Il corpo ideale nel mondo della propaganda americana

L’estenuante lotta per la dignità fisica in un mondo che obbliga a rispecchiarci nei modelli di bellezza proposti dal cinema

Illustrazione interna del mio breve romanzo “La piccola estate”.

Anche a voler essere ciechi, andando a mare ci si accorge di quanto grande sia la differenza tra corpo e corpo. L’occhio è obbligato a soffermarsi su forme, dimensioni, colori. Quale più bianco, quale più marroncino, quale più lungo, più corto, quale più grasso o magro. Come i fiori in una aiola, non c’è corpo uguale all’altro.

In spiaggia l’occhio palleggia tra i gruppetti, le famiglie, i colori dei costumi. Se c’è poca gente, a volte sento l’angoscia delle ragazze italiane che inseguono l’ideale di corpo nordico, alto, solido, statuario. La sento questa angoscia come una nube bassa e densa che avvolge tutto. Penso alle innumerevoli ragazze dalle forme naturalmente abbondanti, che si sono rovinate il metabolismo per sempre. Per sempre. Per sempre.

Le figlie delle donne ucraine e polacche, che trent’anni fa sono venute a fare le badanti e le pulizie, rispecchiano perfettamente l’ideale nordico. Si atteggiano con malcelata superiorità. L’ideale di bellezza femminile si è sviluppato attorno al loro fisico, non al nostro: è ovvio che si sentano “superiori”. L’idea della Herrenrasse è molto radicata e molto più intensa di quanto non possiamo neanche immaginare.

Io forse non faccio testo: per me se mi comparisse davanti una ragazza zebrata di giallo e blu, con le antenne e gli occhi da mosca, al massimo le chiederei se le piace il clima della Terra.

Nei decenni ho però imparato che il razzismo non è solo in chi guarda, ma anche in chi viene guardato. Gli ideali di corpo bello, di corpo femminile, di bellezza della donna, sono tutti derivati dal razzismo. Sono frutto di una visione profondamente razzista del mondo. Il razzismo è così profondo che qussi non è più neanche visibile: affonda nelle tenebre, ma esiste.

Le donne della mia generazione sono diventate bulimiche e si sono rovinate la vita perche gli americani sono razzisti. E anche le millennial e le zoomer non sono libere dal razzismo interiorizzato, che si trasforma nel biasimo per il corpo delle sorelle. Cazzo, è disgustoso! leggi come funziona: gli americani sono razzisti -> gli americani ci hanno colonizzati culturalmente con il cinema -> abbiamo imparato e interiorizzato i modelli di bellezza americana -> odiamo noi stesse per non essere geneticamente adeguate -> odiamo quelle che lo sono -> odiamo quelle che non lo sono. Odiamo, disprezziamo.

No, sorelle, non va. Ma voi avete mai provato a coprire un tavolo tondo con una tovaglia rettangolare? La cosa “da ridere” (e da piangere) e che a volte, a prezzo di sacrifici immensi, queste tovaglie vengono tirate e aggiustate in modo da rispettare quella forma estranea. Ah, noi donne siamo meravigliose, anche nei disastri!

Sorella, se sei a dieta perché vuoi assomigliare a Margot Robbie, ricordati che la tua dieta è frutto di un pensiero razzista di un popolo che non è neanche il tuo. Vedi un po’ tu.

Nuova parola: dopo il giardinaccio, il giardicazzo.

Vengo a voi, dopo anni di silenzio, a dirvi che la lista di parole giardinicole di mio conio si è arricchita di un nuovo termine: giardicazzo.

Ho qualche volta raccontato (qui , e anche QUI), le nuove parole che ho inventato nel corso della mia attività di giornalista di giardini e giardinaggio. Data la penuria nominis della lingua italiana in questo settore, occorre rimodellare o coniare ex novo, cosa che tra l’altro a me viene sempre assai semplice.

In questo caso, giardicazzo, non è un termine nuovissimo: già Ippolito Pizzetti scriveva in Pollice verde (1986), del “giardinaccio all’italiana”. Il “giardinaccio” inteso da Pizzetti non è altro che un insieme di esiti accomunati dalla bruttezza, mentre il giardicazzo si configura come una serie di procedure, una praxis, che ha preso corpo con il primato di internet come fonte più rilevante di informazioni e oppurtunità di acquisto, e la nascita della figura dell’influencer come venditore specializzato in un determinato settore di cui conosce poco o nulla, ma in cui emerge grazie alle capacità di vendita. L’influencer è l’esatto opposto dello specialista: sono modelli totalmente antipodali e mai sovrapponibili.

È dunque il giardicazzo a determinare il giardinaccio, non viceversa. Il giardicazzo si maniesta in una serie di azioni, proposte e idee che non hanno nulla a che vedere con il giardino e ciò che vi ruota attorno, ma aventi come focus unico la vendita, dunque un introito per l’influencer. Questo introito è il diretto risultato di una spesa fatta dal pubblico. Se il pubblico non effettuasse alcuna spesa, l’influencer non otterrebbe nulla. La natura del giardicazzo è sempre un’uscita finanziaria da parte di chi sta usufruendo quell’insieme di idee e azioni attorno al giardino, che conducono direttamente al giardinaccio.

Se il giardinaccio è spesso il frutto di un risparmio, quindi un minore esborso di danaro, il giardicazzo è sempre legato a una transazione finanziaria unidirezionale, a una spesa. La natura del giardicazzo è quindi finaziaria, non giardinicola. Il giardicazzo ha un solo scopo: vendere. Vendere qualsiasi cosa: il terriccio, le piante, il concime, ma anche tutto ciò che è collocabile in giardino, arredamento, abbigliamento per il giardino. Il giardicazzo non vende solo “cose”, vende anche azioni e idee che hanno come scopo primario abbassare e omologare le richieste delle persone nei confronti del giardino e ciò che lo riguarda, in modo da poter meglio controllare i suggerimenti di vendita.

