Da giorni ho wordpress fuori orbita: provo a caricare una foto

Desidero ringraziare la signora Sandra Santolini che ha promosso e curato l’intero progetto, l’ente che l’ha finanziato e la città di Forlì per l’ospitalità. Un ringraziamento a parte per i miei amici della zona romagnola, che mi accolgono sempre affettuosamente e mi fanno sempre sentire a casa mia.
Introduzione
Borchardt, nel suo Il giardiniere appassionato dice senza parafrasare che applicare ai fiori una simbologia rallenta enormemente il loro percorso verso l’essere. Questo è vero se ci limitiamo a banalità come “le rose gialle significano gelosia”, “le violette timidezza”, “la pervinca ricordo”, ecc, fino a comporre una sorta di smorfia napoletana dei fiori.
Ma bisogna sapere vedere oltre questo schermo opaco: nella storia dell’uomo, infatti, i fiori hanno per secoli rivestito valore simbolico. La domanda che dobbiamo porci non è “che cosa significhino”, ma “perché significano?”. Sempre stando a Borchardt, che analizza l’argomento con grande sensibilità e profondità di pensiero, il fiore è semplicemente simbolo di se stesso: di una vita che rivive, forse non domani e forse non il prossimo mese, ma di certo la prossima stagione, e la prossima ancora, indipendentemente dal nostro volere o dal nostro capriccio, indipendentemente anche dalla nostra esistenza.
E’ dunque il fiore non un simbolo carnale, come spesso si sente dire anche piuttosto a sproposito, ma un simbolo vitalistico dell’esistenza umana, dei nostri struggimenti e delle nostre passioni, una autoaffermazione di se stesso, e quindi di noi stessi.
Oltre a questo simbolismo apparentemente così elementare ma difficile da individuare se non dopo una attenta riflessione, c’è attorno al fiore una immensa stratificazione culturale e sociale.
La mostra intitolata semplicemente “Fiori” che si è tenuta a Forlì dal 24 gennaio e si è conclusa il 20 giugno 2010 ne è un perfetto esempio.
Abbiamo un arco temporale da percorrere, che comprende circa due secoli in cui si sono succeduti tre movimenti artistici e culturali: il Barocco, il Neoclassicismo-Illuminismo, il Romanticismo.
Fiori come simbolo
Se in periodi anteriori, agli albori della civiltà, la simbologia dei fiori, delle erbe, degli alberi, era associata a racconti mitologici o cosmogonici, e più tardi a quella che viene chiamata dottrina delle signature che curava il male con il simile (ad esempio una pianta a fiori gialli guarirà dai problemi di bile, una che produce latte aiuterà le madri che allattano, ecc), nel periodo successivo alla scoperta delle Americhe l’umanità si avviava, grazie anche ai progressi scientifici emergenti e all’incipiente dominio borghese, a battezzare una nuova forma di simbologia, cioè quella culturale.
In molti dipinti o sculture, affreschi e decorazioni, i fiori diventavano quindi dei simboli ben precisi, tali che attraverso la loro presenza o la loro assenza, il pittore o il committente voleva enunciare in maniera non verbale un concetto molto specifico.
Vedremo più avanti degli esempi.
Osservando le cose dal nostro punto di vista, fino alla scoperta delle Americhe gli unici fiori conosciuti erano quelli dell’Europa, dell’areale del mediterraneo e dell’Impero Turco, oltre a qualche pianta importata dall’estremo oriente in tempi molto antichi.
Attratti dalle ricchezze del nuovo mondo gli Europei colonizzarono l’America a prezzo di enormi atrocità nei confronti dei nativi, per impossessarsi delle loro terre e delle loro ricchezze territoriali e naturali, quindi anche dei fiori. Il mercato dei fiori era infatti sempre stato molto vivace in Europa, e si può parlare dell’esistenza dei vivai già dall’epoca dei Romani. Introdurre nuovi fiori era sempre un affare vantaggioso.
