Ripropongo sul mio blog il terzetto di post pubblicati su Instagram sui paesaggi nel film di Miyazaki “Lupin II – Il castello di Cagliostro”










Ripropongo sul mio blog il terzetto di post pubblicati su Instagram sui paesaggi nel film di Miyazaki “Lupin II – Il castello di Cagliostro”










Ripropongo sul mio blog il terzetto di post pubblicati su Instagram sui paesaggi nel film di Miyazaki “Lupin II – Il castello di Cagliostro”













Illustrazione interna del mio breve romanzo “La piccola estate”.
Anche a voler essere ciechi, andando a mare ci si accorge di quanto grande sia la differenza tra corpo e corpo. L’occhio è obbligato a soffermarsi su forme, dimensioni, colori. Quale più bianco, quale più marroncino, quale più lungo, più corto, quale più grasso o magro. Come i fiori in una aiola, non c’è corpo uguale all’altro.
In spiaggia l’occhio palleggia tra i gruppetti, le famiglie, i colori dei costumi. Se c’è poca gente, a volte sento l’angoscia delle ragazze italiane che inseguono l’ideale di corpo nordico, alto, solido, statuario. La sento questa angoscia come una nube bassa e densa che avvolge tutto. Penso alle innumerevoli ragazze dalle forme naturalmente abbondanti, che si sono rovinate il metabolismo per sempre. Per sempre. Per sempre.
Le figlie delle donne ucraine e polacche, che trent’anni fa sono venute a fare le badanti e le pulizie, rispecchiano perfettamente l’ideale nordico. Si atteggiano con malcelata superiorità. L’ideale di bellezza femminile si è sviluppato attorno al loro fisico, non al nostro: è ovvio che si sentano “superiori”. L’idea della Herrenrasse è molto radicata e molto più intensa di quanto non possiamo neanche immaginare.
Io forse non faccio testo: per me se mi comparisse davanti una ragazza zebrata di giallo e blu, con le antenne e gli occhi da mosca, al massimo le chiederei se le piace il clima della Terra.
Nei decenni ho però imparato che il razzismo non è solo in chi guarda, ma anche in chi viene guardato. Gli ideali di corpo bello, di corpo femminile, di bellezza della donna, sono tutti derivati dal razzismo. Sono frutto di una visione profondamente razzista del mondo. Il razzismo è così profondo che qussi non è più neanche visibile: affonda nelle tenebre, ma esiste.
Le donne della mia generazione sono diventate bulimiche e si sono rovinate la vita perche gli americani sono razzisti. E anche le millennial e le zoomer non sono libere dal razzismo interiorizzato, che si trasforma nel biasimo per il corpo delle sorelle. Cazzo, è disgustoso! leggi come funziona: gli americani sono razzisti -> gli americani ci hanno colonizzati culturalmente con il cinema -> abbiamo imparato e interiorizzato i modelli di bellezza americana -> odiamo noi stesse per non essere geneticamente adeguate -> odiamo quelle che lo sono -> odiamo quelle che non lo sono. Odiamo, disprezziamo.
No, sorelle, non va. Ma voi avete mai provato a coprire un tavolo tondo con una tovaglia rettangolare? La cosa “da ridere” (e da piangere) e che a volte, a prezzo di sacrifici immensi, queste tovaglie vengono tirate e aggiustate in modo da rispettare quella forma estranea. Ah, noi donne siamo meravigliose, anche nei disastri!
Sorella, se sei a dieta perché vuoi assomigliare a Margot Robbie, ricordati che la tua dieta è frutto di un pensiero razzista di un popolo che non è neanche il tuo. Vedi un po’ tu.
Ho qualche volta raccontato (qui , e anche QUI), le nuove parole che ho inventato nel corso della mia attività di giornalista di giardini e giardinaggio. Data la penuria nominis della lingua italiana in questo settore, occorre rimodellare o coniare ex novo, cosa che tra l’altro a me viene sempre assai semplice.
