12 illustrazioni per 12 videogiochi in un calendario che mette l’amore per il gaming al servizio del mutuo aiuto e della solidarietà.
Lo Scanlendario 2026 è disponibile per il preordine da oggi. Un’alleanza tra fumetto e videogioco per sostenere il progetto Alberi della Rete di Gazaweb e ACS, un progetto che lavora per ripristinare connessione a internet e legami umani nella Striscia di Gaza, creando hotspot basati su eSIM (e non solo).
Il calendario, giunto alla sua sesta edizione, propone 12 illustrazioni originali, dedicate ad altrettanti classici del videogioco da una lineup impressionante di artistx:
Zerocalcare
Valeria Cunto
Roberto D’Agnano
Luca Tieri
Fumettibrutti
Francesco Guarnaccia
Junopika
Matilde Simoni,
Matteo De Longis
Fra! Design
Daw
Daniel Cuello
Tutte le illustrazioni sono state donate, così come il lavoro di logistica e redazione. Lo Scanlendario è un’iniziativa informale, organizzata dal basso, fuori dalle logiche del profitto. Il 100% dei guadagni verrà donato direttamente ad Alberi della Rete.
Dove comprarlo
Lo Scanlendario è disponibile da oggi su www.scanlendario.com. I calendari verranno spediti entro i primi di dicembre, in tempo per i regali delle feste.
Chi siamo
Lo Scanlendario è ideato e prodotto da un collettivo informale composto da: Nelson “Pizza Pirate” Calderara, Nicola Bernardi e Fabio “Kenobit” Bortolotti.
Quando in una cultura viene riconosciuto socialmente un determinato periodo della vita delle persone, significa che viene normalizzato un cambiamento precedente. Successivamente ai termini, si sviluppa una vera e propria costellazione di oggetti, strutture materiali e sociali, dedicate a quella fascia di età.
Uno dei casi più eminenti è la fanciullezza in epoca Vittoriana, dietro la quale nacque una moda di abbigliamento, uno stile letterario, un cambiamento delle abitazioni e dei servizi di educazione.
Non diversamente in quanto a impatto sociale, nazionale e internazionale, avvenne in Giappone all’alba dell’era Meiji (a partire dal 1968) con la riforma della cultura per le ragazze, la “Shōjo Bunka” (da notare che il kanji di “bunka” è composto da scrittura+cambiamento).
Il volume, seppur non lunghissimo (circa duecento pagine), è densissimo di informazioni storiche e letterarie e procede in ordine cronologico dalla riforma dello studio per le ragazze, fino a quell’episodio di grandissima fertilità artistica che fu il Salone di Ōizumi, raccogliendo tutti gli elementi che hanno influenzato il cambiamento della cultura delle ragazze: la moda, gli abiti, le suggestioni degli stili stranieri, le riviste e le illustrazioni, e in generale la cultura pop e di intrattenimento.
Ludovica Morrone è membro dell’Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi e conduce un profilo Instagram di grande successo @kaname.midori .
Ho avuto il piacere di intervistarla, e la ringrazio della sua disponibilità.
Leggendo il tuo libro mi è venuto da pormi una riflessione generale: si parte dalla cultura delle ragazze e si arriva a quella parte della cultura giapponese che ci affascina di più: il manga, l’intrattenimento, la moda. Insomma, quegli elementi di attrazione che fanno staccare biglietti aerei per il Giappone. Spesso si considera la cultura delle donne come un mercato poco potente, qui invece siamo di fronte a qualcosa di enorme in termini economici. Quanto la cultura delle ragazze ha influenzato la cultura del Giappone moderno e contemporaneo?
L.M. Ha influenzato notevolmente la cultura contemporanea, basti pensare ai furoku o ai gūzu (gli omaggi allegati alle riviste di manga). Lo stilista di moda Kenzo, conosciuto a livello internazionale, si è rifatto a moltissime opere del noto illustratore jojōga Nakahara Jun’ichi; il celebre mangaka Kamimura Kazuo è noto per essersi ispirato all’artista Takehisa Yumeji; la cultura del kawaii e i prodotti della nota azienda Sanrio, dai fatturati da capogiro, nascono proprio grazie alle esigenze e alle richieste del gruppo sociale delle shōjo. Sono innumerevoli i contributi della cultura femminile in Giappone: questi potremmo definirli gli esempi più noti e conosciuti a livello internazionale.
