Tempo addietro mi è capitato di vedere un reel su Instagram in cui un signore -evidenziando tutti i disastri dell’élite politica- si chiedeva come mai solo noi umani mettiamo a capo il più stupido (forse c’entrava Salvini), mentre tutti gli altri animali della terra instaurano un rapporto di equilibrio con l’ambiente e tra i membri del gruppo. Più o meno, eh, non ricordo parola per parola.
Ho avuto la cattiva idea di rispondere. Il mio commento è stato: “Un uomo, un maschio”. Ebbene, si sa come vanno le cose con i commenti che non piacciono: piovono notifiche di risposte anche dopo mesi (che palle). A parte gli insulti e le offese, le risposte più articolate che ho ricevuto sono tutte uguali, quasi tutte date da maschi bianchi privilegiati. La più frequente è l’elenco delle donne malvagie attualmente al governo nel mondo. Sui social, quando so che innescherei una serie di risposte fino al miliardesimo livello di nidificazione, non mi ci metto neanche, semplicemente non rispondo. Per mia comodità e spero per interesse di lettrici e lettori, scrivo qui una risposta generale, anche per le sorelle giovani e con gli occhi chiusi. Non le biasimo, lo sono stata anche io e troppo a lungo. Ma spero che si sveglino dal loro sonno di pietra, perché siamo in pericolo.
Lascio da parte considerazioni di tipo biologico ed etologico, che potrebbero essere anche consistenti, e rimango sulla metafora. Il signore del video non ha fatto un collegamento di una semplicità mirabile, e non mi sorprende. Stupidità come potere istituzionale e violenza sono esattamente la stessa cosa. E sono gli uomini, non le donne, a praticare la violenza come strumento di raggiungimento e mantenimento del potere, da millenni. Che poi ci sia stato qualche singolo esemplare femmina della specie Homo sapiens che abbia poggiato le natiche su un trono o il seggio di una presidenza e si sia comportata in modo violento, nessuno lo mette in dubbio, ma se buttiamo giù un po’ di statistiche, nel corso di qualche migliaio d’anni, includendo tutta la geografia terrestre, le donne di potere e sanguinarie come Isabella di Castiglia o Cixi, saranno una ventina. Tipo lo zero virgola zero qualcosa per cento. Però i maschi sempre a puntare il dito anche su quello 0,0 qualcosa per cento.
Ma torniamo alla stupidità: perché la stupidità è violenza? Come prima cosa, la violenza è una reazione a bassa elaborazione cognitiva e psicologica. Questo vale nell’umile quotidiano ma ancor di più quando si parla di “stupidità al governo”. Ogni tipo di potere governativo, ma in particolare quello attuale (non solo in Italia), violento, arrogante, sopraffattore, apertamente tirannico, ha sempre l’interesse di mantenere le cose come stanno. Chi governa, chi è all’apice del potere, pascola beatamente nello status quo. Ogni cambiamento mette in pericolo la sua posizione apicale, è perciò nel suo interesse attestarsi sull’immobilismo e mantenere statiche le masse. Ci viene in aiuto l’etimologia della parola “stupido”, cioè “stupère” che vuol dire “sbalordire”, ma anche “immobilizzare” (per fare un esempio, l’incantesimo “Stupeficium” è quello usato in Harry Potter per paralizzare i nemici). La passività delle masse si ottiene per molte vie, la repressione, la sfiducia, la rassegnazione, il culto dell’inazione e il pascimento nell’ignoranza e nell’ozio. È anche per questa ragione che nessun governo promuove mai l’accesso alle urne, anzi, semmai lo disincentiva.
La violenza è quindi una condizione di stasi mentale, di abdicazione al raziocinio e al pensiero complesso, alla critica e al ragionamento analitico, a cui si associa una reazione fisica, verbale o comportamentale di prevaricazione nei confronti dell’altrə.
