Rose & Lavoro. Dal Kenya all’Italia l’incredibile viaggio dei fiori


Rose da taglio e gerbere
È un argomento a cui il giardiniere presta poca attenzione: il fiore da taglio. Quello commerciale, beninteso, non le composizioni di fiori freschi raccolti dai nostri giardini, disposte con cura in vasi eleganti, posizionate in punti strategici per essere viste dagli amici appena si siedono sul divano, o in piccoli vasetti di cristallo, davanti alla foto dei nonni, sul cassettone nella stanza da letto.

Il giardiniere è solitamente abituato a produrre da sé il “materiale” per decorare la casa, ma l’avere a che fare con i fiori da taglio commerciali non è un evento riservato a chi non possiede un giardino o una terrazza: basta pensare a quante volte in un anno regaliamo (o riceviamo) fiori acquistati dal fioraio. Non lo si dice spesso, per non sembrare ingrati nei confronti di chi ce ne regala un mazzo, eppure la cattiva qualità dei fiori da taglio è un dato ormai sempre più frequente. Quante volte è successo che le rose afflosciassero tristemente il capo, senza arrivare a sbocciare completamente? E quante volte i boccioli dei tulipani abbiano deluso le nostre aspettative, non aprendosi affatto?

La cattiva resa in vaso dei fiori da taglio commerciali dipende da molti fattori: l’annata, il clima, il momento della raccolta, la qualità del terreno, la quantità d’acqua e di fertilizzante, la difesa dalle malattie, e non ultima l’alta temperatura che solitamente c’è nelle nostre case, specie in inverno, quando i termosifoni o le stufe sono tenute al massimo.

Per le rose, che costituiscono il 40% del mercato dei fiori da taglio, sempre più spesso il motivo principale del triste afflosciarsi senza aprirsi è il lungo viaggio che hanno alle spalle. Tre-quattro giorni, più un numero non ben precisato nelle celle frigorifere dei fiorai. Sì, perché la maggior parte delle rose oggi vendute ed acquistate in Italia proviene dai paesi caldi del mondo: Kenya e Etiopia soprattutto.

Un piccolo libro si interessa di questo argomento veramente marginale negli interessi comuni della nostra società, ed anche del giardiniere, ma tutt’altro che irrilevante per l’economia mondiale. Il mercato delle rose da taglio importate dall’Africa è infatti un importate motore dell’economia non solo europea, ma mondiale. Pietro Raitano e Cristiano Calvi, di cui il volume presentato non declina alcun dettaglio personale o professionale, ma che possiamo immaginare come due giovani ed entusiasti economisti, hanno seguito con costanza e attenzione la filiera che porta dalla pianta di rose fino al secchio del fioraio.

Africa

Roselline da taglio in miscuglio di colore
Si parte da Naivasha, zona martoriata dalle guerre civili, che è il centro più importante dell’Africa nel mercato delle rose da taglio. A Naivasha, in Kenya, a 150 km a nord di Nairobi, c’è un lago che garantisce un approvvigionamento d’ acqua per le serre che producono fiori. Qui, una ventina di anni fa, si sono installate delle multinazionali che hanno iniziato una produzione intensiva di rose per poter sfruttare le risorse umane, ecologiche ed ambientali favorevoli, cioè un clima caldo che affrancasse dalla necessità di riscaldare artificialmente le serre di produzione, l’acqua di un grande lago con cui poter irrigare le piante, ed una manodopera a costi bassissimi. Un operaio kenyano viene pagato circa un terzo di centesimo di euro per ogni rosa raccolta, per un totale di 3700 scellini al mese, meno di 40 euro. Un operaio italiano prende per ogni rosa non meno di 10 centesimi di euro.

Le condizioni di lavoro degli operai sono estremamente dure: il lavoro è molto faticoso, i contratti sono raramente a tempo indeterminato, e nei periodi di maggiore richiesta si assumono lavoratori esterni, chiamati “casual”, che vengono pagati pochissimo per un lavoro massacrante. Ognuno si deve occupare di una fila di rose, che può essere incredibilmente lunga, dato che le serre si estendono per molte decine di ettari. La posizione è scomoda, poiché si deve stare incurvati tutto il giorno. A lavorare sono soprattutto le donne, che vengono licenziate in tronco se in gravidanza, e che spesso devono subire abusi sessuali. I codici internazionali per la protezione degli operai prevedono che essi debbano rientrare dopo un certo numero di ore dopo l’erogazione degli insetticidi, ma nessuno rispetta queste regole, e la maggior parte dei lavoratori ha malattie alle vie respiratorie, per le cui cure non riceve nessun contributo.