La riforma scolastica dell’Era Meiji arriva nel 1872, nel tardo Ottocento (da noi la presa di Porta Pia era avvenuta da appena due anni). Come vivevano le ragazze prima? Sappiamo che c’era una buona alfabetizzazione grazie alle terakoya, scuole a cui potevano accedere tutti e tutte, ma anche sfruttamento, tanto lavoro, matrimoni combinati, ecc. Quanto è migliorata la condizione delle ragazze? E nonostante questo miglioramento, perché, secondo te, la figura della donna in Giappone è ancora così marginale e le sue opportunità limitate? Il movimento femminista è attivo?
L.M. Per quanto le terakoya cercassero di sopperire alla mancanza di un’istruzione formale per le bambine in Giappone, la formazione che offrivano era davvero misera se paragonata a quella maschile e comunque insufficiente poiché spesso elitaria e pochissime fortunate potevano permettersi una tale opportunità. Possiamo dire che prima del 1872 è come se non esistesse una vera e propria istruzione per le shōjo. In seguito, la loro condizione è andata nettamente migliorando, e oggi nell’ambito dell’istruzione non vi sono più (almeno sulla carta) disparità di genere.
In anni recenti, con il movimento #MeToo, le femministe nipponiche sono riuscite a far puntare i riflettori su di sé ma i loro manifesti rimangono ancora poco definiti e, soprattutto, conosciuti. Nelle università, intanto, i movimenti femministi stanno gradualmente aumentando, speriamo quindi in un futuro prospero per queste realtà.
Nel tuo libro hai raccontato la cultura delle ragazze vista dal cannocchiale culturale del manga. Ma anche il manga stesso in quel periodo è cambiato moltissimo, di pari passo alle nuove esigenze di lettura delle ragazze e delle donne. Tu descrivi come nasce quello che oggi chiamiamo shōjo, fino ad arrivare ai racconti erotici di tipo yuri e boy’s love (entrambe narrazioni scritte da donne per le donne). Insomma, se non fosse per la shōjo bunka, il manga oggi non sarebbe quello che conosciamo?
L.M. Assolutamente. Un punto cruciale della Shōjo kakumei (“Rivoluzione shōjo”) è da ricercare proprio nell’esplorazione di nuovi generi narrativi da proporre a lettrici che durante gli anni Sessanta erano stufe di leggere sempre le stesse vicende tra casa e scuola. Se non avessimo avuto mangaka intraprendenti come Mizuno Hideko prima, e le mangaka del Gruppo 24 poi, non avremmo lo shōjo manga che conosciamo oggi.
Lo shōjo non è un genere, ma un modo per identificare un pubblico di destinazione. Si dice infatti “target”. Quali sono le origini del target?
L.M. Dalla mia ricerca è emerso che i target delle riviste di manga che conosciamo oggi, come shōjo e shōnen, nascono da una necessità di natura formativa.
Il Ministero dell’Istruzione trovò nell’editoria un modo per poter offrire agli studenti nipponici dei prodotti non solo d’intrattenimento ma anche formativi. Non a caso, le riviste d’intrattenimento d’anteguerra shōjo e shōnen offrivano storie ad hoc ai loro lettori e alle loro lettrici poiché supervisionate da alcune sottosezioni del Ministero dell’Istruzione che davano il loro consenso alla pubblicazione.
In Italia lo shōjo è immaginato come un racconto puccioso e sentimentale, mentre è stato rivoluzionario nella storia del manga. Come e perché nasce la diffidenza italiana nei confronti dello shōjo, che è poi il manga su cui l’editoria italiana si è costruita negli anni ’70-’80?
L.M. La seguente è una riflessione, un flusso di coscienza, basata dalla mia esperienza di lettrice più che di studiosa.
Io credo che negli ultimi anni il target delle shōjo in Italia si sia stagnato sulle storie che vendono, quelle basate su storie d’amore slice of life e vicende scolastiche. La proposta continua di queste storie ha creato una sorta di stereotipo e pregiudizio su questo target che, come dicevi bene tu prima, è composto, come tutti gli altri target, di innumerevoli generi narrativi.
Secondo una mia discreta opinione, proporre in Italia le stesse etichette di targetche propone il Giappone è stato un errore che ha portato solo a equivoci e pregiudizi nei confronti di determinate opere. Se queste etichette non fossero mai approdate da noi, probabilmente ci sarebbe meno preconcetti sullo shōjo.