In questo caso, giardicazzo, non è un termine nuovissimo: già Ippolito Pizzetti scriveva in Pollice verde (1986), del “giardinaccio all’italiana”. Il “giardinaccio” inteso da Pizzetti non è altro che un insieme di esiti accomunati dalla bruttezza, mentre il giardicazzo si configura come una serie di procedure, una praxis, che ha preso corpo con il primato di internet come fonte più rilevante di informazioni e oppurtunità di acquisto, e la nascita della figura dell’influencer come venditore specializzato in un determinato settore di cui conosce poco o nulla, ma in cui emerge grazie alle capacità di vendita. L’influencer è l’esatto opposto dello specialista: sono modelli totalmente antipodali e mai sovrapponibili.
È dunque il giardicazzo a determinare il giardinaccio, non viceversa. Il giardicazzo si maniesta in una serie di azioni, proposte e idee che non hanno nulla a che vedere con il giardino e ciò che vi ruota attorno, ma aventi come focus unico la vendita, dunque un introito per l’influencer. Questo introito è il diretto risultato di una spesa fatta dal pubblico. Se il pubblico non effettuasse alcuna spesa, l’influencer non otterrebbe nulla. La natura del giardicazzo è sempre un’uscita finanziaria da parte di chi sta usufruendo quell’insieme di idee e azioni attorno al giardino, che conducono direttamente al giardinaccio.
Se il giardinaccio è spesso il frutto di un risparmio, quindi un minore esborso di danaro, il giardicazzo è sempre legato a una transazione finanziaria unidirezionale, a una spesa. La natura del giardicazzo è quindi finaziaria, non giardinicola. Il giardicazzo ha un solo scopo: vendere. Vendere qualsiasi cosa: il terriccio, le piante, il concime, ma anche tutto ciò che è collocabile in giardino, arredamento, abbigliamento per il giardino. Il giardicazzo non vende solo “cose”, vende anche azioni e idee che hanno come scopo primario abbassare e omologare le richieste delle persone nei confronti del giardino e ciò che lo riguarda, in modo da poter meglio controllare i suggerimenti di vendita.
Questo sistema si applica a tutto, non solo al giardino. Nel giardino diventa più visibile perché la componente tecnica richiesta è molto elevata (il giardinaggio non è facile, toglietevelo dalla testa, e non è per tutti), quindi la compressione dell’offerta culturale diventa assai visibile e molto distorcente, quindi facilmente puntualizzabile.
Per ridurre la diversificazione di richieste, convogliare gli acquisti verso un determinato obbiettivo (lo sponsor del momento, il prodotto di punta, la promozione, l’offerta, ecc.) è assolutamente fondamentale creare una bassissima aspettativa del pubblico. Se la proposta culturale è “un bel giardino”, la richiesta di tempo e danaro sarà altissima, direi incalcolabile. L’attesa sarà pari alla cifra impiegata e la delusione potrebbe essere cocente.
Se la proposta culturale è un “giardino di tipo urbano” (qui entrano in campo le etichette culturali e tecniche, tipiche della manualistica, che creano degli insiemi estetici a cui mirare o da cui fuggire), la richiesta economica sarà minore, così l’attesa, così la delusione.
Se la proposta culturale è “un giardino familiare a basso mantenimento”, la spesa sarà ancora minore. E via dicendo. Se l’attesa non è alta, è più difficile rimanerci male. Il peggio che ci si può aspettare è una cattiva recensione o un commento negativo che finisce facilmente nel cestino, una controversia PayPal, ammesso che i termini non siano scaduti.
Ma la vera cazzimma del giardicazzo è la capacità far pensare che un brutto giardino sia bello, e venderlo come tale. Il giardino, la sua progettazione, e tutto ciò che gli sta attorno, quindi piante, terriccio, attrezzi, cura della persona, ecc. Roba brutta a prezzi modici. Roba brutta di cui l’infuencer crea il cosiddetto “bisogno” facendola passare per bella. L’influencer vende anche necessità di modifiche facendo leva su sempre presenti disfunzionalità del giardino, imprevedibilità dovuta a fattori esterni (clima, rumori, animali, ecc.), sulla dichiarazione dello status economico e sociale o sull’appagamento spirituale che il giardino dà.
