて修正や解釈を行っています。(いくつかのステップを飛ばしたけど、私を実際よりも上手だと感じさせてくれる。)


シンイチ・サカモトについて語る時、私は通常、芸術を分析する際に抱く慎重な態度を捨て去ることができます。どんな誇張をしても(「生存する最大の芸術家」、「歴史上最高の漫画家」など)、それが不条理なものではないと確信しています。それよりもむしろ、漫画が芸術において占める位置と、その実際の芸術的価値(本質的に見た場合)との間にある不均衡が問題です。

もし私の言葉が誇張だと感じる人がいるとしたら、それはおそらく、彼の名前がマリーナ・アブラモヴィッチやジョセフ・コスース、セバスチャン・サルガドのように有名ではないからでしょう。ポストモダニズムの世界において、芸術家の名前の普及そのものが芸術に関連する事実であり、それは単なる商業的な問題として片付けられるものではありません。加えて、漫画は確かに芸術として認識されていますが、私たちの古典的な文化遺産が、漫画を絵画の貧しい親戚のように見なす傾向があるのも事実です(ちょうど写真が誕生当時にそう見なされていたように)。

#DRCLの第4巻がイタリアで出版され、これはサカモトの作品の技術的な頂点だと言えるでしょう。私は第5巻が少し怖いです。これを超えることができるのか?見てみましょう。
「技術的な頂点」と表現したのには理由があります。#DRCLが放つエネルギーの量にもかかわらず、登場人物の描写においては『イノサン』と『イノサン・ルージュ』の優位性を脅かすことはできていないからです。『イノサン』は間違いなく新しい千年紀の最高の漫画であり、漫画の歴史における偉大な傑作の一つです。物語と描写が完璧であり、日本のポップカルチャーが描いた最も美しく現実的なキャラクターを2人も含んでいます。

サカモトのようなアーティストは現状に甘んじることはありません。常に自分のコンフォートゾーンを超えていく、技術的にも物語的にも。日々新しい視点を追求し、インスタグラムのフィードでは、同じ場所(東京の2つの幹線道路を繋ぐ高架橋)を毎日違う視点で撮影しているのを見ることができます。これはおそらく彼が長時間の仕事の後にリフレッシュのために行うジョギングの途中で立ち寄る場所でしょう。このような日課は、規律や約束を守るための精神的な訓練といえます。『漫勉』という浦沢直樹のドキュメンタリーでは、サカモトが「楽しい」と言っていることが印象的です。描くことも走ることも楽しむ。それはプロとして仕事を続ける中で単なるルーチンに陥りがちな活動に新しい意味を与えるものです。

そして、この情熱的な姿勢こそが、サカモトを他の芸術家たちから際立たせる要因です。彼の作品には、単なる「描き手」としての枠を超えた魂のようなものがあります。それは、特に彼が歴史や文学、哲学を独自の方法で融合させる能力に表れています。たとえば、『イノサン』ではフランス革命の最も血生臭い場面を、美しさと悲劇が共存する視覚的な詩に変えました。また、#DRCLではブラム・ストーカーの『ドラキュラ』を新たな解釈で蘇らせ、時代を超えたテーマと視覚的なエネルギーを持つ物語に仕上げています。

彼の画風は、精密な構成と大胆なアートスタイルの間を行き来しながら、視覚的な爆発を生み出します。その線は、時に痛みや恐怖、または愛や希望をも感じさせる力を持っています。それは単なる漫画の枠を超えたものであり、現代美術の最高の表現のひとつとして評価されるべきです。

結論として、シンイチ・サカモトのようなアーティストは稀有な存在です。彼は漫画というメディアを新たな次元に引き上げ、その限界を押し広げています。#DRCLの第5巻がどのような方向に進むのか、彼が今後どのような新しい挑戦をするのかはわかりませんが、私たちは彼の次の作品を期待せずにはいられません。

私たちは彼の作品を通じて、ただ芸術を「見る」だけでなく、それを「感じ」、それと対話し、そして世界を新しい目で見るように促されています。これこそが、サカモトが私たちに与える最も大きな贈り物なのです。