Quanto ha pesato l’influenza della cultura estera, statunitense prima ed europea dopo, sulla cultura delle ragazze?
L.M. Ha pesato molto. Faccio un altro esempio portando alla luce sempre un caso offerto da Nakahara Jun’ichi. Il noto artista di jojōga adorava illustrare e ritrarre Audrey Hepburn. E perché proprio Audrey Hepburn e non Marilyn Monroe? Perché Hepburn, con i suoi occhi neri, i capelli castani e le forme longilinee, era in linea con l’estetica della bellezza femminile giapponese, a differenza di Monroe, con i suoi capelli biondo platino e le sue curve.
Su questo tema vi consiglio di recuperare gli articoli di Leone Locatelli: Locatelli Leone, “Jojōga. Gli artisti che hanno forgiato l’estetica degli shōjo manga”, Manga Academica, Vol. 15 [2022], 2022, pp. 55-75; Locatelli Leone, “Jun’ichi Nakahara e Dollworld”, Heroica: Women in Culture, 2020.
Il famoso film Vacanze romane, interpretato sempre da Audrey Hepburn, fu trasposto in fumetto da Mizuno Hideko e fu particolarmente apprezzato dai lettori giapponesi. Anche Fire!, sempre di Mizuno, è esemplificativo di come la cultura americana di fine anni Sessanta avesse attecchito in Giappone. Per non parlare delle mangaka del Gruppo 24 che hanno fatto ampio uso di ambientazioni e aneddoti della storia europea nelle loro opere; basti pensare solo a Le rose di Versailles (Lady Oscar) di Ikeda Riyoko.
Tra i numerosissimi nomi di mangaka che hai preso in esame, qual è la tua preferita?
L.M. Sicuramente Mizuno Hideko. La storia della sua carriera mi ha affascinata e mi è piaciuto raccontare come il suo lavoro abbia fatto da anello di congiunzione tra le grandi artiste degli anni Sessanta e quelle degli anni Settanta.
Il Salone di Ōizumi è stata un’esperienza breve ma fecondissima, nata dalla convivenza, forzata e non esattamente tranquilla, tra Moto Hagio e Keiko Takemiya. Gli elementi centrali di questa esperienza sono stati la collaborazione tra le mangaka che presero a riunirsi nell’abitazione di Hagio e Takemiya, che spesso si aiutavano tra loro per rispettare le scadenze. Uno spirito solidale, di sorellanza femminista, secondo te paragonabile a quello che vide gli animeka occupare gli studi di produzione per la parità salariale?
L.M. Se presa un po’ alla lontana, sì, potremmo definirla una situazione simile a quella degli animatori giapponesi.
Come racconta Takemiya Keiko ne Il suo nome era Gilbert, quella delle mangaka del Gruppo 24 era anche una lotta salariale affinché le tavole disegnate da artiste donne fossero retribuite allo stesso modo di quelle disegnate dagli uomini. Come hai ben detto tu, si trattava soprattutto di solidarietà femminile nello spalleggiarsi l’un l’altra nei momenti di crisi durante le consegne dei lavori. Esemplificativo è il caso di Hagio con il suo Cake cake cake. Kōdansha le diede innumerevoli problemi con quell’opera ma, grazie a Takemiya che fece da intermediaria, Hagio riuscì a ottenere un contratto con Shōgakukan per cui lavorò svariati anni e con cui avrebbe pubblicato i suoi più grandi successi.
Da un punto di vista prettamente estetico, cosa il fumetto giapponese di oggi deve al Salone di Ōizumi? E quale è stata la sua influenza più diretta sulla cultura delle ragazze?
L.M. La sua influenza più diretta penso sia nel rapporto che si instaurò tra lettrici e mangaka. Fino a quel momento, gli editori facevano spesso da mediatori tra artisti e lettrici, come dimostrano le riviste d’anteguerra. A partire dagli anni Settanta, invece, il rapporto tra lettrici e mangaka diventa imprescindibile e perfino necessario per l’artista per comprendere attraverso le lettere, i fan club, i sondaggi di gradimento come proseguire la propria storia per soddisfare non solo le proprie necessità artistiche ma anche le richieste del pubblico. Come scrivo in conclusione al mio saggio: «Le mangaka del Gruppo 24 non hanno solo contribuito alla “Rivoluzione shōjo” ma hanno dimostrato anche quanto importante fosse il legame con gli artisti del passato e con le loro lettrici di oggi. La shōjo kakumei, intesa non solo come riforma del panorama artistico del manga ma anche come evoluzione sociale, non può dirsi quindi tale se privata di uno di questi tre elementi: storia, shōjo e manga».