Questo sistema si applica a tutto, non solo al giardino. Nel giardino diventa più visibile perché la componente tecnica richiesta è molto elevata (il giardinaggio non è facile, toglietevelo dalla testa, e non è per tutti), quindi la compressione dell’offerta culturale diventa assai visibile e molto distorcente, quindi facilmente puntualizzabile.

Per ridurre la diversificazione di richieste, convogliare gli acquisti verso un determinato obbiettivo (lo sponsor del momento, il prodotto di punta, la promozione, l’offerta, ecc.) è assolutamente fondamentale creare una bassissima aspettativa del pubblico. Se la proposta culturale è “un bel giardino”, la richiesta di tempo e danaro sarà altissima, direi incalcolabile. L’attesa sarà pari alla cifra impiegata e la delusione potrebbe essere cocente.

Se la proposta culturale è un “giardino di tipo urbano” (qui entrano in campo le etichette culturali e tecniche, tipiche della manualistica, che creano degli insiemi estetici a cui mirare o da cui fuggire), la richiesta economica sarà minore, così l’attesa, così la delusione.

Se la proposta culturale è “un giardino familiare a basso mantenimento”, la spesa sarà ancora minore. E via dicendo. Se l’attesa non è alta, è più difficile rimanerci male. Il peggio che ci si può aspettare è una cattiva recensione o un commento negativo che finisce facilmente nel cestino, una controversia PayPal, ammesso che i termini non siano scaduti.

Ma la vera cazzimma del giardicazzo è la capacità far pensare che un brutto giardino sia bello, e venderlo come tale. Il giardino, la sua progettazione, e tutto ciò che gli sta attorno, quindi piante, terriccio, attrezzi, cura della persona, ecc. Roba brutta a prezzi modici. Roba brutta di cui l’infuencer crea il cosiddetto “bisogno” facendola passare per bella. L’influencer vende anche necessità di modifiche facendo leva su sempre presenti disfunzionalità del giardino, imprevedibilità dovuta a fattori esterni (clima, rumori, animali, ecc.), sulla dichiarazione dello status economico e sociale o sull’appagamento spirituale che il giardino dà.

Un brutto giardino costa poco, diciamocelo. Non è difficile ottenerlo. Un brutto giardino non si nega a nessuno, via! Progettare un brutto giardino è semplice e veloce, ma il cliente paga in buona fede, immaginando di acquistare un bel progetto. Piante malandate o mal tenute costano poco, il cattivo gusto è ancora a buon mercato, se acquistato all’ingrosso, ma al dettaglio costa caro perché lo si fa passare per buon gusto. Insomma, il giardicazzo vi vende una cosa brutta, un brutto giardino, ma ve lo fa pagare poco.

L’influencer adotta una vera e propria strategia, quella di presentare sempre, mese dopo mese, anno dopo anno, attività semplicissime e ad alta percentuale di successo. Abbassare le competenze orticole necessarie per eseguire le azioni proposte è un modo per far otterenre un successo anche al pubblico con zero esperienza. Anche qui si ripropone la dinamica delle attese: un’operazione colturale appena elementare viene data come complessa o come laboriosa da scoprire o inventare, illudendo il pubblico sulle proprie reali capacità e mistificando l’essenza di una ricerca di apprendimento che è una costante delle passioni e degli hobby. Un’alta percentuale di successo garantisce una fidelizzazione immediata e una maggiore interazione del pubblico. Proporre tecniche complesse è invece scoraggiante per la massa di entry-level che fruisce maggiormente dei contenuti degli influencer e porterebbe a lamentele o a commenti polemici. Nessun influencer, mai, proporrà tecniche che non siano elementari, al limite dell’analfabetismo funzionale. È una regola così importante che ne fanno un principio di vita, tale che se nel corso della loro attività hanno imparato qualcosa, la disimparano velocemente. Nei cosiddetti “corsi avanzati” non c’è nulla, qualora ci fosse stata, sarebbe svanita.

L’assenza di problemi complessi conduce a un interessante risvolto, poiché gli ambiti dove questi vengono analizzati diventano in breve piccoli potentati, in genere dominati da uomini: gruppi Facebook, redazioni specializzate, vivai, tecnic*, architett*, paesaggist* e via dicendo. L’influencer può anche collaborare con questi piccoli potentati in un reciproco scambio di favori. L’ingombrante presenza dell’influencer assottiglia la possibilità di avviare un discorso culturale al di fuori delle sedi tradizionalmente destinate a farlo, come riviste e quotidiani, salotti letterari, garden club, ecc., rendendo elitario il giardino e ciò che gli gravita attorno. Mentre il versante tecnico e pratico è controllato da aziende, vivai e professionist* che -per numerose e varie ragioni- marginalizzano l’interazione della singola persona. Di fatto, la figura dell’influencer del giardino ha contribuito a cancellare l’amatorialità e lo spirito di intraprendenza, l’autodidattica e la sperimentazione individuale, doti molto lodate nella storia del giardino dal 1800 in poi, caratterisiche del giardino novecentesco.

E del giardino, oggi, non rimane che il cazzo.

ll giardino del 2000 sarà sostenibile e lucente, sarà veloce e silenzioso, sarà un giardino delicato. Avrà lo scarico calibrato e un odore che non inquina.

Quando il “paesaggismo” diventa demagogia, abdicando alla sua funzione primaria, diventa ridicolo, così come chi lo “professa” in quasi-odor-di-santità. Accondiscendere alle mode non giova altro che alle tasche di chi lo fa, non certo alla salute del globo, né alla bellezza dei giardini o delle installazioni.
Il “giardino sostenibile” è un ossimoro. Da sempre sappiamo (almeno chi di filosofia estetica si è letto qualche libro) che il giardino è l’esatto opposto della Natura. Non a caso Pizzetti scrisse che il vero luogo dei giardini è la città.
Questo non avalla il vebleniano consumo vistoso o lo sciupìo, e men che meno l’inquinamento o il comportamento predatoriao nei confronti dell’ecosistema.
Ma non raccontiamoci favole: il giardino non sarà mai “a zero manutenzione”, a “impatto zero”, “a irrigazione zero”.
Zero è il numero dei neuroni arttivi in queste speculazioni demagogiche rivolte a un pubblico pigro e culturalmente sciatto.
Tutto ciò ha un nome, si chiama “greenwashing

On air la carogna mattutina con scialletto da nonna.
#mbuti!

