Le letture di svago puro sono diventate di colossale importanza da un anno a questa parte, cioè da quando la dimensione culturale più spessa è focalizzata sulla questione palestinese. I fumetti hanno per me consolidato il loro ruolo di escapismo totale, nell’accezione più prossima alla celebre frade si Calderón de la Barca: la vita è sogno.

I manga boy’s love mi servono come combustibile per i miei daydreaming e arricchire le vicende dei miei amici immaginari, che porto con me da quando ero piccola (da Mazinga Z, per l’esattezza). Surfo lo yaoigram da abbastanza tempo per capire quando un titolo piace davvero, e questo sembrava avere convinto parecchie persone. Ormai credo poco alle recensioni, perciò ho aperto il volumetto con un’attesa a metà. Parto sempre bassa per sicurezza, e sulle prime non c’era granché, se non i bei disegni (un pelino non nel mio stile i volti dei protagonisti, ma è un gusto personale).
Dopo qualche pagina ho capito che non era il solito volumetto. E dopo qualche altra pagina ancora ho esclamato: ma questa è una fiaba!
Viene subito alla mente “La lanterna delle peonie” di San’yutei Encho, in cui la carnalità e l’incorporeità sono centrali. Il personaggio principale non è un fantasma, ma un akashibito, uno yōkai che mangia la sfortuna. Detta così poteva uscire una cosa comica alla Rumiko Takahashi, oppure ridicola, ed era questo il mio timore quando l’ho preso. Gli akashibito non esistono, sono un’invezione dell’autrice. Ma c’è nella parola la parte “bito” che viene usata nella reiterazione “hitobito”, un termine che vuol dire “persone”, senza distinzione. Non so se sia un caso, ma questa coda sintattica mi fa pensare a un’allusione al termine “uomo”, “essere umano”. Il Giapponese è una lingua che si presta molto per fonetica e morfologia a questo tipo di semantica.
L’avvio mantiene gli stereotipi di un genere che ha dei cliché forti come ganasce bloccaruote, ma poi Hitomi inizia a tornire Shiro, lo yōkai legato alla sfortuna degli umani. Shiro significa “bianco”, che è un colore antropologicamente legato alla trasparenza, quindi all’incorporeità e al mondo oltretombano (basti pensare al nostro detto “bianco come un fantasma” e alla rappresentazione dei fantasmi con le lenzuola). Le mie antenne si sono drizzate quando un flashback ci mostra Shiro a letto con… una donna.
Per chi non è praticə dei tropi yaoi, posso chiarire che le figure femminili, se esistono, sono sempre presenze anonime, fugaci e spesso senza volto, prive di fisionomia, funzionali a definire una backstory dei personaggi (solo due, che io ricordi, sono diventate buone personagge secondarie). Qui non è diverso, però viene rappresentato l’atto sessuale, il che è come buttare un tizzone in un occhio alle lettrici (una donna che non sono iooooh?).



A mano a mano che la storia avanza, il personaggio di Shiro trascina quello di Miki, un po’ meno interessante, e il sentimento che nasce tra i due va di pari passo con una meticolosa collaborazione tra i personaggi e una sceneggiatura misuratissima, che utilizza la materialità per definire l’immateriale. Il cibo, il corpo, la temperatura, l’abbigliamento, il nudo e il vestito, l’interno e l’esterno, la domesticità e la metropoli, le cose rotte e le cose che funzionano. Tutto concorre a definire il carattere dei personaggi e renderli familiari nel volgere di poche decine di pagine. Questo lo fa la bravura del mangaka, non è solo la sceneggiatura o l’editor, qui conta molto il disegno, il posizionamento delle figure, degli oggetti, la cura del tratto, la scelta delle ombre, delle espressioni. Sicuramente l’autrice conosce il folklore della sua nazione, con quella finezza che si riverbera nei dettagli più piccoli: quello che noi chiamiamo “stile”. Di certo Hitomi è molto colta, si sente. E ci sarebbe da aprire una riflessione sulla vastità di un mercato che ingloba anche talenti che probabilmente sarebbero a loro agio in altri tipi di narrazione.Transparent love è quello che io chiamo “un BL osculatorio”, cioè un racconto non basato sull’erotismo più meno visibile e fine a sé stesso, ma su una vicenda narrativa all’interno della quale nasce una storia d’amore. La storia di Shiro poteva andare diversamente, è andata diversamente più volte: lo abbiamo visto.
Però questa volta le cose cambiano. E qui tocchiamo il nucleo del fantastico racchiuso in questo racconto: lo spirito che vuole diventare umano, attraverso l’amore. Il rapporto tra l’umano e il non umano, estremi uniti dall’amore, è un motivo assai ricorrente nei racconti fantastici di tutto il mondo. La Bella e la Bestia, Maria di Metropolis, Pinocchio, Il fantasma dell’opera, Pigmalione, Frankenstein, Coppélia e Olympia (entrambe trasposizioni di Der Sandmann di Hoffmann), Alita, Her, tanto per fare pochi esempi. In Giappone le kitsune, la donna cigno e la principessa Kaguya.
Hitomi riesce a mantenere un tono intensamente malinconico rimanendo leggera grazie a una grandissima sensibilità narrativa e a un forte controllo del mezzo artistico. L’ andamento domestico e quotidiano rende il magico e l’impossibile più credibili che mai. La narrazione non stanca e non cede, non diventa incalzante ma rimane imprevedibile. Un fumetto cucito sulla grande lezione dei narratori del kaidan ma nei margini del racconto folk-pop internazionale.
Il colpo di scena finale arriva come in un fantasy la rivelazione su come spezzare l’incantesimo. Un equilibrio bellissimo di stile, cultura, leggerezza e sentimento.
È un manga ammirevole per la capacità di raccontare il magico in un mondo che la fantasia l’ha persa, in cui il materialismo e la noia hanno il potere assoluto, consacrato nell’espressione “brain rot”, celebrata qualche giorno fa.
Un racconto eterno, che sembra fuori da questo tempo sottile e spigoloso, in cui nulla arriva, nulla sconvolge. E se nulla sconvolge, nulla può fare innamorare.
Il Nulla è qui, sì. Ma forse non divorerà tutto.
Forse.