Ludovica Morrone, classe 1995, è laureata magistrale in Lingue e Civiltà Orientali (curriculum giapponese) presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Dal 2022 è traduttrice freelance e divulga sul suo account Instagram la storia e l’evoluzione dello shōjo manga e della cultura delle ragazze in Giappone. La trovate come @kaname.midori. Questo è il suo primo saggio.
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Quando parlo di Shin’ichi Sakamoto sento di potere abbandonare le infinite cautele che adotto usualmente nell’analisi dell’Arte. So che qualsiasi iperbole possa usare (“il più grande artista vivente, il più grande mangaka della storia”) non è una assurdità. C’è, semmai, una sproprzione tra la considerazione che nell’Arte riveste il manga e la sua effettiva qualità artistica, ontologicamente intesa.
Se a qualcuno può sembrare che esageri, è solo perché il suo non è un nome tanto celebre come quello di Marina Abramovic, Joseph Kosuth o Sebastião Salgado. La diffusione del nome di un artista, nel mondo del Postmodernismo, è essa stessa un fatto pertinente all’Arte, e non è secondario, né considerabile puramente mercantilistico. C’è da aggiungere che il fumetto è considerato un’arte, sì, ma il retaggio classico che ci portiamo dietro lo fa qualificare come un parente povero della pittura (un po’ come era considerata la fotografia alla sua nascita).
#DRCL è arrivato al quarto numero in Italia, ed è il vertice tecnico della produzione di Sakamoto. Confesso di avere anche paura del numero 5. Si potrà superare? Vedremo.
Ho scritto il “vertice tecnico” per una ragione: nonostante il dispiego di energia, #DRCL non riesce a minare il primato di Innocent e Innocent Rouge nella descrizione dei personaggi. Innocent è certamente il manga meglio riuscito del nuovo millennio, è uno dei grandi capolavori della storia del manga, una pietra miliare, in cui disegno e scenggiatura sono perfetti, e che descrive due tra i personaggi più belli e realistici mai narrati dalla cultura pop giapponese.
Era difficile fare di meglio, ma Sakamoto è un tipo di artista che non si adagia, che si spinge sempre al di fuori della sua zona di comfort, tecnica e narrativa. L’essere sempre alla ricerca è una delle sue caratteristiche artistiche. Nuovi modi di osservare le solite cose. Nel suo feed su Instagram vediamo ogni giorno fotografie sempre diverse di un unico posto: un cavalcavia tra due arterie stradali, uno dei più grandi di Tokyo, presumibilmente dove si ferma durante il jogging che gli serve per sgranchirsi dopo tante ore di lavoro (da qui deduciamo una grande costanza nel disegno). Fotografare quel cavalcavia è un esercizio, una disciplina mentale, una routine di orari e di mantenimento degli impegni di livello quasi agonistico. Insomma un artista costante, organizzato e di grande partecipazione interiore nei confronti di ciò che produce. Nel documentario Manben di Naoki Urasawa, Sakamoto dice una cosa inusuale: che si diverte. Sia a disegnare che a correre. Il che non è sorprendente di per sé, quanto per il fatto che con il tempo il disegno diventa routinario e poco allettante per chi lo svolge a livello professionale. Anche per questa ragione -credo- ha una necessità di spingersi in territori estetici sempre nuovi e di affondare il pedale del “concetto” all’interno della rappresentazione visiva.
In #DRCL io ravviso un grande apporto del concettuale, e non ho citato Kosuth casualmente. C’è un alta quantità di ragionamento sull’Arte e sul manga, visibile sin dal secondo numero, ma adesso lampante. Sakamoto spinge la tecnica, la praxis del disegno del manga, in territori che nessuno conosce, che nessuno ha toccato, neanche lui, perché è lui il pioniere, è lui che nella storia di questo medium artistico sta creando un sentiero, come un rover marziano. Se non li tocca e non li sperimenta lui, nessun altro lo farà, perché lui sta spingendo al massimo le funzioni del disegno digitale. Lui sta portando il manga dove non era mai stato prima. E se noi consideriamo il fumetto un’arte, possiamo dire che sta portando l’Arte dove non era mai stata prima.