Un brutto giardino costa poco, diciamocelo. Non è difficile ottenerlo. Un brutto giardino non si nega a nessuno, via! Progettare un brutto giardino è semplice e veloce, ma il cliente paga in buona fede, immaginando di acquistare un bel progetto. Piante malandate o mal tenute costano poco, il cattivo gusto è ancora a buon mercato, se acquistato all’ingrosso, ma al dettaglio costa caro perché lo si fa passare per buon gusto. Insomma, il giardicazzo vi vende una cosa brutta, un brutto giardino, ma ve lo fa pagare poco.
L’influencer adotta una vera e propria strategia, quella di presentare sempre, mese dopo mese, anno dopo anno, attività semplicissime e ad alta percentuale di successo. Abbassare le competenze orticole necessarie per eseguire le azioni proposte è un modo per far otterenre un successo anche al pubblico con zero esperienza. Anche qui si ripropone la dinamica delle attese: un’operazione colturale appena elementare viene data come complessa o come laboriosa da scoprire o inventare, illudendo il pubblico sulle proprie reali capacità e mistificando l’essenza di una ricerca di apprendimento che è una costante delle passioni e degli hobby. Un’alta percentuale di successo garantisce una fidelizzazione immediata e una maggiore interazione del pubblico. Proporre tecniche complesse è invece scoraggiante per la massa di entry-level che fruisce maggiormente dei contenuti degli influencer e porterebbe a lamentele o a commenti polemici. Nessun influencer, mai, proporrà tecniche che non siano elementari, al limite dell’analfabetismo funzionale. È una regola così importante che ne fanno un principio di vita, tale che se nel corso della loro attività hanno imparato qualcosa, la disimparano velocemente. Nei cosiddetti “corsi avanzati” non c’è nulla, qualora ci fosse stata, sarebbe svanita.
L’assenza di problemi complessi conduce a un interessante risvolto, poiché gli ambiti dove questi vengono analizzati diventano in breve piccoli potentati, in genere dominati da uomini: gruppi Facebook, redazioni specializzate, vivai, tecnic*, architett*, paesaggist* e via dicendo. L’influencer può anche collaborare con questi piccoli potentati in un reciproco scambio di favori. L’ingombrante presenza dell’influencer assottiglia la possibilità di avviare un discorso culturale al di fuori delle sedi tradizionalmente destinate a farlo, come riviste e quotidiani, salotti letterari, garden club, ecc., rendendo elitario il giardino e ciò che gli gravita attorno. Mentre il versante tecnico e pratico è controllato da aziende, vivai e professionist* che -per numerose e varie ragioni- marginalizzano l’interazione della singola persona. Di fatto, la figura dell’influencer del giardino ha contribuito a cancellare l’amatorialità e lo spirito di intraprendenza, l’autodidattica e la sperimentazione individuale, doti molto lodate nella storia del giardino dal 1800 in poi, caratterisiche del giardino novecentesco.
E del giardino, oggi, non rimane che il cazzo.
La rete impazza per i fiori di Sebastian Stan dopo la nomination al Golden Globe per “Pam&Tommy”. Nomination della quale Seb non sembra curarsi dopo aver detto che i social gli stanno indigesti (stacca il numero e mettiti in coda).
I fan e le fan si chiedono a chi e dove li stesse portando. Non lo so, ma a guardare i fiori si può tirare una conclusione abbastanza chiara.

Abbiamo un bouquet molto alto e di un certo peso, considerando l’altezza di Sebastian e la sua forza. Il bouquet deve essere sostenuto con due mani durante l’attraversamento della strada. Ovviamente si deduce la presenza di un vaso abbastanza impegnativo, forse di cristallo, di forma quadrangolare, ottimo per essere utilizzato su una mensola o su un mobile, molto meno come centro tavola (sarebbe stato tondeggiante). Difatti la composizione è regolata per essere bella da tutte le angolazioni, ma è privilegiata la parte frontale con il logo.