キャプション : 1)ドラキュラはマイケル・ジャクソンのように、暗くて素晴らしい存在です。光と影の濃淡は読者に委ねられています。2) 左: デュラック。中央: 印象派絵画、トゥールーズ=ロートレック、ルノワール、アングルの柔らかさ。右: 世紀末の寓話、アーサー・ラッカム、ビアズリーのアール・ヌーヴォー。3)ミュロンの「円盤投げ」の彫像、ただし円盤を投げ終えた後の姿。


Sfondi estivi per cellulare – free download – uso personale e commerciale

Questi disegni sono fatti a mano da me, senza firma o contrassegni. Sono ceduti a chiunque voglia per l’uso che ritiene proprio, sia personale che commerciale.

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“Giardini Indecisi”, film documentario di di Emilio Tremolada, sabato 8 ottobre alla Cineteca di Milano

Per la rassegna cinematografica Forum Ambiente a Milano, dopo la proiezione di mercolì scorso del Tempo del Casoncello, di cui ho parlato in questo articolo, sabato 8 ottobre 2022, a partire dalle 16:30, dopo il film Alberi, il film documentario Giardini Indecisi di Emilio Tremolada (per chi ricorda il forum di CdG, stiamo parlando di Trem).

Ho visto maturare entrambi i progetti, Trem è stato così gentile da farmi avere le anteprime, da discutere con me su alcuni punti. Ci siamo scambiati idee e opinioni, perciò io so già che Giardini Indecisi è un film bello, ma complesso, a cui si arriva prima con l’intuizione che con l’analisi.

Sono curiosa di sapere cosa ne pensate, se avrete la possibilità di vederlo in zona Milano, questo sabato, il mio consiglio è di non lasciarvi scappare quest’opportunità.

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Attraverso le più svariate esperienze e vissuto nella natura, Giardini Indecisi coglie l’intimo dilemma del giardino contemporaneo e di chi lo pratica.

Spingendosi nelle frange delle funzioni in cui il giardino è oggi sfilacciato, Giardini Indecisi si interroga su quale sia il totale da ricomporre.

Senza giudizi né sentimentalismi, Giardini Indecisi raccoglie il silenzioso muoversi della vegetazione attorno alle aree urbane, la paziente operosità dell’umana che alleva api regine, la pluridecennale raccolta di varietà di frutta dimenticata, la creatività mistica di uno scultore di ossa e sassi, la dedizione della gente comune nella coltivazione collettiva di ortaggi e verdure, quella della singola persona nel curare il giardino in modo da non ledere la terra.

Compaiono nel film i pensieri in corsa di Lara Amalfitano per il suo giardino di campagna, gli ailanti e le robinie e i pioppi che crescono nell’area della ex fabbrica Innocenti, la sorellanza con le api di Benedetta Berardi che seleziona api regine e ne assiste le famigliole, il giardino alimentare tra la terra e la luna di Carla Leni, i suggerimenti notturni di un barbagianni e di un gatto bianco che richiamano Francesca Bettini alla cura di un vecchio giardino, la sapienza e le varietà di antica frutta di Isabella Dalla Ragione, le sculture di sassi, utensili in ferro e ossa nell’orto giardino di Lorenz Kuntner, gli ortisti degli orti condivisi del Giardino San Faustino a Milano.

Nell’inarrestabile scivolare verso la postmodernità, Giardini Indecisi decide di andare controcorrente e ricostruire un intero, un insieme di attività, ludiche, sociali, umane, di pratiche destinate all’alimentazione, alla cura dell’ambiente e della fauna, o semplicemente mosse dalla vocazione all’ornamento.

Guidato da un senso poetico, con il genuino intento di esplorare un’arte da sempre scucita tra scienza, hobbistica, piacere e intuizione, Giardini Indecisi insegue la domanda e la risposta che da sempre agitano le menti dei giardinieri: cosa fa di un giardino un giardino?