L’idea di cambiamento permea tutto #DRCL. Sakamoto stesso lo ha più volte ripetuto in interviste al Festival di Angoulême nel 2023. Il cambiamento è uno dei mulinelli narrativi della letteratura del tardo Ottocento europeo. La tecnologia di quel periodo è stato uno dei più grandi vettori narrativi. Tutto il mondo cambiava attorno ad essa, tanto che era quasi un passatempo per la borghesia. Molti avevano gli atlanti di Luke Howard, piccoli telescopi e binocoli, minime attrezzature meteorologiche, sistemi di scrittura veloci ed efficienti, come le macchine stenografiche e i cilindri fonografici. In #DRCL tutto cambia: l’età dei protagonisti, il loro status sociale, la loro fisionomia e la loro natura.
Il cambiamento ambientato nel passato è un espediente consolidato per descrivere quello del presente (l’evidenziazione dell’hashtag ne è la riprova), perciò a quale cambiamento può far riferimento Sakamoto se non al suo, a quello che sta apportando lui stesso al manga, o almeno alla sua componente tecnica e realizzativa? Io trovo questa consequenzialità assolutamente sbalorditiva e ammirevole. Sin dal numero 2 Sakamoto ha fatto un grandissimo lavoro sui grigi, inserendoci dei vettori decorativi e sovrapponendoli. In genere l’inserimento di motivi e decorazioni così fluidi e morbidi si riserva agli sfondi o alla rappresentazione figurativa delle emozioni. In #DRCL Sakamoto li usa invece anche negli abiti e nelle zone in primo piano della tavola, creando una distorsione semantica pazzesca. Altrettanto spesso l’insieme di questi elementi decorativi (sfumature, oggetti, disegni, stilizzazioni, tratteggio) viene frazionata in porzioni, nel più pieno stile Postmodernista, creando anche una sensazione di imbricamento tra vuoto e pieno, dentro e fuori, viscere e derma.
Il manga, come ogni medium, ha una sua semantica estetica, e Sakamoto la sta mandando all’aria a partire dalle basi, dal tratteggio e dal retino, che sono anche gli ambienti più sofferenti delle tecniche tradizionali. Io penso che molti suoi colleghi lo guardino con una certa soggezione. Secondo me Inoue lo odia. Il manga non potrà più essere lo stesso dopo #DRCL, forse questo cambiamento non arriverà subito, ma arriverà.
Il processo di lavoro stesso è uno spigere a un estremo le potenzialità del mezzo digitale. Per quello che abbiamo visto del Manben di Urasawa, Sakamoto impugna un comando con la sinistra, con il quale sposta il lavoro, lo capovolge, lo ruota, lo specchia, ingrandisce e rimpicciolisce (tutto senza guardare, come fosse un videogioco), mentre con la destra disegna, e sceglie di volta in volta il tipo di oggetto chi serve: abbigliamento, acconciature, sfondi, ecc, e ovviamente anche sfumature e vettori decorativi. Le due mani rispondono a differenti necessità in modo velocissimo. Nel lavoro tradizionale una mano disegna, l’altra è a riposo o tiene il foglio. Guardarlo lavorare è impressionante.
Tanto lavoro chiederebbe di essere celebrato, ma se la trama lo richiede, lo occulta senza problemi. Nel secondo volume ha sfocato alcune tavole che in partenza erano ricchissime di dettagli. Come fossero in origine non lo saprà nessuno.
La ricchezza delle tavole è arte-illustrazione tout court, ed è incredibile che tavole così belle riescano a mantenersi fedeli a una dimensione narrativa propria.
La cultura artistica di Sakamoto è impressionante, l’amore per l’Arte in ogni sua espressione è palpabile. Lo senti, percorre ogni pagina. Si possono trovare riferimenti ovunque. In Innocent erano già presenti, da Piranesi a Doré, da Jacques-Louis David a da Honoré Daumier e Sailor Moon , ma perlopiù erano sottili, per conoscitori, diciamo. ma qui sono massimaliste, esuberanti.
Dracula è Michael Jackson, oscuro e meravigioso. Le gradazioni di chiaro e scuro sono lasciate al lettore.
La tecnica a tratteggio ha assunto in questo numero il sapore dell’incisione della metà del Cinquecento (il melograno è un frutto simbolo del Rinascimento), in cui il segno del bulino è più largo dove si appoggia e più sottile nella direzione del tratto. Ovviamente per fare questo bisogna creare un pennello digitale adatto ed enfatizzare le caratteristiche del reale. È un incredibile lavoro mentale, una mirabile capacità di sintesi grafica.