I fiori sono delle orchidee Vanda, degli ibdidi di Anemone coronaria e di Matthiola incana. Questi ultimi due sono giganteschi, personalmente non li ho mai visti così grandi, e immagino che la coltivazione di piante dal fiore così pesante sia estremamente costosa e non diffusissima. Ci sono anche delle rose da taglio del tipo HT.
Il verde pare il Ruscus che va tanto di moda oggi, che tra l’altro l’Italia esporta molto facilmente.
I fiori -si capisce dal marchio- sono stati confezionati da Julia Testa a Manhattan e basta guardare la sua gallery di foto per trovare molti dei fiori del bouquet di Seb.

Ora, io non conosco molto bene le abitudini di gifting degli americani per quanto riguarda i fiori, ma immagino siano molto simili alle nostre.
La composizione trasmette pace e gentilezza, ma anche una certa vivacità. La Matthiola, nella sua versione spontanea, è anche un fiore edule.
In Italia sarebbe una bellissima composizione per festeggiare la nascita di una bimba (dato che è prevalente il rosa) o un compleanno di una bimba, un battesimo, o qualche evento legato a una bambina.
Tutte le foto sono state scaricate dal Daily Mail, a questo indirizzo:




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Per la rassegna cinematografica Forum Ambiente a Milano, dopo la proiezione di mercolì scorso del Tempo del Casoncello, di cui ho parlato in questo articolo, sabato 8 ottobre 2022, a partire dalle 16:30, dopo il film Alberi, il film documentario Giardini Indecisi di Emilio Tremolada (per chi ricorda il forum di CdG, stiamo parlando di Trem).
Ho visto maturare entrambi i progetti, Trem è stato così gentile da farmi avere le anteprime, da discutere con me su alcuni punti. Ci siamo scambiati idee e opinioni, perciò io so già che Giardini Indecisi è un film bello, ma complesso, a cui si arriva prima con l’intuizione che con l’analisi.
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate, se avrete la possibilità di vederlo in zona Milano, questo sabato, il mio consiglio è di non lasciarvi scappare quest’opportunità.
***
Attraverso le più svariate esperienze e vissuto nella natura, Giardini Indecisi coglie l’intimo dilemma del giardino contemporaneo e di chi lo pratica.
Spingendosi nelle frange delle funzioni in cui il giardino è oggi sfilacciato, Giardini Indecisi si interroga su quale sia il totale da ricomporre.
Senza giudizi né sentimentalismi, Giardini Indecisi raccoglie il silenzioso muoversi della vegetazione attorno alle aree urbane, la paziente operosità dell’umana che alleva api regine, la pluridecennale raccolta di varietà di frutta dimenticata, la creatività mistica di uno scultore di ossa e sassi, la dedizione della gente comune nella coltivazione collettiva di ortaggi e verdure, quella della singola persona nel curare il giardino in modo da non ledere la terra.
Compaiono nel film i pensieri in corsa di Lara Amalfitano per il suo giardino di campagna, gli ailanti e le robinie e i pioppi che crescono nell’area della ex fabbrica Innocenti, la sorellanza con le api di Benedetta Berardi che seleziona api regine e ne assiste le famigliole, il giardino alimentare tra la terra e la luna di Carla Leni, i suggerimenti notturni di un barbagianni e di un gatto bianco che richiamano Francesca Bettini alla cura di un vecchio giardino, la sapienza e le varietà di antica frutta di Isabella Dalla Ragione, le sculture di sassi, utensili in ferro e ossa nell’orto giardino di Lorenz Kuntner, gli ortisti degli orti condivisi del Giardino San Faustino a Milano.