Come la natura che ama nascondersi, nella colonna sonora composta da Andrea Inchierchia, gli strumenti musicali si mimetizzano, abbandonano la loro timbrica usuale, suonano spesso in modo indeterminato per essere una nuova voce. Il paesaggio sonoro, suoni di traffico, vento, api, uccelli, trattori, è elemento della partitura che compone la musica di Giardini Indecisi.

“Sanctuary” di Shō Fumimura (Buronson) e Ryoichi Ikegami. Un inimitabile esito artistico del manga anni ’90

Sanctuary è un manga ormai dimenticato, adatto a un pubblico che ha un certo occhio e un approccio molto maturo al fumetto giapponese, quasi filologico o da collezionista, bibliografico.

Non nasconde gli anni che ha, ma in un modo che non è concesso ad altre opere: l’aderenza alla sua epoca, non un invecchiamento precoce o il non essere più valido poiché superato dal trascorrere del tempo.

La traccia raffinata e quasi sublime di Ikegami, sicuramente uno dei massimi disegnatori dell’epoca e probabilmente uno dei più eleganti della storia, rende il manga così graficamente sofisticato da estrometterlo dalle grazie dell’interesse delle next generation, aduse a un tratto grafico più rigido e omologato, anche qualora sia elaborato e complesso.

Ikegami è morbido, i volti dei protagonisti sono lineari e simmetrici, puliti, con qualche propensione alla fisionomia del miglior Elvis Presley di sempre, quello di King Creole. Forse è questo che agli occhi dei lettori contemporanei lo fa risultare un po’ “effemminato” e poco attuale, “persino kitsch” (ho letto anche questa opinione in rete).

La sua ben nota inclinazione verso le scene di violenza, sesso e sangue potrebbe apparire oggi quasi una forma compensatoria della eccezionale bellezza dei protagonisti, in realtà è una precisa scelta estetica che all’epoca era innovativa e fuori dall’ordinario. In Italia non eravamo infatti abituati a manga con personaggi dalla bellezza fine ed elegante, in cui fossero presenti scene di violenza. In questo Ikegami è stato sicuramente una novità assoluta per il pubblico italiano, che arrivò a coniare per il suo stile il termine “estetica della violenza”, ben prima che Tarantino divenisse un fenomeno cultuale.

Se all’epoca la violenza e il sesso presenti in Sanctuary potevano sembrare “tanto”, sono nulla confronto ai fumetti contemporanei, diretti spesso a un pubblico piuttosto giovane. Ciò che non sembra essere stato superato è l’avvincente dinamismo delle figure durante la lotta o le scene di azione. In Crying Freeman, il suo manga più famoso, Ikegami raggiunge il vertice della perfezione per quanto riguarda la disposizione delle scene in pagina, il movimento delle figure e il tratto veloce e preciso. In particolare il disegno dei piedi, spesso abbozzato ma perfettamente comprensibile, richiama i disegni a inchiostro delle antiche illustrazioni giapponesi.

L’ edizione italiana è purtroppo specchiata, cioè si sfoglia come un libro tradizionale. Oggi è persino fastidioso e controituitivo, tanto i manga sono capillarmente diffusi. Questo è uno degli elementi che hanno contribuito all’attribuzione della qualifica di “vintage” o “démodé” . Senza prezzo e di notevole valore di ricostruzione della storia sociale del manga in Italia, sono invece i commenti e le lettere alla redazione, a cui molte pubblicazioni dell’epoca lasciavano spazio. In quel periodo il manga non era diretto a un pubblico generalista o perfino distratto, come lo è oggi. Chi acquistava era un appassionato che si era contrabbandato videocassette, disegni e magazine in fotocopia. Avere un “libretto” in mano era per noi qualcosa che non ci faceva sentire né soli né strani nel godere delle nostre passioni. Avevamo finalmente una forma istituzionale di cultura a cui fare riferimento, scoprivamo insieme molte cose, e queste pubblicazioni sono state apripista per avere una migliore consapevolezza di quanto vasto e bello fosse il mondo del manga giapponese. Alcune lettere oggi sanno di una ingenuità tenera e commovente. Immagino che chi le abbia scritte abbia approfondito, sia ora un collezionista, abbia magari imparato il giapponese, e le conservi come un piccolo tesoro.