Un giardino Pandora (J’accuse#2)

Qualche tempo fa ho intercettato l’ennesima discussione facebucchiana sulla pubblicità Pandora, fatta non da femministe o maschi Neanderthal, ma da giardinieri.
Lì per lì mi è venuto da ridere.
Mi sono chiesta: ma possibile che manco i giardinieri si siano resi conto di quanto è brutta? E dire che il giardiniere dovrebbe avere una stretta frequentazione con l’Estetica (a quelli che confondono l’Estetica con l’estetista consiglio di passare ad altro blog).
Dato che oltre a una occasionale e non sempre riuscita funzione aggregativa e sociale, i giardini non hanno altro scopo che essere belli (funzione estetica -Mukarovsky), i giardinieri dovrebbero essere in grado di percepire il Bello, anche se la sua definizione non è univoca. E altrettanto dovrebbero essere in grado di riconoscere il Brutto, e visto che la storia della Filosofia ha evidenziato nel corso dei secoli un profondo legame tra l’Estetica e l’Etica, anche l’etico e il non etico. In breve, l’Estetica ci aiuta a comprendere quale è la parte più umana e preziosa di noi, come individui e come specie, e quale dovrebbe essere superata.

La mia sorpresa nel nel leggere commenti del tipo “Pandora libera la filippina che è in te” , “La pubblicità è riuscita nel suo scopo, cioè far parlare di sé” o ancora “bisogna prendere le cose con leggerezza”.
Altri non me ne ricordo ma erano tutti sullo stesso tenore: indifferenza, qualunquismo,abdicazione al senso critico, stupidità o conformismo spregiudicato.

E dargli fuoco?

Sulla filippina che è in te, finalmente liberata dal gioiello Pandora, taccio poiché si tratta di razzismo puro e semplice (pare che vada ancora di moda, specie al Nord).
Che lo scopo delle pubblicità sia far parlare di sé è un pleonasmo, ma non a scapito di qualcuno. La pubblicità non deve essere offensiva o denigratoria, per due ragioni: la prima è che denigrare, sminuire, svilire, decontestualizzare una categoria sociale riposizionandola a seconda delle necessità del brand è semplicemente sbagliato, antietico, e anche brutto. Sì, brutto.
La seconda ragione è quella categoria di persone potrebbe essere indotta a non acquistare più quel marchio o invitare le altre persone a non acquistarlo: questo non non è un buon affare per quella marca.
I più matusa -qui- ricorderanno la protesta dei veterinari contro una pubblicità di non ricordo quale liquore, un amaro, che in maniera “incidentale” li ritraeva come persone amanti del buon bere. I veterinari s’incazzarono un bel po’, e quella marca dovette ritirare lo spot per buttarla poi su un prezioso vaso che doveva essere salvato con un aereo, o qualcosa del genere.
Nessuno si è scandalizzato per la protesta dei vet, né ci ha riso sopra, né ha invitato questi professionisti (per il solito molto ricchi e assai corporativi), a “prenderla con leggerezza” o gli ha mai detto “e fattela ‘na risata, doc!”, specie se il suo cane stava sul tavolo operatorio con una zampa in attesa del gesso.
Delle volte mi viene in mente Lisistrata e sospiro.

Quindi per me chi dice che “Pandora ha centrato il suo scopo” è afflitto da conformismo ed è così biscottato dalla società da non riuscire a distinguere il Brutto dal Bello, il Buono dal Giusto, il Vero dal Falso.

Perché non te lo compri? Costa solo venti dollari!

A chi sostiene “prendila con leggerezza” o invita alla risata, rivolgo una domanda: perché sulle bacheche di tanti e tanti giardinieri in questi giorni ci sono dotte e infinite elucubrazioni su “Spelacchio”? Perché ve la prendete se abbattono gli alberi nelle vostre città? Siete sempre a lamentarvi di questo o quello (condividendo, non sia mai scrivendo un pensiero proprio o FACENDO qualcosa), tutti a dire “ah, le fioriture sono impazzite a causa del clima” o “certo, questo accade se le amministrazioni mettono degli stupidi a potare gli alberi”, e poi però -quando la cosa non tocca voi e il vostro giardinetto- tutti a dire “E prendila con leggerezza”.

E che giardinaggio vuoi fare così, core bello? Ma dove vuoi andare? Ti fermi giusto alle rose, tutte ammucchiate perché “di più è più bello”, alle fioriture in massa, alle cazzatelle shabby chic, al romanticismo senza interpretazione. In te non si alzerà mai l’ala della poesia, non avrai mai il coraggio di fare il passo del leone, e il mondo finirà alla siepe del tuo giardino: ciò che accade fuori non ti turba, non ti interessa e non ti disturba. Finché avrai acqua abbondante per irrigare, i soldi per comprare le rose a radice nuda, il diserbante e l’antiparassitario al supermarket, per te andrà bene tutto. E rimanici nel tuo “tutto”.

Giardiniere Pandora, tu sei un giardiniere Kitsch, prendine atto.
Ti è piaciuta la pubblicità Pandora? E beccati un giardino BRUTTO.

Ecco i giardini che ti meriti, giardiniere Pandora: li ho scelti col cuore pensando a te.