Fu dal 1620 in poi che gli Inglesi iniziarono una colonizzazione massiccia dell’America del Nord, portandosi dietro tutto l’armamentario di erbe officinali che conoscevano. Era demandato alla donna, custode della casa, di curare l’orto produttivo e officinale, tanto che il sapere botanico si trasmetteva più di madre in figlia che non di padre in figlio.
Queste piante furono regolarmente inviate in Europa, dove erano considerate esotiche e di moda, oggetto di collezionismo, simbolo di ricchezza e potere. Pian piano però vennero naturalmente sostituite da altre scoperte, come quelle che venivano dall’Africa, dall’Australia o dal più lontano Oriente.
Ebbero però un momento di gloria durante la seconda metà dell’Ottocento, durante la quale la moda vittoriana li riportò in auge quali simbolo del potere nazionale (in quel momento l’Inghilterra era l’Impero Britannico) e della tenacia e dell’intraprendenza dei suoi pionieri, che seppero addomesticare una natura selvaggia.
Vennero quindi piantate nei cottage garden, nei giardini di campagna come piante comuni, autoctone, senza considerarne la storia avventurosa. Anche da noi piante come il geranio (proveniente dal Sudafrica) o il girasole (Sudamerica) sono considerate nostrane, addirittura i girasoli sono divenuti un simbolo in Toscana (anche i Guascogna se ne piantano molti per via della produzione dell’olio) e i gerani della Liguria. Le petunie ormai sono diventate internazional-popolari e sono cosmopolìte.
Oggi queste piante sono quindi divenute simbolo, in verità un po’ forzato, di una felice condizione agreste passata e a cui spesso si auspica un ritorno.
“Tutto vero come il mare brucia” scrisse il noto botanico Parkinson.
La rosa è sempre stata conosciuta, amata e coltivata in tutto l’areale del mediterraneo, ma c’è una classe particolare di rose, le Centifolia, che per il loro aspetto globoso e ricco di petali attrassero la fantasia dei pittori fiamminghi. Non si conosce l’origine delle Centifolia, che spesso vengono definite cabbage-roses. Nel 1620 (anno in cui abbiamo visto approdò in Italia la Passiflora e in America il vascello Mayflower), veniva introdotta in Francia una nuova varietà di rosa Centifolia, la ‘Quatre Saisons’, che aveva una fioritura ripetuta. Mazzi impossibili con rose, tulipani, peonie ed altri innumerevoli fiori, divennero di gran moda presso la ricca borghesia protestante olandese. Un po’ come noi compriamo quadri per il salotto, i ricchi borghesi acquistavano tele in cui le rose e altri fiori erano una sorta di bizzarro trionfo della natura e in cui era presente una sorta di simbolismo occulto. Erano i cosiddetti “quadri di stanza” in cui non c’era l’ ispirazione mistica che aveva guidato l’arte religiosa (cattolica) dei secoli precedenti. Anzi, a volte esistevano elementi paganeggianti occultati da una esteriorità cristiana. Non vi erano illustrati dei sentimenti amorosi, non si evocavano i donatori o il lusso del loro domicilio (il più delle volte si percepiva appena il contenitore). Erano dunque degli oggetti d’arte così intesi, apprezzati dai loro committenti per la loro bellezza, per esteriorizzare la loro conoscenza botanica e per dare sfoggio di eleganza nelle loro abitazioni.
La simbologia della rosa è molto antica e legata al culto della Grande Madre Celeste. La stessa espressione Sub rosa indica che si trasmette un informazione nel più grande segreto.
Quidquid sub rosa fatur
Repetitio nulla sequatur.
Sint vera vel fincta
Sub rosa tacita dicta
E’ un detto del 1400, periodo in cui si soleva attaccare un mazzo di rose al soffitto delle locande o avvolgerne i boccali, per garantire che le notizie raccontate non fossero propalate.
La rosa è spesso associata a Cristo, se rossa, se bianca invece alla Madonna, come d’altra parte anche il giglio; quelle gialle ai Magi (che portarono l’oro) e quelle rosate al Bambin Gesù.