Sanctuary è una storia complessa, a volte può apparire poco credibile e inutilmente intricata, ma è sostanzialmente una riproposizione aggiornata agli anni Novanta, di quanto accadde in Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia non è solo una “storia di politica” o una “storia di yakuza”, sebbene questi due elementi siano presenti. Semmai la yakuza è un espediente per raccontare in modo più avvincente un reale problema politico che il Giappone sentiva in maniera allarmante durante gli anni Novanta, quando implose la bolla speculativa e l’intera società iniziò a riformulare le sue dinamiche sociali. Non viene occultata l’importante influenza sulle modifiche alla costituzione da parte degli Stati Uniti. Nel manga compare il presidente USA, con le fattezze di Bill Clinton (presidente nei Novanta, tra i vari Bush).

Basta dare una letta a wikipedia per trovare delle analogie fortissime alla storia politica del dopoguerra, le modifiche alla Costituzione e la dichiarazione di antimilitarismo del Giappone, pilotata dagli Stati Uniti d’America che avevano inginocchiato la nazione con due bombe atomiche. Perfino Isaoka, la “vecchia volpe” della politica, è ispirato a Shigeru Yoshida (a me ha ricordato molto fittamente Andreotti: ogni paese ha le sue icone di sciacallaggio), che fuse i partiti più potenti del tempo nel Partito Liberal Democratico, che ha tenuto le redini del Giappone per mezzo secolo, fino a un decennio addietro.

Nel disegnare Isaoka, Ryoichi Ikegami ha premuto forte sul pedale dell’acceleratore, esprimendo il massimo della sua capacità tecnica sul tratteggio e il chiaroscuro. Isaoka è in assoluto il personaggio su cui è stato speso più sforzo estetico. Fa paura davvero.

Il chiaroscuro è ai massimi livelli. La qualità del disegno è illustrazione tout court.
Qui ha usato matita morbida, probabilmente una B4 o B5. Sono cose di fronte alle quali il mio cuore trema.

Chiaki Asami e Akira Hojo sono due faccie della stessa medaglia. Hanno affidato l’uno la vita nelle mani dell’altro da ragazzini, in un campo di prigionia in Cambogia. Darebbero la vita l’uno per l’altro ( e si può dire che Chiaki sia morto al posto di Akira) e vogliono ottenere un risultato, un risultato epocale e quasi mistico, religioso: rendere il Giappone il loro santuario. O meglio, far tornare il Giappone ad essere un santuario, un paese degno e non corrotto. Per farlo si dividono i compiti, uno diverrà un uomo politico e l’altro un boss della yakuza. Qui capiamo benissimo che Buronson ci dice con grande chiarezza che il potere governativo è legato a doppio filo con la criminalità, che -come in ogni stato capitalista- non è indipendente né autonoma, ma prende ordini dal governo. Anche in Italia è così, se qualcuno pensa che la ‘ndrangheta o la camorra non siano al servizio dello Stato Italiano si beva un caffè.

Una modifica della Costituzione sembra essere il nocciolo della questione sollevata da Buronson. Il Giappone è infatti in uno stato di contraddizione, avendo su carta rinunciato al militarismo. Asami fa notare che però -come tutte le altre nazioni- anche il Giappone ha un esercito per la difesa interna. Propone diverse soluzioni per raggiungere una coerenza che non sia lesiva ma neanche autolesionista. In questo -io credo- Buronson abbia voluto rimarcare che il Giappone ha bisogno di emanciparsi da una legislazione vecchia e che ha diritto all’autodifesa, senza ricorrere a mezzucci o alla vastissima rete della criminalità.