Il professore che non leggeva Marina Abramovic

E adesso che ho preso l’abbrivio e mi sta crescendo dentro una sana “ira del gusto” e mi sento decisa a mettere tutto nero su bianco, vi dico anche questa.
Alla presentazione di un libro che considero l’epitome del crollo della cultura cosiddetta “elevata” in Italia, ebbi l’occasione di fare qualche domanda all’autore, un professore universitario blockbuster e pieno di sé quanto un uovo bollito. Si era poco prima parlato di quanto il livello del gusto si sia abbassato in questi ultimi cinque-dieci anni, e di come ciò che era inaccettabile sia stato promosso, passando nel corso degli anni da brutto a medio, da medio a bello, da decente a capolavoro.
Il professore concordava, affiancando alla mia domanda delle strenue riprovazioni alla massificazione del gusto, all’infantilizzazione del pubblico, alla mercificazione della cultura, dando delle spiegazioni precise e circostanziate.
A fine presentazione l’ho inseguito per chiedergli un po’ di cose, rubando tempo prezioso per il check-in. Alla mia ultima domanda “Che ne pensa di Marina Abramovic?”, il professore mi risponde, sudato, scocciato e pallido: “Mi spiace, ma non conosco questo autore, non ho mai letto nessuno dei suoi libri”.

#ciaone

Marina Abramovic«: The Artist Is Present Photo by Marco Anelli. © 2010 Marina Abramovic«
Marina Abramovic«: The Artist Is Present Photo by Marco Anelli. © 2010 Marina Abramovic«

Fahrenheit Radio3 l’ha cannata sul giardinaggio (come al solito)

Seguo Fahrenheit solo occasionalmente e sempre un po’ a smozzichi, tra una commissione in farmacia e una corsa in redazione. Non ne sono entuasiasta, ma quando lo trovo, lo ascolto volentieri. A volte è molto interessante, altre si adagia su una cultura superficiale e un tantinello commerciale.
Oggi veniva presentato un libro: La ladra di piante di Daniela Amenta, un’occasione per parlare di giardini e giardinaggio, che tirano sempre da aprile a settembre, per cadere nel profondo oblio mediatico in autunno e in inverno (quando il vero giardiniere lavora davvero).
Mi cade l’orecchio su una frase: “Le piante sono inanimate”.
Credo di essere sobbalzata sul sedile dell’auto e di aver per errore azionato i tergicristalli.

Se per “inanimato” vogliamo intendere “privo di autocoscienza, di intelletto, di ragione, di autodeterminazione e di organizzazione sociale”, in breve “esseri non senzienti”, posso anche essere d’accordo. Ma le piante sono ben lontane dall’esssere inanimate se con il termine “anima” si intende l’antico concetto greco, cioè “anemos”, spirito vitale, vento, movimento.
L’anemometro è lo strumento che usiamo per misurare la velocità del vento, e i “cartoni animati” sono tali perché si muovono. Gli animali vengono detti tali poiché ritenuti istintivi, in grado solo di muovere il corpo, spostarsi, quasi senza volontà.
Ovviamente anche un ragazzino appassionato di biologia sa che le piante si muovono, attraverso viticci, rami, semi e propaggini, proprio come se camminassero con i loro stessi piedi, non diversamente da quanto sono in grado di fare gli Ent di Tolkien.
kudzu+15
Pueraria lobata o Kudzu, tanto per fare un esempio.

Le piante possiedono una quantità incredibile di modi per reagire e interpretare i segnali esterni, sono in grado di esercitare una sorta di comunicazione tra loro, attraverso segnali biochimici. Non sono senzienti, ma sono esseri viventi. La parola “inanimato” non calza affatto e non voglio neanche provare a capire come possa venire in testa quando si parla di piante, di Natura.
Il fatto è che le piante si muovono più lentamente degli Esseri Umani, e qui “il deficit di attenzione del mondo moderno” colpisce ancora, facendo pronunciare a Lipperini questa frase rivelatrice di una superficialità esplosiva.

Andiamo avanti. A ridosso delle piante inanimate mi tocca sentire la SOLITASOLFA della botanica.
Il giardinaggio e la botanica sono due cose completamente differenti: basta il dizionario, vi assicuro.
Il giardinaggio è la pratica della coltivazione delle piante e di disporle secondo uno schema gradevole.
La botanica è una scienza finalizzata alla classificazione delle piante in famiglie, generi, specie, ecc.
Personalmente non mi è mai arrivata notizia che Linneo fosse un abile giardiniere, per contro John Bartram, che aveva scarse o nulle conoscenze di botanica, era un coltivatore formidabile.
Solo chi non conosce le immense sfide del giardinaggio, e quelle ancora più complesse della creazione di un giardino, può immaginare di nobilitarlo chiamandolo “botanica”, poiché il giardinaggio contiene la botanica, ma non viceversa.
Non posso addentrarmi nella distinzione tra giardinaggio e kepopoiesi per non stancare il lettore.

Proseguiamo oltre: se la botanica si insegna alle università, il giardinaggio non c’è scuola che lo insegni.
Gli istituti di agronomia e le Facoltà universitarie sfornano tecnici che considerano i vegetali come una merce: pomodori in scatola e fiori recisi. I pochi corsi di tecniche a scopo ornamentale sono del tutto insufficienti, al di sotto di qualsiasi manuale corrente. Ne consegue che i dottori in Agronomia sono in genere ignoranti su ogni cosa che riguarda il giardino ornamentale, ma avendo appeso al muro un titolo universitario, si comportano con arroganza e disprezzo. I pochi agronomi dotati di capacità creativa ed estetica, l’avevano anche prima di mettere piede nelle aule universitarie.

I corsi di paesaggismo e architettura del paesaggio sono praticamente ridicoli e comunque vincolati alle Facoltà di Architettura e Ingegneria.

In Italia un bravo giardiniere s’è fatto sempre e comunque da sé, attraverso lo studio continuo e la pratica indefessa e MAI attraverso un solo ed esclusivo percorso scolastico. MAI.

Concludendo: questa gran confusione tra giardinaggio, creazione di un giardino, botanica e agronomia è tipica dell’Italia ignorante in ogni cosa che riguardi la natura e la biologia.

Se uno confondesse il greco col latino, cosa pensereste?

Io penserei che s’è giocato ogni credibilità.