La stragrande maggioranza degli operai, specie quelli con contratti a termine, non sa neanche a cosa ci servano le rose: pensano che le utilizziamo per ottenere oli ed essenze, e quando gli viene detto che usiamo i fiori per regalarli, semplicemente non ci credono: “Li comprate per vederli appassire” è la risposta incredula di uno dei tanti lavoratori “casual”.

Naivasha è una wetland riconosciuta e tutelata dalla convenzione internazionale che protegge tutte le zone umide del mondo, firmata in Iran nel 1971. Il lago è grande 115 Kmq ed è il quarto del Kenya per estensione. Nonostante questo l’uso dell’ acqua del lago da parte dei produttori di rose è indiscriminato. Le acque di scarico finiscono direttamente nel lago, non depurate, portandosi dietro i residui dei fertilizzanti e degli antiparassitari. L’accesso all’acqua del lago è vietato alla popolazione locale, poiché influenti personaggi del governo hanno interessi privati a che sia riservato alle serre e agli hotel. Ogni metro quadro di rose consuma mediamente 7 litri di acqua al giorno, e il livello del lago si è molto abbassato nel giro di pochi anni e l’acqua è inquinata. La flora e la fauna del luogo ne hanno molto risentito, ma la cosa sembra non avere nessuna importanza per le associazioni internazionali di controllo. La proprietà è generalmente inglese o olandese, solo raramente kenyana (come la Sian, che è di proprietà di famiglie che hanno alte posizioni governative).

Una delle multinazionali più importanti del mondo, forse la più potente, è la Sher Agencies, che a Naivasha ha una delle sedi di elezione, benché la proprietà sia olandese. La tecnologia, il know how e le strategie di marketing sono in Olanda, la produzione in Africa. Metà dei fiori prodotti, quelli con il gambo più lungo, viene portato alle aste olandesi per essere rivenduto, il resto viene distribuito in tutto il mondo. Il trasporto aereo è in assoluto la spesa più gravosa: spedire le rose costa 2 al chilo. Anche se le rose valgono di più in misura di quanto sono lunghe, quelle africane vengono accorciate per poterne impacchettare molte in una sola scatola. In un solo volo possono essere inviati fino a 6 milioni di fiori.

Nessuno calcola l’impatto ambientale del carburante necessario per portare i fiori dal Kenya all’Europa. Ogni varietà ha uno stadio ben preciso in cui essere raccolta. Dopo il taglio le rose vengono raffreddate per quattro ore a 4°C, vengono poi riunite in mazzi e di nuovo poste in frigorifero. Le celle frigorifere sono tenute alla temperatura costante di 6°C, e molti operai lavorano esclusivamente lì per tutto il giorno, tutti i giorni, e devono vestire abiti pesanti. I fiori vengono portati in aeroporto di notte, per evitare che si sciupino al calore cocente delle ore diurne, e circa otto ore dopo sbarcano ad Aalsmeer, in Olanda, non lontano da Amsterdam.

Le aste olandesi sono quattro, ma questa è la più importante, ed insieme a quella di Flora Holland controlla il 98% del mercato dei fiori da taglio. Il 70% dei fiori da taglio importati dal resto del mondo e la quasi totalità di quelli prodotti in Olanda passa di qui. Il 65% di quelli prodotti in Africa finisce ad Aalsmeer.

Il mercato dei fiori ad Aaslmer, foto da Flickr
L’edificio che ospita l’asta è l’area commerciale più grande del mondo. La zona riservata all’asta delle rose è la più grande. I fiori che vendono di più dopo le rose sono, in ordine: i tulipani, i crisantemi, le gerbere e le fresie. Si entra la mattina prestissimo, alle 7 del mattino, ma l’asta inizia più tardi, alle 10, e si svolge con una rapidità impressionante. Il tutto dura un’ora: a mezzogiorno il luogo è deserto. Si contano fino a 12 transazioni al secondo. Le rose che non vengono vendute sono destinate a diventare compost a spese del produttore. Si vendono oltre 19 milioni di fiori e due milioni di piante al giorno, che si devono pagare entro due ore dall’acquisto. I prezzi variano dagli 8 centesimi di euro ai 20-25 centesimi, a seconda della qualità del fiore, del periodo dell’anno, dei colori o delle forme più di moda, ma anche in base al gusto dell’ acquirente. Sabato e domenica sono i giorni più pieni, e i mesi migliori sono quelli invernali, quando la produzione di rose nella zona nord della terra è ferma. Nei periodi di piena i prezzi sono più alti per compensare quelli bassi del periodo primaverile ed estivo. Per San Valentino le rose arrivano tutte dall’ estero. L’Italia è concorrenziale solo a partire da aprile.

L’Italia esporta fiori per 147 milioni di euro, ma acquista rose dall’ Olanda per circa 352 milioni di euro l’anno. Ma chi compra questi fiori? In gran parte grossisti ed esportatori che li rivendono ad altri grossisti o ai dettaglianti. L’incremento di prezzo è di circa il 15% per ogni passaggio.