La stupidità nasce dall’uso continuo di violenza, dall’assuefazione del cervello a quella scorciatoia cognitiva. Ed è per questo, signore del video su Instagram, che gli animali non mettono a capo il più stupido, perché la violenza è biologicamente ed ecologicamente costosa, si disperdono energie e si corre il rischio di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’intero gruppo. Data la nostra capacità di incidere sull’ambiente, noi umani possiamo permetterci un certo dispendio di energie, ma la violenza alla lunga distrugge ciò che ha conquistato. È parassitaria: vive finché è vivo l’ospite, poi muore.
Nella storia dell’essere umano però, è successa una cosa che non ha eguali non mondo degli animali: la violenza è stata culturalizzata. Cioè è entrata nel sistema di vita dei popoli, è stata trasmessa di generazione in generazione, per millenni. Esiste, più o meno visibile, più o meno silenziosa, in tutte le attività umane, scienze, arti, filosofia, giurisprudenza, politica, ecc. Quando la violenza si culturalizza, prende un nome preciso: patriarcato. Sì, proprio quello che sta antipatico a molti maschietti, che non sanno di esserne anche loro vittime.
Il patriarcato è la Violenza nella sua forma storicamente più resistente e sistemica, quella che ha fatto del rapporto dominatore-dominatə il proprio principio di organizzazione sociale. La struttura è statica, consolidata attorno alla violenza, all’esercizio del potere, del comando e all’obbedianza a esso. Le variazioni all’interno di queste norme, che hanno delle codifiche elaboratissime, sono considerate “aberrazioni”, “contro natura”, “abominio”.
La violenza è insomma un difetto cognitivo, di cui il patriarcato è la forma più aggressiva e a maggiore diffusione globale.
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The corner store. Una vecchia drogheria è una delle uscite migliori degli ultimi anni. Sorprendente è dire poco. Ruan Guang-min, un autore taiwanese, porta in scena un insieme di personaggi normali, comunissimi, e certamente più interessanti dei vari superpotenziati che abitano i manga giapponesi. Il manhua taiwanese è largamente inesplorato in Italia, anche in alcune delle sue vette artistiche (come Chen Uen o Little Thunder). Da pochi anni la casa editrice Toshokan ne sta traducendo alcuni, con grandissimo favore del pubblico più maturo e raffinato.Guang-min è molto noto in patria per avere centrato storie corali imperniate su piccole attività commerciali di famiglia, ha vinto numerosi premi e i suoi manhua vengono trasposti in serie televisive. The corner store sente certamente l’andamento del drama, dello sceneggiato, non solo nel succedersi degli eventi, ma anche della scansione dell’azione in pagina, della prospettiva, dell’inquadratura. Guang-min è senza alcun dubbio uno dei migliori artisti che circolano tra gli scaffali italiani, la sua tecnica di disegno è sorprendente per l’efficacia, per l’icasticità, la velocità con cui la rappresentazione raffigurata diventa vivida, reale, vicina. La sua capacità di far correre l’occhio e la lettura è straordinaria. In questo lo ritengo supremo, inarrivabile.
Lui disegna in digitale ma il tratto rimane sempre molto artigianale, con delle sporcature tipiche del carboncino, della matita grassa passata di taglio sul cartoncino ruvido. Non si perdono le linee ravvicinate dello schizzo a matita e a pennino, le finezze del pennello. Una attenzione allo strumento utilizzato che è praticamente ignota a molti mangaka giapponesi, che ci danno sempre un tratto fine e pulito, perfetto e anonimo, e che in Europa viene invece molto apprezzata poiché segno caratteristico e distintivo di una sola mano, di un unico individuo. L’unicità, la riconoscibilità, è sempre un elemento positivo per l’occhio europeo, poiché avvicina l’artista alla creazione divina.