Nell’inarrestabile scivolare verso la postmodernità, Giardini Indecisi decide di andare controcorrente e ricostruire un intero, un insieme di attività, ludiche, sociali, umane, di pratiche destinate all’alimentazione, alla cura dell’ambiente e della fauna, o semplicemente mosse dalla vocazione all’ornamento.
Guidato da un senso poetico, con il genuino intento di esplorare un’arte da sempre scucita tra scienza, hobbistica, piacere e intuizione, Giardini Indecisi insegue la domanda e la risposta che da sempre agitano le menti dei giardinieri: cosa fa di un giardino un giardino?
Come la natura che ama nascondersi, nella colonna sonora composta da Andrea Inchierchia, gli strumenti musicali si mimetizzano, abbandonano la loro timbrica usuale, suonano spesso in modo indeterminato per essere una nuova voce. Il paesaggio sonoro, suoni di traffico, vento, api, uccelli, trattori, è elemento della partitura che compone la musica di Giardini Indecisi.
Il nuovo The Batman si configura come l’ennesimo prodotto dell’industria dell’intrattenimento cinematografico, perfettamente collocato nel solco della batmanitudine già ampiamente esplorata nel corso di decenni.
Dopo essere stato presentato in ogni modo possibile, Bruce Wayne viene ridimensionato all’umano e assume sembianze fragili e sessualmente indifese. Una scelta precisa, dettata da esigenze di mercato, che sortisce l’effetto di immediata gratificazione da parte del pubblico, quindi nulla di particolarmente originale o nuovo sul fronte della rappresentazione cinematografica di un personaggio dei fumetti americani.
Il film è frutto della potente macchina dell’industria cinematografica e i rimandi ad altri film del circuito abramsiano sono numerosi e paiono finalizzati a promuovere la fruizione di altri film, incrementando introito su pellicole ormai vecchie, o destando interesse verso reboot e saghe senza fine. I continui rimandi visivi e musicali sono perfino soverchianti e non sortiscono un effetto estetico soddisfacente, anzi invecchiano la pellicola, facendola cadere nel Kitsch più pienamente descritto da Greenberg, Dorfles, Moles. “Fare il vecchio col nuovo”, così appare The Batman.
Penalizzato dall’essere inserito in una struttura di postmodernismo estetico in cui legami e rimandi ad altre opere sono fin troppo dichiarati e a rischio obsolescenza, il film è comunque buono e ben interpretato. Questo è un merito lodevolissimo, ma da qui a gridare al miracolo e al capolavoro ne passa.

Insalvabile. Così mi viene da descrivere Cruella, il buon successo Disney, lodato dalla critica e dai tabloid pinkwashed per essere uno dei nuovi film trend del “femminismo mainstream”.
Niente, neanche la precisa e misuratissima interpretazione di Emma Stone, che tiene le righe senza andarci neanche un millimetro sopra, salva questo film pasticciato. Neppure il superbo, svavillante, incredibile, roboante e originalissimo ventaglio di costumi che la geniale e pluripremiata Jenny Beavan ha messo in scena. Niente, nulla, nix, nada, zippo: il film rimane seduto. Emma Thompson, scaltra e navigata, l’ha capito. In ogni singola scena si percepiva nei suoi occhi una sorta di commiserazione per lo stato dell’arte cinematografica e probabilmente per sé stessa e la sua carriera. Un: “Dio mio, come sono cadute in basso queste due” è scappato anche a me, più volte durante la visione.
Il problema è che non c’è più un “alto” dove tentare di andarsi a collocare. Questo è quanto offre il cinema statunitense. Vuoi lavorare? C’è Cruella da fare, se ti piace bene, se no cercati un pulcioso produttore coreano indipendente e vai a fare la fame.
Dopo Maleficient, Cruella è il secondo live action ripreso dai classici film animati, dove si assiste a un ribaltamento dei ruoli che trasfoma la villain in protagonista. L’operazione si presenta con le sembianze di un approccio innovativo, progressista e incline all’introspezione emotiva dei personaggi, lontano dai cliché abusati dalla Disney, di cui ormai anche le persone meno informate hanno notizia. Tuttavia siamo distanti da mutamenti realmente emancipatori, sia cinematograficamente che socialmente.