La sua struttura concentrica ha evocato anche l’idea della ruota, del tempo che scorre, dell’eterno ciclo vita-morte, e non a caso l’oculo a raggiera nelle facciate delle cattedrali si chiama rosone. Le rose erano consacrate ad Iside, e per secoli simboleggiarono l’ermetismo (per il loro nascondere il centro, tipico delle rose antiche), l’amore sacro e l’amor profano.
Nel 1615 si sviluppò in Europa un movimento ermetico detto “Rosacrucianesimo”. E’ probabile che la nascita fu dovuta ad un fraintendimento, infatti l’autore anonimo del volume Riforma generale e universale che diede inizio a questo movimento voleva prendere in giro gli esoteristi, che invece credettero a tutti i contenuti bizzarri del libro. Su quest’onda fu pubblicato un altro testo, Le nozze chimiche che narrava dell’iniziazione a sette esoteriche non ben precisate da parte di un giovane cavaliere chiamato Rosacroce. La Massoneria in seguito si impadronì dei simboli rosacruciani, e il termine rosacroce oggi indica semplicemente un grado di iniziazione massonica.
Anche Firenze, d’altra parte, prese a suo stemma il giglio, che in realtà era un Iris, fatto confermato dal nome comune del fiore chiamato “giglio di Firenze”, che botanicamente è un Iris florentina.
Ma a noi qui interessa solo il tulipano nero. Oramai esistono molte varietà scure dall’aspetto quasi nero, ma allora il tulipano nero era il sogno degli ibridatori. Un anziano signore olandese, che viveva tutto solo, riuscì ad ibridarne uno per puro caso. Gli furono fatte numerose offerte ma egli rifiutò per presentarlo ad Haarlem, dove si riuniva la società di ibridatori di tulipani, la quale gli offrì 1500 fiorini. Una volta ottenutolo gettarono la pianta in terra e la distrussero.
“Perché?”, chiese l’anziano signore.
“Perché anche la nostra società ha ottenuto e riprodotto il tulipano nero –gli spiegarono- e la tua creazione toglie l’unicità alla nostra, ecco perché può esistere un solo tulipano nero”.
Qui un fiore diventa simbolo della gelosia tra ibridatori e del collezionismo più miope ed egoista. Tratti che sarebbero ancora ben vivi tra gli ibridatori moderni se non fosse che le nuove tecnologie rendono disponibile alle persone una grande e varia offerta.
Il Tulipano nero è anche un romanzo di Alexandre Dumas figlio, in cui si racconta una vicenda ambientata in Olanda alla metà del Seicento e della rivalità tra due ibridatori.
Il libro è però di epoca più tarda, del 1850, periodo in cui i tulipani erano ancora amati ma non così in auge come due secoli prima, scritto per tenere impegnato nella lettura un pubblico amante delle avventure e poco incline all’approfondimento. In quest’ultimo caso Il tulipano nero potrebbe assurgere a simbolo letterario e culturale, cioè di quella cospicua parte della letteratura d’intrattenimento che ha preso il via durante il Romanticismo e che oggi rappresenta la quasi totalità del prodotto internazionale.
Il Settecento fu un’epoca molto strana per quanto riguarda le piante: c’era forte contrasto tra la povertà dei molti e la ricchezza dei pochi, inoltre nacque in quel periodo il giardino paesaggistico inglese che non amava molto la vivacità cromatica dei fiori.
Ma i fiori che hanno legato il loro fascino a questo secolo sono senza dubbio le violette e le camelie. Le violette, che nel linguaggio dei fiori significano modestia, erano curiosamente usate dalle giovani donne come mazzolino per le serate di gala. Erano già molto conosciute ed appezzate durante l’ancien régime, che aveva nutrito per loro quasi una sorta di mania. Si racconta che un gentiluomo, durante il periodo rococo (1720) dedicasse l’intera sua vita alla coltivazione di violette per poter offrire ad un’attrice di cui era innamorato, un mazzolino ogni sera per trent’anni. Quest’attrice poteva quindi farsi un infuso di violette ogni sera.
Goethe ne portava sempre dei semi in tasca per contribuire alla bellezza del mondo.