L’emozione che mi ha suscitato questo manga è di una immensa nostalgia di qualcosa che non ho mai posseduto. Sono una X Gen, i “corner store” esistevano ai miei tempi, anzi, non c’era altro tipo di negozio. Si chiamavano “bottega”, “emporio”, “spaccio”, o meglio ancora, con il nome del proprietario. “Vado dal Carlino, dal Ieraci, da Torre”, oppure si usava il soprannome paesano “il Magnamagna”, “il Brigante”.
Per me erano posti terribili, dove andare perché necessario, per una richiesta ricevuta in famiglia, che per una bambina diventa un ordine. Lì dentro mi sentivo un agnello il mezzo ai lupi, un pezzo di carne da pesare, una merce da poter acquistare semplicemente prendendola dallo scaffale. Sin da piccola sentivo il puzzolente fiato del patriarcato sul mio collo. Gli sguardi sezionatori dei “vecchi” (magari quarantenni) che indugiavano sul mio corpo di scolara elementare come se fossi una sugosa pietanza ambulante. Le donne adulte o erano acquirenti, quindi di passaggio, oppure mogli dei titolari, quindi ipostasi dei mariti. Le bambine non sarebbero state ammesse in bottega, nemmeno se figlie del titolare. Troppi maschi, troppi vizi, alcool, sigarette, possibilità di violenza, e non ultima, la vicinanza al mondo del danaro, dell’attività commerciale, da cui le femmine venivano accuratamente tenute lontane.
Perciò il pensiero che avrei potuto aspettare il bus alla bottega, o fare i compiti assieme agli altri bambini, mangiucchiando biscotti, come hanno fatto i protagonisti di The corner store, mi ha letteralmente assestato una coltellata nelle costole. A me, questa vita, questi ricordi, che probabilmente sono condivisi da molti miei coetanei maschi, sono stati negati poiché nata femmina. E mi chiedo quanta distanza ci sia tra i negozietti d’angolo della remota provincia calabrese degli anni ’70-’80 e quelli della provincia taiwanese di qualche anno fa. Mi chiedo se le millennial di Taiwan abbiano sentito anche loro il peso dello sguardo maschile andando a prendere un ghiacciolo. E inevitabilmente mi dico di sì.
E questa cosa mi fa arrabbiare, e mi addolora.
Nel racconto di Guang-min i personaggi femminili non mancano, ma quelli importanti sono solo tre rispetto agli innumerevoli maschi. Tutte e tre sono legate a temi romantici, e una soltanto ha una caratterizzazione forte al di fuori della sfera sentimentale. Se tra i maschi avvengono dialoghi e considerazioni sul senso della vita, sui propri sentimenti e sul commercio, questo non avviene tra i personaggi femminili, che si sovrappongono o si lambiscono occasionalmente, spesso senza avere una reale interazione che non sia la condivisione dello spazio nella pagina. Manca anche un analogo rapporto intergenerazionale che si sviluppa attorno al protagonista maschile.
La lettura è sempre molto piacevole, davvero commovente. Ma si avverte questo ronzio, il rumore di fondo, quella distorsione della realtà data dall’ assenza di metà del mondo. Se il manga giapponese è tristemente famoso per questa assenza o per la trasfigurazione delle donne in bambole scervellate, in una narrazione di persone ordinarie era legittimo avere una aspettativa più alta. Qui la scarsa presenza femminile non è una scelta editoriale, ma viene spontanea come specchio della società.
Se mi soffermo su questo punto invece che sulle altre qualità del fumetto è per due ragioni: la prima è che questa serie ha ricevuto moltissimi consensi e recensioni, e gli aspetti tecnici e narrativi sono stati già ampiamente esplorati. La seconda è è perché ritengo sia molto importante sottolineare come spesso i maschi descrivano un mondo a metà (le recensioni scritte da donne sono ancora troppo poche, sempre indulgenti o poco attente alla rappresentazione mediatica dei generi). Noi donne siamo abituatissime a immedesimarci in personaggi maschili, ecco perché il female gaze ci sconvolge sempre, o la ragione dell’enorme successo dei boy’s love.