Considerando solo il linguaggio cinematografico, si sono semplicemente formati nuovi cliché narrativi, adatti alla società attuale, su cui poggiano questi film. Socialmente non c’è nulla di innovativo, ma tutto di accomodante. Viene data la rappresentazione di una donna che appare malvagia, e a tratti lo è, ma questa sua malvagità è spiegata con dei traumi vissuti in giovane età. La “risultante” è una figura fuori dall’ordinario, dotata di genialità o di sensibilità tradita, emarginata a causa delle sue qualità che la società non riconosce. Il film insomma fornisce una backstory alle spettarici totalmente ordinarie, che hanno traumi ordinari per quanto drammatici (padri violenti, mariti abusanti, famiglie prevaricatrici, per esempio), lasciando spazio alla costruzione di un’idea socialmente distruttiva, cioè che l’emarginazione sociale e la mancata comprensione nei nostri confronti sia dovuta alla individuale genialità e all’invidia del mondo.
Quanto di più sbagliato! Non veniamo rigettate dalla società poiché “siamo troppo splendide”, ma perché la società non è strutturata in modo inclusivo (per tutti e tutte). Sposta il demerito della mancata inclusione ai singoli individui.
Questo -lo dico chiaro- è un pensiero malato, e se non lo è, è un pensiero che produce malati.
Un pensiero che sostiene il regime patriarcale in cui vige il “divide et impera”. Le donne non si vedono tra loro come amiche, sorelle, non collaborano, non fanno squadra per ottenere ognuna qualcosa: sono nemiche tra loro. Ne deriva una legittimazione di odio verso le altre donne con una pretestuosa pretesa di essere migliori, più geniali, più sensibili e più meritevoli rispetto alle altre. Se siamo indietro è colpa delle altre donne, è perché noi valiamo troppo per questo mondo e le altre ci boicottano, è perché siamo invidiate per il nostro intrinseco valore. Non è mai perché la società è deliberatamente strutturata in modo da limitare le capacità espressive e l’accesso alle possibilità delle donne. No, la colpa è di altre donne, a cascata.
Cruella molto più di Maleficient, trascina spettatori e spettatrici in questo loop di errata percezione del sé e del mondo in cui viviamo, rafforzando un nuovo stereotipo, che la donna possa anche essere geniale, ma se lo è diventa perfida e la società ha il diritto di isolarla, o -in qualche modo- solo le donne traumatizzate possono essere geniali. Cruella assolve il patriarcato e tutti i suoi errori perché sottilmente invita a pensare che una donna non traumatizzata non possa essere davvero geniale. No, vi assicuro, le donne possiamo essere geniali con e senza traumi, come i maschi, e francamente preferiremmo essere geniali (ma anche mediocri) SENZA alcun trauma. Questo Cruella è davvero la rappresentazione fatta e finita di una auto-assoluzione sociale, più impalpabile dell’evidente e smaccato dualismo standard dei film animati Disney, che si avvia ad essere il nuovo e sottile “cliché principessa”, con la differenza che quello lo avevamo già sgamato, questo ancora no.

groggy
"Quando guardiamo il cielo di notte ci soffermiamo ad ammirare le stelle a caso senza seguire uno schema.. lasciamo che la nostra fantasia si perda in questo immenso soffitto brulicante di luci... una stella grande.. qualcuna piccola.. un'altra azzurra ed una rossa! Luci lontane che forse ora non esistono neanche più.. eppure sono lì le guardiamo ogni sera quando le nuvole ce lo permettono.. luci che continuano a brillare .. a vivere.. che continuano a farci sognare! Questo BLOG vuole essere uno spazio semplice, senza pretese, uno spazio dove antichi sorrisi e sguardi continuano a brillare come stelle... semplicemente continuano a vivere nell'immenso cielo della rete." (Domenico Nardozza)
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