Dürer è una delle fonti primarie dalla quale si abbevera la storia della grafica occidentale (un manga fortemente ispirato allo stile di Dürer è Atelier of Witch Hat).
Sinistra: Dulac. Centro: la pittura impressionista, Toulouse-Lautrec, Renoir, la morbidezza di Ingres. Destra: la favolistica fin de siècle, Arthur Rackham, il Liberty di Beardsley.
Il Discobolo di Mirone, ma dopo che ha scagliato il disco
Le influenze di Sakamoto appartengono più alla fotografia che alla pittura: la stilizzazione teatrale del corpo di Joel-Peter Witkin, i tatuaggi di Chloé Jafé, la complessa composizione visiva di Daido Moriyama, l’erotismo di Nobuyoshi Araki. La capacità di Sakamoto di accogliere suggestioni provenienti da ogni epoca e ogni media è semplicemnte sterminata. È una caratteristica specifica del Postmodernismo, di cui è oggi una delle voci più nitide. Questo quarto numero di #DRCL è un momento memorabile della storia dell’Arte contemporanea. È una cosa per la quale sono grata di vivere.
Il corpo è basilare nell’opera di Sakamoto, anche nelle opere precedenti a The climber che gli ha dato la fama anche in occidente. Lo racconta (sempre in Manben) a proposito di Hokuto no Ken, che lo impressionò per i muscoli. Il corpo come veicolo, agente e memoria, quindi come trasformazione, azione e cadavere.
L’erotismo che questi corpi emanano è così intenso da non avere necessità di rappresentare.
Nel quarto volume è il paradosso, l’illusorio, l’enigmatico a essere padrone supremo. Le pagine sono abitate da figure geometriche infinite o impossibili, la tribarra di Penrose, cubi di Necker, nastri di Möbius. Geometrie e figure topologiche create o rese celebri da Maurits Cornelis Escher, che potremmo definire il grafico più grande di tutti, guarda caso un incisore, ossessionato dall’idea di convogliare il disordine mentale, artistico, psicologico, in un ordine apparente, superficiale, formale. Escher fu anche l’assoluto mago del frazionamento del piano, la tassellatura (che oggi chiamaiamo pattern). Due curiosità: Escher venne in calabria, fu a Pentidattilo e a Melito, ed è morto nel 1972, l’anno di nascita di Sakamoto.
Ecco perché ho detto che c’è un grande apporto del concettuale in quest’opera: il dissidio senza requie, sempre in movimento, tra gli schemi umani del pensiero e la vastità del reale. L’inconciliabilità tra l’ordine ideale e il caos reale. Il due mondi (idee umane e realtà) non sono commensurabili, cioè non possono essere misura l’uno dell’altro (come misurare la lunghezza in litri). La matematica è uno degli strumenti più efficienti per la conoscenza del mondo, ma non funziona affatto nel mondo delle idee e della conoscenza, men che meno in quello della psiche. Sakamoto accede alla parte più recondita della psiche, producendo un vortice visivo che ha del lisergico.
Le pagine sono così ricche di dettaglio che il formato giusto per apprezzarle è un A3. In Italia purtroppo la serie Innocent è penalizzata da un formato minuscolo con margini esterni e interni malamente tagliati. Nonostante il formato e i difetti tipografici, l’edizione J-Pop rimane la migliore per brillantezza della carta e profondità del nero dell’inchiosto. Quella giapponese non è un granché, perché l’avorio della carta leggermente ruvida non si adatta alla finezza del tratto di Sakamoto, che richiede invece un massimo contrasto e carta liscia e lucida. Questo vale anche per #DRCL, la carta dell’edizione giapponese è opaca e scadente. Probabilmente J-Pop non ha capito cosa aveva tra le mani, e #DRCL è stato stampato a dovere (anche se un formato ancora più grande sarebbe stato meglio). J-Pop è una casa editrice molto variabile per il risultato tipografico, ma ha dei materiali molto buoni e quando lavora bene non ce n’è per nessuno.