Sentirsi tagliate fuori da un racconto di supereroi è brutto, ma se succede in una storia di persone ordinarie, si sente un dolore tanto forte quanto più è bella l’opera. E The corner store è veramente bellissimo. La vitalità dell’andamento narrativo, mescolata a temi umani così forti e toccanti, l’espressività dei personaggi, rendono questo manhua un vero tesoro, quel tipo di racconto da leggere e rileggere nell’arco del tempo, nel quale rivedersi, ogni volta cambiati (e uso il maschile di proposito) a seconda dell’età, delle scelte di vita. A colpire direttamente è però l’abilità artistica di Guang-min, che ha uno stile molto incisivo, carico nel segno ma privo di orpelli, che insiste nel dettaglio pur concedendosi la sporchevolezza della bozza. Una magia che pochi artisti sanno fare.
Personalmente ho apprezzato molto il personaggio di En Pei, proprio per la sua scelta (e anche perché è molto carino).
Da rimarcare lo splendido lavoro fatto dall’editore Toshokan sulla traduzione e sulle note, che hanno spesso occupato una parte considerevole dei margini.
Ruan Guang-min è anche un artista molto social e estremamente disponibile e alla mano: risponde sempre a tutti e tutte con parole di ringraziamento e gentilezza. Questo è il suo account Instagram, dove pubblica spesso anche disegni a colori da lasciare senza fiato.
The comic ends precisely with this sentence: if you accept the flaws, then it’s true love. Maybe it’s the same for manga? I’d say yes. The Corner Store — an old-fashioned grocery shop — is one of the best releases in recent years. Calling it “surprising” would be an understatement. Ruan Guang-min, a Taiwanese author, brings to life a group of ordinary, everyday characters who are far more interesting than the super-powered ones populating Japanese manga. Taiwanese manhua are still largely unexplored in Italy, even in their artistic peaks (such as Chen Uen or Little Thunder). Only recently has the publisher Toshokan started translating some of them, to great acclaim among more mature and refined readers.
Guang-min is very famous in his home country for his ensemble stories focused on small family-run businesses. He has won numerous awards, and his manhua have been adapted into TV series. The Corner Store definitely carries the pacing of a drama, not only in how events unfold but also in the way action is laid out on the page — the perspective, the framing. Guang-min is without a doubt one of the best artists currently available in Italian bookstores. His drawing technique is astonishing for its effectiveness, its vividness, and the speed with which the images come to life, feeling real and close. His ability to guide the reader’s eye and reading flow is extraordinary. In this, I consider him supreme, unreachable.
He draws digitally, but his linework always retains a handmade quality, with the smudges typical of charcoal or a soft pencil rubbed sideways on rough paper. You can still see the close lines of pencil and pen sketches, the finesse of the brush. Such attention to the tool used is practically unknown to many Japanese mangaka, who often offer clean, thin, flawless (and anonymous) lines — whereas in Europe, this more personal, handcrafted touch is highly appreciated because it reveals the artist’s individual hand. Uniqueness, recognizability, is always a positive element for European eyes, as it brings the artist closer to the divine act of creation.
The emotion this manhua stirred in me was an immense nostalgia for something I never actually had. I’m from Generation X — “corner stores” existed in my time; in fact, there weren’t any other kinds of shops. They were called “bottega”, “emporio”, “spaccio” — or, better yet, by the owner’s name: “I’m going to Carlino’s, Ieraci’s, Torre’s.” Or sometimes by their nickname: “Magnamagna” (Big Eater), “the Brigand”.