Akira e Chiaki padroneggiano il loro territorio con grande sicurezza. In particolare Akira Hojo, il boss yakuza, sembra imbattibile. In questo Sanctuary pare anticipare quel tipo di videogioco a livelli crescenti di difficoltà, in cui i personaggi non cedono di fronte a fertite gravi e ostacoli impensabili, anzi, riescono ad aggirarli o superarli. Akira Hojo acquisisce la leadeship di buona parte della yakuza giapponese e Chiaki Asami riesce a portare dalla sua parte i membri chiave della politica, personaggi con uno spirito di ribellione e senso di giustizia non ancora sedati. Non mancano figure come il contabile e il banchiere, che all’occhio occidentale rimandano agli Intoccabili. Dopo aver portato a sé buona parte dei gruppi yakuza, Akira intende fare patti con la mafia russa e quella cinese, un sistema di criminalità transnazionale tra superpotenze che oggi appare più che mai saldo e longevo. Su questi legami Ikegami e Buronson si soffermeranno nuovamente nel poco noto Strain, che parte come vicenda umana e si conclude come azione politica, e che disgraziatamente non ha visto un seguito. Pur rimanendo al di sopra della maggior parte della produzione di manga contemporanei, Strain ha però un calo visibile di qualità rispetto a Sanctuary, che assieme a Heat rimane l’opera più bella di Ikegami.

Con gli occhiali tondi nella migliore tradizione dei banchieri che compulsano colonne fitte di numeri di quotazioni, ha l’abitudine di mandar giù mentine.

Nell’amicizia di Akira e Chiaki c’è ovviamente un accenno non troppo velato all’omosessualità e a quello che oggi chiamiamo BL o yaoi, le storie di amore romantico tra uomini. È fin troppo chiaro che tra i due protagonisti ci sia del sentimento non solo fraterno, anche se vediamo entrambi con delle donne. La personaggia che si lega ad Akira, la commissaria Kyoko Hishihara, è davvero futile e mal descritta proprio perché meramente funzionale a dichiarare Akira come eterosessuale. La compagna di Chiaki è un’apparizione fugace e quindi più simpatica e gradevole.

Akira ha un volto bellissimo, quasi quanto quello di Yo Hinomura di Crying Freeman, mentre Chiaki è descritto in modo più realistico, con il vezzo di aggiustarsi gli occhiali sul naso: un gesto ormai tipico di moltissimi personaggi dei manga e soprattutto degli anime (in cui ovviamente riesce più interessante grazie al movimento). È anche uno stilema ormai consolidato nel BL, come in Yuri!!! on Ice o Free! (Rei Ryūgazaki lo fa in continuazione). Akira riesce a uscire da uno stato quasi comatoso stringendo la mano di Chiaki (con l’aggiunta dell’elemento femminile dato da Kyoko che in questo frangente appare quanto mai superflua).

Tutti gli yakuza sono fraterni tra loro e la reciproca dedizione va oltre la verosimiglianza. Buronson affida a Tokai il compito di affrancare tutti i maschi presenti nel manga dall’ipotesi di omosessualità, facendogli violentare una donna ogni tanto, così, giusto per gradire. Lo stupro è quasi una regola nel manga e nell’anime giapponese, ma in questo caso non appare né hard-core né particolarmente stimolante, quanto “obbligato”. Tokai è il personaggio più importante e interessante dopo Hojo e Asami, e i suoi stupri occasionali lo caratterizzano in modo abbastanza inequivocabile, tuttavia non in modo unico e individuale. Risultano quindi gratuiti e strettamente funzionali all’indicazione di un orientamento straight. Questo fa perdere un po’ di freschezza al personaggio, che risulta invece molto più avvincente nelle sue manifestazioni di insolito e contraddittorio affetto per Akira Hojo o nelle spietate azioni da killer. Tokai è anche il personaggio che si muove di più, il più violento e lo yakuza più aderente all’immaginario.

Il dinamismo delle figure è straordinario. Al contrario del manga contemporaneo di azione, in cui i corpi (umani, di mostri, animali o altre figure) riescono a volte confusi e “impastati”, qui sono perfettamente separabili e comprensibili all’occhio, grazie anche a una retinatura pulita e attenta. Personalmente anche nei manga più celebrati,non ho più ritrovato questo stile elegante e dinamico.