La perduta poesia di una foglia rossa

vermont_pinterestD’autunno e d’inverno rammento spesso quel che rappresentava per me, ormai tanti anni fa, una foglia rossa.
Una rarità, un tesoro. Si raccoglieva e si custodiva tra le pagine di un libro: un libro grande, adeguato, come il dizionario o un volume dell’enciclopedia. Se era piccola si poteva racchiudere tra due fogli di carta assorbente e infilare in un romanzo già finito, amato, dimenticarsene e poi ritrovarla dopo anni o lustri. Continua a leggere “La perduta poesia di una foglia rossa”

Travolti in un turbine di rose e politica

Come anche il lettore casuale avrà capito, io viaggio poco. Non che viaggiare non mi piaccia, ma è che qualsiasi punto d’italia è diventato praticamente impossibile da raggiungere vivendo sul “litorale basso ionico”.
A tal proposito sono maestra di valige ultraleggere, che tornano ottime quando si deve correre come dei pazzi forsennati tra i sottopassi delle stazioni, fare code interminabili alle biglietterie, camminare per ore nelle città aspettando l’orario della partenza, perché i treni per il Sud partono solo di notte, come quelli dei carcerati. Continua a leggere “Travolti in un turbine di rose e politica”

XXIV Premio Carlo Scarpa per il giardino

Giardino di Skrudur
Giardino di Skrudur
La Giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, promosso e organizzato da Fondazione Benetton Studi Ricerche, ha deciso all’unanimità di dedicare la XXIV edizione all’orto-giardino Skrudur nella regione nord occidentale dell’Islanda.

La campagna culturale che ha avuto inizio pubblico a Milano con la conferenza stampa del 26 marzo 2013 trova il suo apice a Treviso nelle giornate di venerdì 10 e di sabato 11 maggio, in un incontro con la delegazione Islandese, nella pubbli­cazione del volume dedicato al luogo designato, nell’apertura di un’esposizione di materiali documentari che rimarrà aperta fino a giugno, nel seminario di riflessioni e nella cerimonia pubblica di consegna del Premio 2013.

Skrudur-muro e cancelloSkrúður, Núpur, Dýrafjörður, Islanda

Motivazione della giuria
 

Skrúður (Skrudur) è un orto riposto sulla riva di uno dei fiordi che solcano la regione nord-occidentale dell’Islanda, a pochi chilometri dal circolo polare artico. Adagiato su un decli­vio che guarda a sud-ovest verso la lingua d’acqua del Dýrafjörður, è circondato alle spalle dalla cortina solenne di montagne dai fianchi mossi dall’erosione gla­ciale e a valle da un terreno brullo che digrada verso la riva del fiordo.

Sigtryggur e il fratello Kristinn
Sigtryggur e il fratello Kristinn
Con la scuola, la chiesa e la fattoria di Núpur compone un luogo nel quale una comunità ha inaugurato all’inizio del xx secolo un progetto che in questa terra e in questo luogo si presenta come sfida a condizioni ambientali estreme e a pressanti istanze di miglioramento sociale: coltivare la terra e aver cura di un processo indirizzato alla conoscenza, al benes­sere, all’educazione, all’elevazione sociale.
Aperto nel 1909, l’orto-giardino nasce dalle mani del reverendo Sigtryggur Guðlaugsson, che pochi anni prima, insieme al fratello Kristinn, qui aveva avviato un programma di educazione volto al riscatto da condizioni agricole arretrate, ispirato alle idee del pastore danese Nikolai Frederik Severin Grundtvig (1783-1872) diffuse anche in Islanda. È infatti nel solco dell’intensa attività di questa figura di pedagogo già incontrata a Kongenshus Mindepark, luogo danese al quale è dedicato il Premio Carlo Scarpa 2004, che si radica, soprattutto nel mondo contadino, una coscienza del paesaggio ispirata all’elevazione sociale e al sentimento nazionale.

02_LL-FBSR_Skrudur_il muroLe modalità con le quali si costruisce e vive quest’orto sono quelle consuete all’operare in condizioni di particolare asperità climatica: tracciare un perimetro, dissodare il suolo ed ele­vare un recinto di protezione, educare e convogliare in questo piccolo mondo elementi utili (terra, acqua, piante) che al di là di questo fragile confine verrebbero travolti dalle forze della natura. Gli strumenti sono quelli di un esperimento coraggioso, che rinnova ostinata­mente i suoi gesti e si spinge in un mondo avverso con la forza di un progetto educativo che parte dalla coltivazione, di piante e di giovani contadini.

La figura semplice di questo recinto esprime in forma limpida un gesto di civiltà che, con la misura astratta della sua figura, ci segnala la presenza di un mondo, l’Islanda, nel quale la natura assume una forza assoluta: nello spazio dove si manifesta con forme di straordinaria potenza, nel tempo attraverso il quale le stesse forme cambiano incessantemente.

In una terra dell’estremo nord, forgiata da rivolgimenti tumultuosi e da vaste manifesta­zioni della natura, imbattersi in un recinto esile, introvabile, sopravvissuto a più di un secolo di storia, può sembrare il gesto di affezione di chi, partito per un paese lontano, cerca ancora di riconoscersi, nonostante tutto, nell’immagine familiare di un giardino che richiama la propria storia, le proprie coordinate di partenza.

03_MM-FBSR_Skrudur-il perimetro

Il recinto di Skrudur, infatti, presenta in forme rudimentali e incerte, molti richiami a un ordine che appartiene al giardino tradizionale. Ma il principio in virtù del quale esso s’in­sedia è assai più forte dei modesti mezzi espressivi con i quali si manifesta al suo interno.

Skrudur è in sé un presidio e un crogiuolo: il suo recinto descrive una condizione che cerca un punto di contatto tra due mondi, quello della confidenza e della fiducia nel colti­vare la terra, e quello dello sguardo cosciente sulla vastità di luoghi che accompagnano la stessa esperienza umana.