To me, they were terrible places — places you went because you had to, often for a family errand which, for a little girl, felt like an unbreakable command. Inside, I felt like a lamb among wolves, a piece of meat to be weighed, merchandise that could be plucked off a shelf. Even as a child, I could feel the foul breath of patriarchy on my neck. The scrutinizing stares of the “old men” (often barely forty) lingering on my elementary-school girl’s body as if I were a tasty, walking morsel. Adult women were either customers — thus fleeting presences — or the shop owners’ wives — mere extensions of their husbands. Little girls weren’t really welcome in those shops, not even if they were the owners’ daughters. Too many men, too many bad habits — alcohol, cigarettes, the ever-present risk of violence — and not least, the proximity to the world of money and business, from which females were carefully kept away.
So the idea that I could have waited for the bus at a shop, done homework together with other kids while munching on cookies — as happens to the protagonists in The Corner Store — felt like a stab in the ribs. This life, these memories, which were probably shared by many of my male peers, were denied to me simply because I was born female. And I wonder how far removed the little corner stores of rural Calabria in the ’70s and ’80s really are from those in Taiwanese provinces just a few years ago. I wonder if millennial girls in Taiwan, too, felt the weight of male gazes when buying a popsicle. And inevitably, I tell myself — yes, they did.
This thought both angers and saddens me.
In Guang-min’s story, there are female characters, but only three important ones compared to the countless male ones. All three are tied to romantic subplots, and only one has a strong characterization outside of sentimental themes. While the male characters have conversations about the meaning of life, emotions, and business, this kind of exchange doesn’t happen among the female characters, who merely overlap or brush against each other, often without meaningful interaction beyond sharing space on the page. There’s also no intergenerational bond among the women like there is around the male protagonist.
The reading experience remains very pleasant and truly moving. But there’s this constant hum, this background noise — the distortion caused by the absence of half the world. If Japanese manga are sadly notorious for this absence or for turning women into brainless dolls, in a story about ordinary people, one might have hoped for something better. Here, the underrepresentation of women isn’t an editorial choice: it feels natural, a mirror of society.
If I’m focusing on this aspect rather than the other many qualities of the comic, it’s for two reasons: First, because this series has already received plenty of praise and reviews discussing its technical and narrative strengths. Second, because I believe it’s crucial to highlight how often men describe only half the world (and how there are still too few female reviewers, often overly forgiving or not very attentive to gender representation). We women are very used to identifying with male characters — that’s why the female gaze shocks us so much, and partly why boy’s love stories are so incredibly popular.
Feeling excluded from a superhero story is painful; feeling excluded from a story about ordinary people is even worse — especially when the work is so beautiful. And The Corner Store is truly beautiful. The vitality of the narrative flow, the touching human themes, and the expressiveness of the characters make this manhua a true treasure — the kind of story you reread over time, finding yourself in it again and again (and yes, I’m using the masculine consciously) depending on your age and life choices.
What strikes directly, however, is Guang-min’s artistic skill: his style is bold yet stripped of frills, deeply focused on detail while still embracing the roughness of a sketch. A magic that few artists can achieve.
Personally, I really appreciated the character of En Pei, both for her choices and because — well — he’s also very handsome.
It’s worth highlighting the excellent work done by publisher Toshokan on the translation and notes, which often took up a significant part of the margins.
Ruan Guang-min is also a very social and extremely approachable artist: he always replies to everyone with words of gratitude and kindness. This is his Instagram account, where he often posts breathtaking illustrations.
"Quando guardiamo il cielo di notte ci soffermiamo ad ammirare le stelle a caso senza seguire uno schema.. lasciamo che la nostra fantasia si perda in questo immenso soffitto brulicante di luci... una stella grande.. qualcuna piccola.. un'altra azzurra ed una rossa! Luci lontane che forse ora non esistono neanche più.. eppure sono lì le guardiamo ogni sera quando le nuvole ce lo permettono.. luci che continuano a brillare .. a vivere.. che continuano a farci sognare! Questo BLOG vuole essere uno spazio semplice, senza pretese, uno spazio dove antichi sorrisi e sguardi continuano a brillare come stelle... semplicemente continuano a vivere nell'immenso cielo della rete." (Domenico Nardozza)