A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento le violette divennero simbolo della casata dei Bonaparte, Napoleone stesso apprezzava questi fiori per via della passione che per essi nutriva Giuseppina, che le fece ricamare sul suo abito di nozze, e le amava tanto da circondarsene. Si può dire che tutta la vita di Giuseppina fu scandita dalla sua passione per le violette. Napoleone stesso promise (e mantenne) di tornare dal suo esilio dall’Elba quando “le violette sarebbero state nuovamente in fiore”, inoltre aveva un medaglione con dentro alcune violette raccolte dalla tomba di Giuseppina. “Le père Violette” o “Caporal Violette” erano una sorta di parola d’ordine per i bonapartisti. Quando poi Napoleone divorziò e sposò Maria Luisa d’Asburgo, questa ne fece subito uno dei suoi simboli, tanto che alcune delle viole più belle portano il suo nome.
Il viola era un colore di gran moda, tanto che si parla di un’era del mauve.
Le camelie furono un’altra pianta importantissima nel Settecento, non solo per via della loro bellezza, ma perché da esse si ottiene il tè. Fino al 1792 le camelie erano conosciute solo come pianta da infuso. Anzi, pare che siano approdate nel continente europeo perché i Cinesi –a cui gli Inglesi avevano chiesto delle piante di tè per poterle coltivare- gli rifilassero delle camelie da fiore anziché da foglia. Erano piante tanto sconosciute agli europei che furono trattate come delicate e quindi messe in serra, dove ovviamente morivano. Pare che un gentiluomo collezionista, Lord Petre (1738), morisse di crepacuore dopo la perdita di una pianta di camelia. Le prime camelie furono acclimatate in Italia nel 1760 a Caserta portate dalla potente famiglia dei Borbone di Napoli.
Le camelie sono anche simbolo di una certa sensualità femminile, questa simbologia nasce dal famoso romanzo di Alexandre Dumas Padre La signora delle camelie che per 25 giorni al mese si appuntava al petto una camelia bianca, e per gli altri cinque una camelia rossa. Margherite Gautier era ammalata di tubercolosi, che in quel periodo (siamo nel 1848) era come dire “di moda” presso un certo tipo di letteratura che voleva eroine belle e dannate. Tra l’altro la camelia ben si addiceva a Marguerite perché in Giappone (da dove viene la varietà da fiore) simboleggia la caducità della vita per il fatto che il fiore, una volta aperto, non sfiorisce ma cade.
Il romanzo funse da palinsesto per la Traviata di Verdi, la cui protagonista però si chiama però Violetta Valery.
Questo è quanto scrive l’autore:
la Maclura era l’incarnazione vivente della suddivisione territoriale della nuova civiltà americana: un elemento essenziale come la costituzione per il governo, o come una pattuglia di polizia per un quartiere, una cosa che definisce, delimita e impone il rispetto della legge
.
Se nel Seicento la caccia alle piante era un’attività collaterale di esploratori e nel Settecento quella di amatori entusiasti, fu nell’Ottocento che si affermò la figura del “plant hunter” , il cacciatore di piante, generalmente un botanico professionista con doti di illustratore. Associazioni prestigiose come quella di Kew stipendiavano esperti perché passassero mesi ed anni in mare alla scoperta di nuove terre e nuove piante, meglio se utili o medicinali, ma anche quelle da fiore erano enormemente apprezzate per il loro valore economico.
I trasporti più veloci e la diffusione di magazinese riviste per giardinieri, favorirono il ricambio sempre più veloce delle mode.
L’Ottocento fu non a torto chiamato “secolo dei fiori”. I nobili e l’alta borghesia che viveva more nobilium andava assolutamente pazza per i fiori, al punto di dipingerli sulle carte da parati, sui tendaggi, ricamarli sulle stoffe, appuntarli nelle acconciature, sui vestiti, sulle gonne, sui cappelli e sul decolletè.
Nell’Ottocento si diffuse anche il cosiddetto linguaggio dei fiori, che era stato introdotto già a metà Settecento da una nobildonna inglese moglie dell’ambasciatore a Costantinopoli. In realtà il selam era un messaggio non composto solo da fiori, ma anche da oggetti ed altri elementi, ma in Europa la moda del selam ebbe come oggetto solo i fiori e le piante. Uno dei testi più importanti è Il linguaggio dei fiori di Charlotte de Latour, probabilmente uno pseudonimo. Il libro ebbe una storia editoriale molto complessa e non si sa bene chi l’abbia scritto.