01_LL-FBSR_Skrudur_orto-giardino-acquaLa figura netta dell’orto di Skrudur appare e si perde in un ambiente e in una cultura che sviluppa forme dell’abitare oscillanti tra il radicamento nella terra, con le tradizionali co­struzioni di torba e pietra, e un’architettura che evolve all’insegna di una condizione incerta dovuta alla scarsità di materiali. Come il legno, ricavato dai tronchi che approdano sulle rive, portati da correnti marine che da oriente vanno verso occidente lungo il circolo polare articolo. Le forme adottate sono soggette a una costante provvisorietà, a pratiche di inse­diamento che si misurano con la natura di una terra in costante cambiamento. La terra, il fuoco, l’acqua nel corso delle continue eruzioni sconvolgono il volto del territorio, ne ridi­segnano i confini e perfino gli orizzonti, quando il cielo ne trasporta lontano la massa delle scorie.

09_MM-FBSR_Skrudur

La geologia è la chiave di lettura di questa terra e del suo paesaggio. Essa racconta il rap­porto tra natura e cultura, sta alla base di una presenza umana che oscilla tra la fascia co­stiera, dove i radi insediamenti umani si sviluppano tra il mare e i pascoli, e l’ambiente più avverso dei vulcani, dei ghiacciai, dei deserti e del mondo sotterraneo.

08_LL-FBSR_Skrudur_dal cancello secondarioIn questa terra in sé mutevole e mobile, collocata com’è sulla linea di congiunzione di due placche terrestri, la civiltà islandese nel corso della sua storia ha saputo dare un nome a ogni segno che compone la forma e la vita dei luoghi, siano essi ghiacciai o vulcani, manifesta­zioni della geotermia o cascate di ogni dimensione, rilievi orografici o faglie geologiche, e in questo modo è riuscita a conoscere il proprio paesaggio senza pretendere che fossero gli artifici dell’uomo a scandirne i punti significativi.
Þingvellir, il luogo dell’assemblea parla­mentare più antica del mondo (930-1798), con la sua natura geologica e la sua storia è l’espressione più eloquente di questa condizione di conoscenza e cultura politica, di ade­sione tra un luogo e la coscienza collettiva.
03_LL-FBSR_Skrudur_orto e alberi

04_LL-FBSR_Skrudur_parte alta

Nel panorama dei molti interrogativi che qui si rinnovano sul rapporto tra uomo e natura, tutti centrati sulla misura e la forza di fenomeni (mari sterminati, forze geotermiche, potenza delle acque) che oscillano tra una cultura del paesaggio sedimentata e l’attitudine alla ra­pina, Skrudur è un presidio che ci ricorda una delle possibili forme di convivenza tra queste due condizioni opposte, ricorrenti nel mondo contemporaneo. Non certo per il fragile e mo­desto componimento di forme che lo disegnano, ma per la lezione aperta di civiltà che qui, raccolta in un semplice recinto, si condensa.

Nella terra delle “pietre che parlano”, Skrudur è un diverso modo di dare un nome a un luogo, e comunque proiettare nel futuro il valore dell’educare, passo imprescindibile di ogni processo che sviluppa una confidenza tra l’uomo e il suo luogo di vita.

07_HB-FBSR_Skrudur-asse centraleSkrudur è dunque il nucleo denso intorno al quale gravita un insieme di modi pratici e di significati simbolici universali del dialogo con la natura, un luogo di apprendimento e spe­rimentazione che nei suoi primi quarant’anni di vita (1909-1949) trascorsi accanto alla scuola, grazie allo sguardo costante di Sigtryggur Guðlaugsson e di sua moglie Hjaltlina di­venta un giardino. E continua, oggi, a rinnovarsi, grazie alle cure di un gruppo di uomini e donne che in anni più recenti se n’è fatto carico, lo ha sottratto all’abbandono per restituirlo nel 1996 alle visite e alla coltivazione.

A queste donne e a questi uomini la Giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino si rivolge con un sentimento di profonda riconoscenza per l’alto valore maieutico della loro esperienza, e consegna il sigillo dell’impegno e del riconoscimento al loro coordi­natore, Brynjólfur Jónsson, presidente della Framkvæmdasjóður Skrúðs.

05_Skrudur_Sigtryggur e la moglie nei pressi della serra

06_LL-FBSR_Skrudur_asse con fontana

Riferimenti:
Pagina del Premio Carlo Scarpa per il Giardino
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02_PB-FBSR_Skrudur-orto

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Referenze immagini, per gentile concessione del Premio Carlo Scarpa

4_testo di AÔÇôalsteinn Eir-¦ksson

2_calendario edizione 2013

7_luoghi designati 1990-2013

Sigtryggur e la moglie Hjaltlina
Sigtryggur e la moglie Hjaltlina

02_Skrudur_disegno dal diario di Sigtryggur

01_Skrudur_mappa del giardino

06_Skrudur_copertina Sigtryggur

I trascendentali traditi

Claudio Sottocornola in Calabria: mercoledì 8 agosto, alle ore 18:30, presso il Salottino Rosso della Libreria Calliope-Mondadori di Siderno (RC), si terrà la presentazione del suo ultimo libro, I trascendentali traditi (Edizioni Velar),incentrata sula tematica “Il sacro e il popular fra tradizione ed eversione nel tempo del pensiero debole”.

Relatori : Rossella Scherl,scrittrice e Antonio Falcone,giornalista e critico cinematografico.

L’autore converserà inoltre con Antonio Falcone nel corso della trasmissione Sunset Boulevard, lunedì 6 agosto, dalle 15:00 alle 16:00, su Radio Gamma Gioiosa (94,500 – 97,000 MHz FM Stereo, Streaming audio su Internet www.gammagioiosa.net).

Claudio Sottocornola, ormai noto ai media come “filosofo del pop”, nella sua ultima fatica I trascendentali traditi ed. Velar, analizza la crisi del sacro e del suo linguaggio iconico e simbolico per ricercare il significato profondo del fenomeno, formulando al contempo ipotesi di recupero e valorizzazione, a partire dal contesto del pensiero debole e dell’ermeneutica contemporanea, nel tentativo di elaborarne una comprensione flessibile,  liberante e gioiosa. In questo orizzonte, Sottocornola propone un accostamento fra “sacro” e “popular” nel nome di un’affinità dalle origini addirittura evangeliche (gli outsiders amati da Gesù), fra la sensibilità iconica della tradizione e le innumerevoli istanze simboliche del pop(ular), da lui indagato attraverso canzone, pubblicità, cinema e televisione.