Anche gli altri personaggi vengono descritti con bellissimi tratti, ognuno in modo molto individuale. Di sicuro il pubblico femminile troverà almeno uno su cui perdere gli occhi.

Un discorso quasi marginale è quello dei comportamenti sessuali di Akira Hojo e Chiaki Asami. In Crying Freeman la componente sessuale era di primaria importanza, Yo Hinomura s’è fatto anche i sassi della spiaggia. Ma si trattava sempre di rapporti etero, per quanto hard. Qui si vedono pochi accenni, specie su Asami, e la personaggia affiancata a Hojo è abbastanza noiosa, narrativamente inutile. Eppure è molto carina e ben descritta (graficamente), con un taglio corto piuttosto in voga qualche anno prima. Gli incontri tra i due sono sempre molto delicati e romantici, totalmente diversi da Crying Freeman.

Prima di stare con Kyoko, Akira ci viene mostrato come un ragazzo che si gode la compagnia femminile, anche in modo “domestico”. Il bacio sulla fronte che lei gli scocca mentre si alza per rispondere a una chiamata internazionale è familiarissimo: chi non l’ha mai fatto mentre si spostava nel letto?
Ikegami non disegna faccine e personaggi deformati, il suo stile è sempre verosimile. I personaggi vengono disegnati in modo appena buffo solo all’inizio, per attrarre il pubblico. Akira Hojo che mastica in modo poco elegante non si vedrà più.

Un altro soggetto di grande interesse è Ozaki, l’assistente di Kyoko Hishihara, di cui è innamorato. Ozaki stima Hojo ma è allo stesso tempo un poliziotto ligio e di valore morale. Posto davanti alla complessa scelta tra il suo dovere e l’affetto per il suo capo, il rispetto per un uomo che ritiene nel giusto, Ozaki sceglie la sua coscienza e non il suo distintivo. L’accenno di Tokai al “bacetto” non è davvero casuale. Ikegami e Buronson descrivono un mondo maschile in cui anche i rapporti sentimentali più forti vi risiedono profondamente.

Ma l’elemento che forse caratterizza Sanctuary più fortemente di ogni altro è la descrizione dei personaggi. Ognuno di loro ha una fisionomia perfettamente riconoscibile, delle “smorfie” individuali, tratti personalissimi e totalmente verosimili, aderenti alla fisionomia nipponica. I personaggi non si confondono mai tra loro, nè come personalità né come tratti. Hanno un’autonomia distinguibile, sorprendentemente vicina alla cinematografia. Siamo ad anni luce di distanza dalle opere contemporanee, in cui i personaggi dei manga hanno visi molto simili tra loro, che cambiano in rapporto ad abiti e capigliatura. Non sono quindi stereotipi, e neanche macchiette, ma personaggi veri e propri presi quasi di peso dalla realtà quotidiana.

Questo vale per gli yakuza, per i politici e per gli avversari. Diventa facilissimo per lettori e lettrici empatizzare con uno o con l’altro, prendersi a cuore una vicenda o l’altra. In questo senso non ho mai letto un manga che possa neanche lontanamente competere con Sanctuary.

Questa è una delle mie scene preferite, in cui uno spietato yakuza ricorda il calore e l’affetto delle mani della madre, irruvidite dal lavoro

Non c’è l’ombra della caricatura neanche nel personaggio apparentemente più buffo. Le ambientazioni esterne e interne sono rese con grande cura, in particolare l’abbigliamento tradizionale maschile, lo yukata e gli abiti da ufficio, giacche e pantaloni occidentali, che comunque Ikegami disegna sempre morbidi, in modo da mettere in risalto le gambe, sia nelle scene d’azione che in quelle statiche.