Le dame dell’epoca vivevano in una società agiata e un po’ fatua e per impiegare il loro tempo si divertivano a mandarsi complessi messaggi floreali e a comporre sciarade. L’educazione di una dama comprendeva lezioni di pittura botanica all’acquerello perché potessero comprendere la bellezza e la grazia. Abbiamo tutti presente la Emma di Jane Austen che era completamente immersa in una atmosfera romantica fatta di pic-nic e pensieri d’amore.
Niente evoca meglio il periodo ottocentesco come la rocambolesca vicenda della Victoria amazonica, una sorta di grandissima ninfea che vive in Sudamerica.
La Victoria era conosciuta sin dal 1801, ma in tutto il continente europeo c’era solo un fiore conservato sotto spirito. Dovette arrivare il 1837, anno in cui la giovane regina Vittoria era appena salita al trono diciottenne, e fu chiamata Victoria regia in suo onore. I giardini di Kew dove c’era la sede della società botanica inglese, e quelli di Chatsworth se la contendevano, ma il capo giardiniere di Chatsworth, Joseph Paxton riuscì a farla prosperare e fiorire per primo, ed ottenne così l’incarico di costruire la grande serra vetrata del Crystal Palace per l’Esposizione Internazionale del 1851. Anche qui c’è una competizione per arrivare primi nel mondo dell’orticoltura, una competizione tra scienziati e tra artisti. Ma c’è anche un desiderio di consacrare, attraverso la celebrazione di un fiore, la gloria politica dell’impero inglese, che a quell’epoca era molto potente grazie ai suoi possedimenti in India.
Dietro alla fama della Victoria venne poi la moda delle ninfee e dei loti. A fine secolo nessuna sala da bagno rispettabile poteva fare a meno di un decoro con ninfee. In buona sostanza la ninfea fu l’equivalente del melograno per il Cinquecento e delle rose per il periodo rococo.
Un’altra pianta di cui voglio parlare come simbolo di uno stile del giardino che si affermò in epoca romantica, è la Calceolaria. La Calceolaria è forse tra le piante più brutte che ci siano, e all’epoca ebbe una sorta di doppia vita. Da un lato divenne un fiore da fiorista, cioè da ibridatore, e ne furono creati esemplari con venature e screziature sempre più appariscenti. Dall’altro invece ha rappresentato un modo borghese e poco colto di fare del giardinaggio. Non so se qualcuno di voi ha mai letto Il giardino di Elizabeth di Elizabeth von Arnim, alla quale non era concesso, per la sua posizione nobiliare di praticare del giardinaggio (in questo senso le classi povere erano molto più libere). Tutto era messo nelle mani del suo giardiniere, quando lei gli chiese di fare un giardino giallo, lui le fece una striscia di sole calceolarie gialle. Insomma, la calceolaria è stata una pianta molto usata per parterre geometrici di ispirazione italiana e per lo stile cosiddetto gardenesque o per il jardin fleuriste francese.
Il ciliegio era conosciuto in Europa sin dal I secolo avanti Cristo portatovi pare da Lucullo da Kerasunte nel Ponto (odierna zona nordorientale della Turchia), donde il nome kerasos e il nome volgare “ceraso”.