Claudio Sottocornola, ordinario di Filosofia e Storia a Bergamo, giornalista e scrittore, ha sempre condotto le sue opere sul sentiero di un personale discorso intellettuale, estremamente coerente e lucido, incentrato sulla filosofia per analizzare ed indagare la realtà, i suoi mutamenti nel costume sociale, riuscendo al contempo ad avvalersi efficacemente di strumenti quali musica (L’appuntamento, tre cd e un dvd, in cui interpreta canzoni italiane e straniere) poesia (Giovinezza…addio. Diario di fine ‘900 in versiNugae, nugellae,lampi, entrambi Edizioni Velar) e immagine (80’s/Eighties/Laudes creaturarumIl giardino di mia madre e altri luoghi) nella loro valenza genuinamente pop, diminutivo di popular come ha sempre tenuto a precisare, aggettivo concretizzato nella sua portata estensiva e non certo riduttiva.

Con la precedente opera in tre volumi, Il pane e i pesci (Edizioni Velar) e il recente I trascendentali traditi, Sottocornola è riuscito a focalizzare il punto estremo di una ricerca sempre in divenire, volta a recuperare memoria e senso della spiritualità, al di là dell’ormai stanca dicotomia dell’ essere o non essere credenti, spingendoci piuttosto ad interrogarci sulla natura della nostra fede, se questa abbia caratteristiche tali da permetterci di superare il più gretto individualismo.

 

 

 

 

 

 

Da ricordare che dal 31 marzo al 31 luglio di quest’anno è stato reso disponibile in rete, ed è tuttora visualizzabile, (www.claudiosottocornola-claude.com) Working Class, coinvolgente web-concert tematico,  ideato e interpretato dal professore lombardo, cinque percorsi scelti fra le famose lezioni-concerto tenute sul territorio fra  Scuole, Terza Università, Centri Culturali e svariati luoghi della vita quotidiana.

Rappresenta una sua nuova sfida, un “laboratorio” che sfrutta le potenzialità della rete, ribadisce l’eclettismo creativo dell’artefice e certifica  un itinerario di animazione culturale del territorio girato in presa diretta, “on the road”, da amici e spettatori che hanno assistito alle sue performance  artistico-musicali, ma anche storico-filosofiche. E’ la canzone d’autore l’ambito  privilegiato da Sottocornola, che affida alla sua visione ermeneutica del canto e della vocalità la rilettura di celebri brani, decisivi nel fotografare l’evoluzione di usi, costumi, sentimento e linguaggio della società italiana.

I trascendentali traditi
(Claudio Sottocornola, pp.164, Editrice Velar)

Una dedica a Pier Paolo Pasolini e nove brevi conversazioni sui trascendentali, ovvero quei “caratteri che appartengono all’essere in tutta la sua estensione”, secondo la rigorosa definizione di Vanni Rovighi, che delinea con chiarezza la portata di quei concetti, come bene, verità, bellezza, unità che i filosofi medievali predicavano di tutto il reale, nel solco di un ottimismo metafisico culminante nel pensiero di Tommaso d’Aquino, che apre sotto forma di citazione, accanto ad altro autore classico o moderno, ogni capitoletto. Questa è la struttura essenziale de I trascendentali traditi di Claudio Sottocornola, filosofo che utilizza musica, poesia e immagine come strumenti di lavoro privilegiati, e qui si attarda fra le derive del contemporaneo, evocato da città in degrado, corpi alterati e famiglie liquide, ad assaporare tutto l’amaro di una civiltà in declino e di un pensiero sempre più debole, sforzandosi di segnalare nel buio minaccioso che sovrasta e avvolge ogni cosa quel valore o universale che potrebbe insospettire il lettore, specie se scettico e disilluso, ma ben presto lo coinvolge invece in una complicità, quella del viaggio, della ricerca appassionata e della speranza di una non inutile meta. Ciò dipende in gran parte dal rispetto e dalla valorizzazione delle soggettività che questo scritto in forma di pamphlet esprime come sua vocazione più intima e accorata per cui, accanto ad una dimensione quasi apocalittica e veemente, di denuncia e amarezza, ove la biografia quale ermeneutica del vero si fa strumento di comprensione profonda del senso e della vita, emerge uno sguardo post moderno che redime le asperità in nome di una situazionalità (storica, personale, naturale) in grado di giustificare le differenze, relativizzare le colpe, promuovere il dialogo ma, soprattutto, innamorarsi dell’ “altro”, a qualsiasi regione – ideologica, culturale, religiosa – appartenga.

Gianni Vattimo

In realtà ciò che colloca questo scritto così coraggioso e atipico fra Tommaso e Vattimo, è proprio l’esigenza, che l’autore ribadisce e decanta, di un orizzonte di verità o autenticità che orienti il cammino dell’uomo contemporaneo, e nel contempo il rifiuto a identificare ciò con un approccio apodittico e dicotomico che separi troppo facilmente vero e falso, bene e male, bello e brutto, in nome di una concezione ermeneutica della verità (che potrebbe ricordare, per esempio, Kierkegaard, Nietzsche o Heidegger), intesa come interpretazione, ove i concetti, come le note di una musica, evocano nella loro sinfonicità la bellezza dell’intero (di per sé ineffabile, come voleva Eckhart). Così fra Kant e la Scolastica, l’autore sceglie l’Ermeneutica contemporanea come l’ambito che meglio può restituire il desiderio di unità e universalità evocato appunto in altre epoche storiche dalla stessa Scolastica o dal Criticismo, e oggi idoneo ad essere espresso appunto da un visione della conoscenza e del rapporto uomo-mondo come interpretazione, e quindi attraverso la tolleranza, il dialogo, l’incontro, anche per ciò che concerne la spiritualità e le tematiche teologiche, che vanno ormai, come ogni ambito dell’esperienza umana contemporanea, planetarizzandosi, ed esigono quindi una visione olistica ed empatica, mentre necessitano di sprovincializzarsi in nome di una fraternità o amicizia, anche spirituale, più allargata.

