Territori rurali a rischio: una riflessione

Il testo che segue mi è stato gentilmente inviato dopo una mia richiesta riguardo al convegno sui Territori Rurali a Rischio. E’ ovviamente a disposizione di tutti, ma non essendo un testo mio, prego l’utenza di non prelevarne porzioni senza citare la fonte.
Grazie.
La presentazione del convegno è consultabile a questa pagina

AntoniminaPaesaggio della campagna di Antonimina (RC)

Territori rurali a rischio: proposte per un governo integrato degli ambiti fragili

di Alessandra Furlani

Il contesto

Secondo l’annuale indagine della Protezione Civile con Legambiente (dati dicembre 2011), in Italia l’82% dei comuni ha zone a rischio idrogeologico (soggette, quindi, a frane, smottamenti, alluvioni e allagamenenti).

In ambito nazionale, in ben 14 regioni oltre il 90% delle realtà comunali si trova in tale condizioni; in Emilia-Romagna la percentuale raggiunge il 95%.

Inoltre, quasi il 10% del territorio nazionale si trova in aree classificate ad alto rischio e 5 milioni di cittadini convivono quotidianamente con questa spada di Damocle appesa sulle loro esistenze.

Le amministrazioni locali, in tempi di crisi economica e di patto di stabilità possono intervenire molto poco: si tenta di tamponare le emergenze e soltanto il 6% dei comuni a rischio intraprende programmi continuativi di prevenzione, dedicati alla stabilità dei versanti, alla cura del reticolo idraulico minore, alla manutenzione puntuale dei territori e dei paesaggi fragili.

E del resto la difesa del suolo è oggetto di legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni ed è a tale livello che occorre ideare e finanziare la necessaria programmazione.

Antonimina 2

Funzioni territoriali del mondo agricolo

Questo forma di manutenzione e cura territoriale è stata svolta per molti secoli dal mondo agricolo: in collina e montagna, ai terreni coltivati faceva da contorno il suolo più fragile o improduttivo (bosco, incolto, pascolo e calanco) che le aziende agricole curavano, come in una sorta di affido territoriale, senza trarne prodotti vendibili, ma solo modeste economie di autoconsumo.

Rendevano così anche alle comunità locali un grande servizio ambientale, in termini di contenimento del rischio idrogeologico naturale e di fruibilità concreta di questi ambiti. E ora? Basta ricordare qualche dato e confrontare i numeri dei censimenti agricoli nazionali:

Evoluzione della superficie nazionale gestita dalle aziende agricole (Sat)

  • Anno 1980     23.631.495 ettari, di cui coltivata 15.842.541 ettari (Sau) pari al 67%
  • Anno 2000     18.766.895 ettari, di cui coltivata 13.181.859 ettari (Sau) pari al 67,3%
  • Anno 2010     17.081.099 ettari, di cui coltivata 12.856.048 ettari (Sau) pari al 75%

= -28% di Sat in nell’ultimo trentennio

= -9% di Sat solo nell’ultimo decennio

In meno di trent’anni, il 28% del territorio rurale (oltre 6,5 milioni di ettari) è uscito della gestione diretta delle aziende agricole; in collina e montagna si arriva anche al 50%.

Che fine hanno fatto questi suoli? Chi sono gli attuali proprietari, non più agricoltori?

Il rischio idrogeologico in queste aree – ormai in abbandono – è maggiore o minore rispetto ad aree gestite da un’impresa agricole confinante?

 

Il bosco, ad esempio, è sempre stato considerato un fattore di stabilità idrologica naturale: e allora perché i fenomeni di dissesto e le alluvioni aumentano, nonostante oggi la copertura boschiva nazionale sia ai maggiori livelli dalla metà dell’800?

Gli inventari generali del Corpo Forestale dicono, infatti, quanto segue:

Superficie forestale italiana 1985                8 675 000 ha

Superficie forestale italiana 2005                10.467.533 ha.

In 20 anni, la quota di bosco nazionale è cresciuta del 20,66% e oggi rappresenta 1/3 della superficie territoriale nazionale.