In Europa è stato un albero importante nelle cerimonie del periodo tra Natale e la Befana (Albania), bruciandolo e poi fecondando la vigna con le ceneri, e in Francia era utilizzato nel periodo di Calendimaggio come simbolo di amore. In Giappone, che ha una cultura estremamente stratificata e complessa, c’è tutta una ritualità legata al fiore del ciliegio che simboleggia la perfezione assoluta, ma anche l’impermanenza della bellezza e la transitorietà dello stato di perfezione. Inoltre il fiore rosso, per la sua evidente connotazione cromatica, simboleggia il samurai. Quando tra aprile e maggio fioriscono in Giappone i fiori di ciliegio, i giapponesi si riversano nelle località dove sono piantati questi alberi (Prunus serrulata, non Prunus avium), tra cui spiccano le falde del monte Yoshino, non distante dalla vecchia capitale Kyoto, e fanno dei pic-nic sotto gli alberi. Gli uffici chiudono, fanno festa anche i sararimen e le hana office, le impiegate. Spesso i gitanti si lasciano andare e abusano di sakè, facendo chiasso. Già un poeta del Seicento si lamentava della maleducazione dei gitanti, oggi si beve coca cola e si mangiano hamburger.
Le stampe giapponesi influenzarono tutta l’arte successiva e primariamente il Liberty, in cui il fiore diventa il principale motivo decorativo, tanto che viene detto “periodo del Floreale”.
Per una galleria ancora più completa, cliccare qui
La mia formazione televisiva è di impronta marcatamente giapponese, i vari Hanna & Barbera o i cartoni della Warner Bros mi hanno sempre lasciato tiepida e indifferente.
Tuttavia la Walt Disney, quando il patròn campava, ha scritto pagine della storia del cinema di animazione che non possono essere dimenticate.
Ora la qualità è crollata vertiginosamente e solo la collaborazione con la Pixar -recentemente interrotta- è riuscita a tirare la Disney fuori dall’empasse in cui si era cacciata, senza peraltro neanche avvicinarsi alla bellezza delle vecchie produzioni.
Alice nel Paese delle Meraviglie è uno dei miei cartoni Disney preferiti, sia per la qualità del disegno che per l’esuberanza della narrazione.
Chi ha letto i romanzi di Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò, sa quale magica fusione narrativa tra i due il cartone animato sia riuscito ad ottenere, e quanto differente esso sia dai romanzi, che non imita pappagallescamente, ma INTERPRETA.
Alice nel Paese delle Meraviglie è tra le poche trasposizioni cinematografiche che possano dirsi pari al romanzo da cui sono state tratte.
In Alice il paesaggio è molto composito e di ispirazione variabile.
Ad esempio la scena iniziale, sulla quale si potrebbe anche scrivere un trattatello, mostra un esempio di giardino paesaggistico all’inglese:
Ad un esame meno superficiale il paesaggio appare quasi finto, artefatto, con nulla della selvatichezza dei paesaggi di Blenheim o Stowe, ma con in compenso un carico di romanticismo decorativo e manierato tipico di un certo gusto di una borghesia ricca ma poco raffinata.
Un paesaggio che nasce dal gusto eclettico della fine dell’Ottocento, che rispecchia il decorativismo esagerato dell’epoca in cui furono scritti i romanzi (contro il quale essi si schierano), e in cui nascono anche i grandi parchi dei divertimenti nella capitali europee, come Chelsea a Londra.
Parchi dei divertimenti di che hanno la diretta paternità di Disneyland, che a questi fotogrammi si ispira.
Qui siamo alla casa del Bianconiglio, un cottage rurale inglese, un’icona dell’Inghilterra rurale, che qui viene resa senza mezzi termini, con uno stile assolutamente da cartolina.
Questo è il punto che ogni appassionato di fiori segue con più attenzione. A parte alcuni svarioni (un lillà chiamato girasole, i narcisi asfodeli), è un momento importante per capire quale fosse il gusto che guidava i disegnatori Disney.
Nessun fiore, in Alice, è disegnato con le modalità stilistiche vittoriane, nessuno. La linea stilistica è propria degli anni ’50 (il film è del ’51) e dei cataloghi illustrati di vendita per corrispondenza quel periodo.
Non mancano, come nel libro, rimandi e citazioni, in questo caso ai copricapi dei primi colonizzatori, dei Padri Pellegrini (o meglio, Madri Pellegrine). Il pisello odoroso si presta per la sua forma a questa “trasformazione”, ma l’interpretazione della vocazione storica di questa pianta è perfetta, anche se non lontana da alcuni cliché (la timidezza, l’essere una pianta “della nonna”).