Passando per le aste olandesi, i fiori perdono completamente la loro identità, per cui alla fine non si sa né il nome varietale (se presente), né il luogo di produzione, né se il fiore sia dotato della certificazione fair trade. Tutto deve essere fatto in fretta, poiché i fiori perdono 1/5 del loro valore ogni giorno che passa. La mimosa è il fiore che in assoluto acquista e perde valore più rapidamente, in occasione della festa della donna. Viene raccolta ai primi di febbraio e rimane in cella fino a marzo. L’Italia è il quinto paese esportatore di fiori del mondo, dopo Olanda, Colombia, Ecuador e Kenya. I fiori si vendono perlopiù in Europa, molto importante è la produzione di fronde, che può essere effettuata senza il ricorso a serre e riscaldamento. Una delle produzioni principali dell’ Italia è quella di Anthurium, per la quale non è seconda neanche all’Olanda.

Sudamerica e altro
Se le condizioni di lavoro sono dure in Africa, forse sono ancora peggiori in Sudamerica. Oltre a questo si aggiungono problemi di ecosostenibilità ambientale. La Colombia è il secondo esportatore mondiale di fiori recisi dopo l’Olanda. L’80% del mercato sudamericano è costituito dagli Stati Uniti e dal Canada. Il salario degli operai copre appena la metà delle necessità di una famiglia mediamente numerosa. Come in Africa, la costituzione da parte degli operai in associazioni e sindacati è vietata dalle multinazionali, e chi vi si associa entra in una lista nera e perde il posto, complici i sindacati compiacenti. Le ditte non garantiscono la sicurezza sul posto di lavoro, e le malattie polmonari e respiratorie riscontrate sono in aumento. Alcuni pesticidi sono altamente tossici per l’uomo ed estremamente inquinanti per l’ ambiente, inoltre il regolamento doganale degli Stati Uniti prevede che i fiori importati siano sì privi di insetti, ma non di agenti chimici pericolosi.

L’Ecuador è il secondo esportatore di rose in Olanda, dopo il Kenya. Le rose ecuadoriane sono considerate migliori di quelle colombiane e un terzo della produzione annuale viene esaurito nel solo giorno di San Valentino. Il salario minimo di un lavoratore ecuadoriano è di circa 150 dollari al mese. Gli straordinari non vengono pagati e i lavoratori sono licenziati con facilità, specie le donne in maternità. Le donne sono oggetto di molestie e violenze sessuali da parte di capireparto. Più della metà delle donne riceve abusi di qualche tipo, e la percentuale sale al 66% tra le donne giovani. Purtroppo solo il 5% delle violenze sul lavoro vengono denunciate alle autorità. L’Etiopia è la nuova frontiera per le multinazionali del commercio dei fiori. Anche se le condizioni climatiche sono meno favorevoli che in Kenya (piove troppo!), la manodopera è a bassissimi costi e il governo etiope ha previsto un programma di detassazione decennale per le aziende che aprono piantagioni floricole sul territorio nazionale. Tra queste c’è anche la Sher Agencies, il più grande produttore di rose al mondo. Anche qui non mancano i problemi di carattere ecologico, oltre alla consumo d’acqua c’ è l’inquinamento della falda acquifera e dell’aria dovuto ai pesticidi, inoltre gli scarti di lavorazione, trattati con sostanze antiparassitarie e gettati in campagna, hanno provocato la morte di parecchio bestiame.

L’Uganda ha un clima particolarmente favorevole alla produzione di rose, oltre al bassissimo costo della terra e della manodopera. Secondo le statistiche il 60% delle rose vendute in Europa proviene dall’Uganda.

La Tanzania è una “matricola” nell’esportazione di fiori recisi. E’ il primo produttore non europeo di crisantemi. I controlli sono praticamente inesistenti. Anche il Sudafrica produce fiori da taglio, ma a differenza di altre regioni africane, la produzione è destinata al mercato interno, poiché il Sudafrica è uno dei paesi economicamente più sviluppati del continente africano, e il consumo interno è alto.

Sullo sfondo di tutto ciò si staglia il colosso cinese, che è il maggiore produttore di fiori e piante di tutto il mondo: possiede un terzo del territorio mondiale destinato alla coltivazione dei fiori da taglio. Tuttavia non è tra i primi 15 paesi esportatori, ed anzi, ne importa dalla Thailandia. Al contrario è tra i maggiori esportatori di fiori essiccati o trattati. Il mercato interno della Cina è in crescita, rispetto ad 8 anni fa il consumo domestico è raddoppiato.