Bisogna, tuttavia, sapere che metà di queste superfici è in abbandono totale e priva di qualsiasi forma di governo del soprassuolo.

Si tratta, quindi, di un tema complesso, affrontabile solo grazie ad un piano strategico di governo del territorio che metta in sinergia competenze tecniche, capacità operative e attori agricoli locali, per il presidio e la gestione del territorio rurale che non afferisce più direttamente alle loro aziende, ma le circonda.

Partendo dall’analisi del contesto attuale e prendendo spunto dal programma nazionale di prevenzione del rischio idrogeologico dell’ANBI (Associazione Nazionale delle Bonifiche), si propone con questa iniziativa l’avvio di un confronto tra i principali attori del governo territoriale.

L’obiettivo è costruire una proposta quadro specifica per le aree collinari e montane del Paese, nell’ambito del nuovo Piano nazionale di Sviluppo Rurale 2014-2020.

Nel luglio scorso, Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, ha avanzato la sua proposta per rilanciare la crescita economica nazionale: “un piano di manutenzione straordinaria, di cura del territorio, una terapia contro il dissesto idrogeologico. I soldi – ha sottolineato – si trovano. Si diano gli incentivi giusti, soprattutto a chi ha cura della messa in sicurezza dell’ambiente”.

Ma sono almeno tre sono i fattori strutturali con cui sarà necessario confrontarsi:

1) L’abbandono agricolo dei territori collinari e montani e il conseguente venir meno di una manutenzione puntuale dei soprassuoli fragili e del reticolo idraulico minore;

2) La cementificazione esasperata, anche in zone a rischio esondazione;

3) Il cambiamento del clima e dei regimi di pioggia.

Istituzionalmente, i consorzi di bonifica sono tra le realtà cui la legge affida compiti di difesa del suolo; essi tutelano la sicurezza idraulica dei proprietari di terreni ed immobili, agricoltori e non e sono tra i pochi che hanno mantenuto una struttura tecnica specifica sull’argomento, in grado di progettare e realizzare direttamente opere medio – grandi di presidio idrogeologico. Oggi, in molte regioni, i Consorzi intervengono nelle aree collinari e montane su mandato degli enti locali che, in prima linea, vivono il problema delle popolazioni residenti.

Obiettivo ottimale è riuscire ad abbinare a queste loro attività, un piano di manutenzione territoriale d’area vasta che agisca in forma costante e diffusa nelle aree più fragili.

Qual è il possibile ruolo delle aziende agricole?

Le aziende agricole che resistono in queste zone marginali, possono tornare a svolgere un ruolo determinante inserendo i servizi di manutenzione territoriale tra le attività multifunzionali dell’agricoltura, così come chiaramente prevede la legge di orientamento del settore.

Con quali vantaggi collettivi?

La cura puntuale dei rii minori, della viabilità locale, dei terrazzamenti e delle vie di fuga dell’acqua è opera complementare ed integrabile con gli interventi idraulici di maggior portata, garantendone la continuità e l’efficacia.

Le aziende agricole – preferibilmente locali – potrebbero operare in forma convenzionale con consorzi di bonifica ed enti locali (come accade già per il servizio neve in molte città), garantendo la minor spesa pubblica, grazie al risparmio dell’IVA e dei costi assicurativi, già in capo al soggetto agricolo. Ciò assicurerebbe anche qualche chance in più al mantenimento di un tessuto insediativo diffuso in aree fragili.

Un aspetto va, tuttavia, chiarito sin dall’inizio: le attività per la messa in sicurezza di ambiti rurali non più agricoli costituiscono un’esigenza collettiva di governo territoriale e materia di competenza pubblica trasversale.

Non si può pensare che le risorse per finanziare il governo ed il presidio dei suoli non afferenti alle aziende agricole siano a carico dei fondi che l’UE destina alla politica di settore che deve restare destinata alla vitalità economica delle poche aziende residue e alla remunerazione dei servizi ambientali collettivi che esse già attuano nella gestione dei propri terreni. Volendo si tratterebbe della più grande opera pubblica, dal dopoguerra ad oggi, altro che Ponte sullo Stretto…

Antonimina borgo