La signora Iris
è poi una perfetta rappresentazione di una dama vittoriana, al contrario della sorella maggiore di Alice, vestita sì da dama vittoriana, ma con delle fattezze da pin-up della pubblicità della coca cola.
Andiamo poi dal Brucaliffo
Qui la decorazione del fogliame è una rivisitazione in chiave post-modernista dello stile Arts and Crafts, lo stesso paesaggio molto lussureggiante è un rimando al Naif e a suggestioni rousseauiane.
Come anche lo strano crocevia dove Alice incontra lo Stregatto Astratto.
Proseguendo incontriamo un paesaggio romantico alla Wagner
e citazione escheriane
I paesaggi e i fiori in Alice si ispirano dunque a diversi stili, che diventano unitari e coesi attraverso il filtro del gusto degli anni ’50, che rende omogenee le diverse suggestioni stilistiche.
E’ un film che, forse inconsapevolmente, fa in parte rivivere -per chi vuol coglierli- quei pericolosi attacchi alla morale borghese che lanciò Carroll alla fine dell’Ottocento. Un film in cui il paesaggio più surreale e da fumetto
è felicemente unito alla visione più celebrativa del paesaggio agreste e bucolico della campagna inglese senza incoerenza e impurità formale.
Un film che rimanda e cita, confonde e stuzzica, esattamente come il libro, ma che a differenza di questo non vuole essere una polemica al gusto e ai costumi del proprio periodo, ma che anzi, li esalta e ne trae “maniera”.
09/20/08
Il giardino come ornamento
Filed under: Giardinaggio e natura, Arte ed Estetica
Posted by: Lidia @ 1:59 pm
Da Robinson in città di Ippolito Pizzetti, ed Archinto 2006:
“Andando sempre più avanti negli anni, sono riluttante, anzi non mi riesce più di pensare al giardino come ornamento. Bene, benissimo un giardino ricco di fiori e di colori; ma per me il giardino da una parte non è più, come spesso era considerato, il vestibolo dell’abitazione, l’introibo, ma il luogo dell’incontro col mondo vegetale e animale su cui si fonda il nostro rapporto con questi due mondi”.
Non aggiungo parola.
4 Responses to “Il giardino come ornamento”
1. Maria Acquaria Says:
September 20th, 2008 at 6:20 pm e
E’ una sensazione che avverto anch’io. Il fatto è che non riesco a decifrarla, a comprenderla come vorrei. Sento che c’è qualcosa che va oltre la semplice questione estetica, eppure non trovo mai non solo le parole giuste per spiegarlo, ma neanche il linguaggio attraverso il quale dirle, quelle parole. Forse non devono essere dette, però. Solo vibrate.
2. Lidia Says:
September 21st, 2008 at 12:30 pm e Molto probabilmente è vero quel che saggiamente dici, ma io ho sempre voluto, nel mio cervello, capire ogni dettaglio ed ogni perché dei miei pensieri e delle mie azioni. A livello maniacale.
3. Alessandro Says:
September 22nd, 2008 at 3:25 pm e
Avvertivo anch’io questa sensazione. Finché non mi è bastata, non ne ero più sicuro. Perché altrimenti non si spiega il mio bisogno di acquistare e possedere piante, come attività prettamente consumistica. E allora ho iniziato a chiedermi dove poter trovare altre spiegazioni. Io nei fatti mi fermo con il mio giardino, ma le mie domande sono cadute nel labirinto dell’espressione artistica. L’arte è una definizione e un prodotto umano, quindi il giardino è una manipolazione e allora ho il sospetto che ci sia anche della finzione nel voler confrontarsi con il mondo vegetale/animale in giardino. Leggendo Ontologia e Teleologia del Giardino di Rosario Assunto si arriva alla teoria di Giardino come ornamento, il giardino come rappresentazione artistica del paesaggio, rappresentazione di bellezza e, in quanto tale, fonte di benessere per l’uomo. Assunto afferma dunque che il giardino è ornamento, luogo per cui l’uomo è spinto alla contemplazione, al ragionamento, successivamente alle attività che a piacere di fare in un luogo, che lo ben dispone. Tra cui cogliere la possibilità di rapportarsi con la natura, ora che è resa a propria misura. In un luogo naturale, ma inospitale, probabilmente non scaturiscono questi bisogni. Ecco, allora non rifiuterei il giardino come ornamento. Sarebbe un vero peccato.