Sulle gambe e i piedi c’è un discorso particolare da fare quando si tratta di disegno giapponese. Se per noi occidentali la parte superiore del busto è molto importante, al punto che abbiamo inventato il ritratto a mezzo busto, per l’arte giapponese sono molto più importanti le gambe, che spesso sono chiuse al ginocchio. Lo abbiamo visto in molti manga shojo, come Il grande sogno di Maya (in cui peraltro la parte superiore del tronco pare disegnata con la zappa, mentre le gambe sono di una bellezza inarrivabile). La diversa interpretazione della bellezza delle forme corporee è una cosa che apprezzo e mi diverte moltissimo, perché ogni volta ci vedo in trasparenza un vaffanculo grande così a William Hogarth a Burke e Bacon.

All’occhio occidentale è una graziosità se il corpo è femminile, ma una stranezza se il corpo è maschile. Ikegami forse se n’è fregato di cosa pensiamo noi occidentali, forse non lo sapeva neanche, o forse ha preferito rimanere più aderente a un tratto nipponico, senza l’obiettivo di piacere anche al pubblico estero. Non saprei. Ma il risultato è che spesso i personaggi maschili hanno pose delle gambe delicate e mobide che li fa apparire “effemminati” al nostro occhio. In realtà per i giapponesi sono semplicemente belli e basta.

“Figli dell’epoca”, di Wisława Szymborska

FIGLI DELL’EPOCA

Siamo figli dell’epoca,
l’epoca è politica.

Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.

Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.

Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell’altro politica.

Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.

Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.

Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.

Wisława Szymborska

Nella tinozza della viuzza

Il tempo del Casoncello, di Emilio Tremolada – domenica 27 ottobre a Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come nessuna altra arte il giardino ci induce a un pensiero naturalmente quadridimensionale. Siamo culturalmente avvezzi a definizioni del giardino come di spazio o luogo, ma ognuno di noi è in grado di percepire lo scorrere del tempo all’interno di un giardino. Per quanto riguarda me il giardino è maggiormente un’articolazione del tempo, che si materializza nello spazio tridimensionale.
È solo in quest’ottica che si può comprendere la delicata e potente stratificazione estetica del giardino del Casoncello, di Gabriella Buccioli, nel bolognese.
Di questo giardino abbiamo letto la nascita e l’evoluzione nel libro I giardini venuti dal vento. Un giardino che può variare sensibilmente da un anno all’altro, di cui è impossibile cogliere ogni aspetto, proprio perché mutevole, sfuggente.
Ne racconta alcuni momenti il film di Emilio Tremolada “Il tempo del Casoncello”, un documentario che sia nell’esito che nel procedimento di realizzazione riesce a materializzare l’importanza della quarta dimensione nel giardino.
Girato poco alla volta, senza seguire lo standard dei documentari analoghi, cioè quello del classico fluire stagionale, il film raccoglie momenti, apre porte nella storia di questo bosco giardino, porte che sono ancora aperte, porte chiuse, porte che non portano più dove portavano prima. Porte che possono essere attraversate -oggi- solo in questo film.
“Ho seguito il dipanarsi del filo del giardino per anni, filmando quello che mi piaceva o mi muoveva un emozione, un pensiero. All’inizio non avevo nessun progetto preciso, ma nel tempo -nel mio tempo- il film mi si è materializzato davanti da sé”, dice Tremolada.
Forse perché filmato con uno stile rigoroso, preciso e poco indulgente alle romanticherie, alle ricercatezze di luci dorate o di scene d’effetto, il documentario risulta carico di poesia -come il giardino stesso. Reso ipnotico da un affondo nella ricerca dei suoni della natura, a volte amplificati e resi stranianti, e da una colonna sonora irregolare e aspra, costellata da sonorità metalliche e taglienti: nulla di più distante da ciò che consuetamente immaginiamo per raccontare un giardino.


Il film sarà presentato in anteprima assoluta domenica 27 ottobre alle ore 10:30, al Milano Design Film Festival, all’Anteo Palazzo del Cinema. Il festival si arricchisce della nuova sezione BLOOM dedicata all’ambiente, sostenibilità, giardini, paesaggio e persone, curata da Antonio Perazzi.
Qui potete vedere il trailer del film

Il memo delle date e degli orari:
ANTEO PALAZZO DEL CINEMA, Milano
27 ottobre 2019 ore 10:30