L’India ha una antica tradizione di produzione floricola. Le piccole aziende familiari erano molto diffuse. Oggi l’India è il secondo produttore di fiori dopo la Cina, è al 15° posto tra gli esportatori, ma per metà si tratta di fiori trattati, non freschi.

Molte delle società multinazionali produttrici di fiori si stanno attrezzando, con maggiore o minore serietà, per ottenere le certificazioni fair trade, cioè degli attestati che garantiscano la sicurezza sul posto di lavoro, assistenza sanitaria per gli operai, mantenimento del posto di lavoro per le donne in gravidanza, contributi per l’acquisto di abitazioni dignitose, permesso di riunione ed associazione in sindacati.

Nonostante questa certificazione sia sempre più spesso richiesta dai consumatori occidentali, sono ancora poche le società che abbiano questo marchio. Inoltre molte aziende riescono ad aggirare gli obblighi previsti e fanno pressioni illecite sui sindacati, in modo da riuscire ad ottenere il marchio fair trade senza rinunciare ai loro privilegi. L’Olanda sembra insensibile a questo tipo di certificazione, mentre in Svizzera è praticamente impossibile vendere un fiore non certificato. In Italia non si sa neanche cosa sia, benché molti dei fiori in vendita nei negozi e nei supermercati siano certificati. Anche nell’Unione Europea la condizione di lavoro degli operai è miserevole: in Polonia vecchi e bambini lavorano in magazzini per assemblare composizioni natalizie. In Kenya l’incremento vertiginoso degli introiti del mercato dei fiori ha promosso la detassazione sull’export, attirando sempre maggiori investitori, la maggior parte dei quali non ha alcun interesse economico nel salvaguardare la manodopera e l’ambiente.

Roselline rosa
A questo punto il libro si ferma, lasciando che sia il lettore a trarre le sue conclusioni, alcune delle quali indotte dai dati esposti, altre dalle proprie idee personali in merito all’economia ed al consumo. Espongo brevemente le mie: alcuni governi di paesi sottosviluppati adottano una franchigia per l’export di fiori, altri favoriscono gli investimenti stranieri. Il secondo dei due percorsi può sembrare allettante al momento in quanto comporta occupazione remunerata (poco e male, ma remunerata) in luoghi dove domina la disoccupazione, ma a ben guardare non è una scelta felice. Si tratta dell’antica e diffusa “economia di piantagione”: il paese arretrato mette a disposizione del capitalismo straniero la terra e la manodopera (è il caso del tè, del caffè, delle banane, del petrolio e di decine di altri prodotti).

Relativamente ad esperienze precedenti, la storia mostra risultati fortemente negativi in merito all’economia di piantagione. Invece di generare profitto, questo sistema produce a medio-lungo termine delle gravi crisi economiche e piaghe sociali dolorose. Attualmente si presta a favorire il riciclaggio di danaro sporco, alla circolazione di sostanze stupefacenti, e soprattutto all’ esportazione di armi prodotte dal mercato occidentale in paesi dilaniati da guerre civili, scontri tribali e lotte politiche interne. C’è un solo modo corretto di intervenire nei paesi economicamente arretrati, ed è lo stimolo che la domanda mondiale può esercitare sull’andamento dei prezzi dei prodotti locali. Ciò migliora il livello dei salari, delle condizioni di lavoro e incentiva l’applicazione di nuove tecnologie.

Rose & lavoro. Dal Kenya all’Italia l’incredibile viaggio dei fiori
Di Pietro Raitano e Cristiano Calvi
Edizioni Altreconomia

2 pensieri riguardo “Rose & Lavoro. Dal Kenya all’Italia l’incredibile viaggio dei fiori

  1. Guarda Lidia, questo argomento mi tocca direttamente…sai che ho vissuto a Sanremo io? E lo sai che come conseguenza alla globalizzazione e al mercato mondiale bulimico,
    nella provincia di Imperia, ex Riviera dei fiori, ci si è fottuti un’economia intera??? Scusa i toni, ovviamente non ce l’ho con te. Mi incazzo perché non c’è stata valorizzazione del lavoro umano e non c’è tuttora. Oggi la provincia di Imperia è la triste Riviera delle serre fatiscenti che crollano perché si produce ben poco…da un certo punto di vista meglio per l’ambiente perché da bambini facevamo il bagno in un mare “arricchito” dai residui chimici delle coltivazioni…e oggi i primi sparuti coltivatori biologici iniziano a interessarsi ad una produzione florovivaistica più sostenibile oltre che a quella dei cavoli e delle cipolle. Ma hai presente i costi? Insostenibile se paragonato alle rose Kenyote. Praticamente per ricchi punto! E mica per tutti i ricchi…solo per quelli che hanno interesse e coscienza di come si può recuperare e preservare un territorio. Uà Lidia! Che follia!

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