Come accadeva per i collage di “Eighties”, ove Sottocornola miscelava cultura alta e bassa, popular e arte sacra, destrutturando per ricostruire secondo armonie e senso del tutto nuovi, anche qui si assiste ad una singolar tenzone fra pensiero debole e pensiero forte, ove alla fine orizzontale e verticale, universale e particolare, verità e dubbio, anarchia e dogma convivono danzando mirabilmente sotto lo stesso cielo. Perché “tutto è grazia”, secondo la celebre affermazione del curato di Bernanos, ma non tutto è uguale e bisogna saper scegliere quale intensità di vita e di valore vogliamo realizzare.

C’è nell’intero percorso un forte richiamo alla responsabilità e all’impegno, e si capisce, perché l’autore, come docente, si è lasciato ispirare dai suoi giovani studenti o, meglio, dai loro bisogni e dalle loro domande, a scrivere di filosofia come un testamento minimo, come una testimonianza e un impegno a orientare nel cammino, quando sembra venire a mancare ogni indizio di stella polare, una generazione che si smarrisce.

I valori e il declino dell’Occidente

di Augusta Dentella

Un’ode al valore, comunque lo si voglia definire e intendere, un invito ad andare “oltre” le istanze del “bisogno” come richiamo immediato e acritico, una appassionata difesa dell’ideale contro ogni atteggiamento utilitaristico e pragmatico: sono solo alcuni dei motivi che compaiono nel pamphlet I trascendentali traditi di Claudio Sottocornola (pp. 164, Editrice Velar), quasi postilla alla sua precedente opera Il pane e i pesci, di natura più enciclopedica e sistematica, già presentato alla Libreria Buona Stampa di Bergamo il 16 dicembre.

Vi compaiono due autori, scelti da Sottocornola a designare un percorso di critica alla civiltà occidentale contemporanea e alle sue derive: Pier Paolo Pasolini, a cui è dedicato il volumetto, visto come l’antesignano di una critica ai valori consumistici e conformistici della civiltà post-industriale contemporanea, e Tommaso d’Aquino, che apre ogni capitolo con una citazione relativa ai trascendentali, che costituiscono il tema del libro.

L’opera, come sottolinea l’autore nell’Introduzione, intende presentare una fenomenologia, una specie di paesaggio dell’attuale declino dell’Occidente, evocato da città in degrado, corpi alterati e famiglie liquide, con il riferimento a una stella polare, i trascendentali della filosofia medievale, termine che designava nell’ ambito della Scolastica i valori più alti ed estesi a ogni ambito della realtà, come verità, bene, bellezza, giustizia, unità… E intende farlo non in modo rigorosamente argomentativo e conseguente, ma per divagazioni, paradossi, provocazioni e malesseri che, quasi come per un lapsus, lascino filtrare lampi di verità, come accade talvolta nella conversazione fra amici al bar, magari davanti a un buon caffè.

L’aspetto più suggestivo dell’opera è proprio questo accostare il contemporaneo attraverso la prospettiva straniante del pensiero medievale, non riesumato in forme istituzionali e banalmente erudite, ma riattualizzato e vivificato proprio dal suo confronto con l’attualità e persino la cronaca… All’immagine di città abbruttite da cumuli di sporcizia e scritte sui muri si accostano così esemplificazioni di una corruzione sempre più dilagante, alle caustiche descrizioni di costumi sociali involgariti e barbari si alternano amare considerazioni sulla pessima qualità della cultura mediatica e giornalistica prevalente. Il tutto appare però guardato quasi da un’altra terra, da un’altra dimensione, da un orizzonte di verità, bene e bellezza che continuamente spinge alla critica dell’esistente, alla sua falsificazione, a una lucida rabbia, ma in nome di una possibile salvezza, di un riscatto o almeno di un recupero che, in tale prospettiva, è lecito continuare a cercare e perseguire, realizzando intorno a sé la massima armonia possibile.

“Sottocornola – scrive Agata Salamone – avvalora sia il pensiero debole che il pensiero forte, in una linea che va da Abelardo a Mancuso… Il libro nella sua leggerezza fa il punto su una questione  che è esattamente il tentativo di definire la Bellezza, la Verità, la Giustizia, il Bene, presupponendo la possibilità che si possa superare l’obiezione fondamentale che affiora spontanea sulle labbra di chi si è convinto della impossibilità di ogni universalizzazione concettuale…”. E così si assiste in tutta la trattazione a un singolare e suggestivo accostamento di riferimenti a culture e spiritualità diverse, dall’Islam al Confucianesimo, dai “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche e Freud) al Taoismo, dalla tradizione empiristica inglese al Buddismo, mentre continuo è il riferimento alla vita quotidiana e alle esperienze dell’autore, in un suggestivo mix di teoria e concretezza.

I trascendentali traditi si chiude con un capitoletto sulla “quiddità”, cioè sulla ragione profonda per cui una cosa è se stessa, ove  Sottocornola si rivolge al lettore con un invito che ci sentiamo di riprendere: “Tuo padre. Tua madre. Il tuo quartiere. La tua città.. Questo treno. Questa scuola. Quella telefonata. Quel biglietto d’auguri. Quel messaggio. Il freddo che mi attraversa ora. Il sogno che verrà. L’attesa che mi annoia. Il citofono che squilla. Il PC che si spegne. Questo sonno, questo lutto, questa sveglia. E la giornata, questa giornata che non vorrei, e che devo amare, abbracciare, trasfigurare in un sacramento della gloria di Dio. La quiddità come luogo della gloria. Ne siamo ancora capaci, o stiamo solo aspettando il prossimo volo low-cost?”.

Un invito a rientrare in se stessi, nel respiro profondo di un’esperienza spirituale vitale e autentica.