4. Lidia Says:
September 24th, 2008 at 1:01 pm e
Già, ma perché fermarsi lì? C’è molto ancora, dopo.
08/25/08
Il collezionista di fiori
Filed under: Arte ed Estetica
Posted by: Lidia @ 5:00 pm
Sono fortunata: mi piacciono quasi tutti i giardini. E questo perché a me non interessano i giardini di per loro, ma perché guardare un giardino è come entrare dalla porta principale dentro il cuore delle persone, delle cose, delle città.
Può essere la striscia d’erba mezza secca dello spartitraffico, o il prato pisciato dai cani, o il giardino di un vecchio pensionato. Tutto mi piace, purché racconti.
Ce l’ho invece con la bordura all’inglese, spaventoso golem del giardino contemporaneo, che invece non racconta niente, solo conformismo, conformismo, conformismo.
Specie fuori dall’Inghilterra, dove pure ha un senso logico e narrativo.
Questi ciuffoni di fiori perlopiù primaverili ed estivi, mescolati più o meno a casaccio (perché poi è sempre a casaccio, diciamoci la verità), mi hanno davvero rotto le scatole.
Non sono frutto di una scelta estetica ed artistica, ma solo del consumismo sfrenato della nostra società, che una volta che ha finito di consumare le cose, inizia a consumare anche le idee.
Vi riporto, tal quale, un passo tratto dal libro Il sistema dell’arte contemporanea, di Francesco Poli, che parla di collezionismo di quadri:
L’atteggiamento passionale verso l’arte soprattutto nei riguardi della propria collezione spiega, ad esempio, il fatto che quasi tutti i collezionisti si considerino come casi unici e non classificabili. Infatti essi tendono ad identificarsi con le opere in loro possesso, che per loro non rappresentano tanto valori estetici autonomi in se stessi, quanto piuttosto il frutto delle “proprie scelte” la dimostrazione della “propria” sensibilità artistica, e quindi, al limite, direttamente l’espressione del “proprio” valore. E’ chiaro, dunque, che l’amore per le proprie opere d’arte, essendo una forma di autogratificazione, è una passione che “difficilmente gli altri possono comprendere”.
Sostituite “giardinieri” a “collezionisti” e “piante” a “opere d’arte” ed avrete il teatrino completo.
La bordura all’inglese a me sembra l’incarnazione del più sfrenato consumismo delle idee e dell’estetica, e dietro ad ogni planting plan mi sembra si nasconda un gelido e serpeggiante “consiglio per gli acquisti”.
2 Responses to “Il collezionista di fiori”
1. Alessandro Says:
August 26th, 2008 at 9:15 am e
La bordura inglese proprio perché costituita essenzialmente da una miscela di fioriture, illude chi la realizza, perché può apparire una facile via per concretizzare il bisogno di creare il proprio giardino. Permette di raggiungere lo scopo, focalizza la spesa direttamente e quasi unicamente nella materia vegetale e il gioco gli sembra fatto. Si ottiene presto un giardino, riconoscibile ai più e collocabile ad un livello più alto della media dei giardini odierni nelle cittadine italiane. Probabilmente una dimostrazione del proprio status sotto copertura. Penso che lo scopo del consumo è giustificarsi una vita dal ritmo frenetico, zeppa di prove e risultati, che tolgono tempo a se stessi e che si tenta di recuperare col possesso di cose che ci collocano e ci riconoscono.
2. Lidia Says:
August 26th, 2008 at 4:29 pm e
Ciao Alessandro, grazie del tuo commento. “Dimostrazione del proprio status sotto copertura” è davvero una frase che mi piace.
Scrittore, Fotografo, Guida Naturalistica, Girovago / Writer, Photographer, Naturalist Guide, Wanderer
Una galassia di storie.
Rassegne di Scienze Naturali
Non mettere a dieta la tua identità