ENGLISH- Chat GPT translation (she skipped a few steps, but she makes me feel more skilled than I am)
#DRCL Midnight Children by Shin’ichi Sakamoto: The Greatest Living Postmodern Artist
When I talk about Shin’ichi Sakamoto, I feel I can abandon the endless caution I usually apply to analyzing Art. I know that any hyperbole I might use (“the greatest living artist, the greatest mangaka in history”) is not an absurdity. If anything, there is a disproportion between the status manga holds in Art and its actual artistic quality, ontologically speaking. If someone thinks I’m exaggerating, it’s only because his name isn’t as renowned as Marina Abramović, Joseph Kosuth, or Sebastião Salgado. In the world of Postmodernism, the prominence of an artist’s name is itself relevant to Art, not secondary or merely commercial. Moreover, comics are recognized as an art form, but our classical heritage makes them seem like a poor cousin to painting (much like photography was viewed at its inception).
#DRCL has reached its fourth volume in Italy and represents the technical pinnacle of Sakamoto’s work. I confess I’m afraid of the fifth volume—can it surpass this? We’ll see. I wrote “technical pinnacle” for a reason: despite the immense energy it conveys, #DRCL cannot dethrone the primacy of Innocent and Innocent Rouge in character depiction. Innocent is undoubtedly the best manga of the new millennium, one of the great masterpieces in manga history, a milestone where drawing and storytelling are perfectly balanced, depicting two of the most beautiful and realistic characters ever narrated in Japanese pop culture.
It was hard to imagine anything better, yet Sakamoto is the kind of artist who never rests, always pushing himself beyond his comfort zone, both technically and narratively. This constant search is one of his defining traits as an artist: finding new ways to see the usual things. His Instagram feed shows us daily photographs of the same place—a flyover between two major roads, presumably where he stops during his jogging routine to stretch after long hours of work. This reveals a disciplined artist with a near-athletic commitment to his craft.
In Naoki Urasawa’s Manben documentary, Sakamoto says something unusual: he enjoys himself—both drawing and running. This isn’t surprising per se, but it is in the context of professional drawing, where routine often dulls the appeal of the craft. Perhaps this need to explore new aesthetic territories and push the “conceptual” pedal in visual representation stems from this joy.
In #DRCL, I see a significant conceptual contribution, and my reference to Kosuth was not accidental. There is a high degree of reflection on Art and manga, evident from the second volume and now undeniable. Sakamoto pushes the praxis of manga drawing into uncharted territory, even for himself, as he pioneers this medium. If he doesn’t explore and experiment, no one else will—he is pushing the limits of digital drawing, taking manga where it has never been before. And if we consider comics as art, then he is taking Art where it has never been before.
The theme of change permeates all of #DRCL. Sakamoto has repeated this in interviews, such as at the 2023 Angoulême Festival. Change is one of the narrative whirlpools of late 19th-century European literature, driven by the technology of the time, which was a great narrative catalyst. During that era, the bourgeoisie entertained themselves with things like Luke Howard’s atlases, small telescopes and binoculars, meteorological instruments, shorthand machines, and phonograph cylinders. In #DRCL, everything changes: the protagonists’ ages, social status, physiognomy, and nature.
Change set in the past is a well-established device to describe the present (as the hashtag emphasizes). What change could Sakamoto be referencing if not his own—the one he is bringing to manga, especially its technical and production aspects? This consequentiality is astonishing and admirable. From volume 2 onward, Sakamoto has done remarkable work with grays, incorporating decorative vectors and overlaying them. Typically, such fluid and soft motifs are reserved for backgrounds or visual depictions of emotions. In #DRCL, Sakamoto uses them in clothing and foreground elements, creating a semantic distortion.
Sakamoto’s artistic culture is breathtaking, and his love for Art in all its forms is palpable on every page. In Innocent, references were already present—from Piranesi to Doré, from Jacques-Louis David to Sailor Moon—but they were subtle, intended for connoisseurs. Here, they are maximalist and exuberant. His hatched technique now echoes 16th-century engraving, where the burin’s stroke widens with pressure and tapers off. Creating this effect digitally requires crafting specific brushes and emphasizing real-world characteristics—a brilliant synthesis of graphic skill.Dürer is one of the primary sources from which Western graphic history drinks (a manga strongly inspired by Dürer’s style is Atelier of Witch Hat). However, Sakamoto’s influences lean more towards photography than painting: the theatrical stylization of Joel-Peter Witkin’s bodies, the tattoos of Chloé Jafé, Daido Moriyama’s complex visual compositions, and the eroticism of Nobuyoshi Araki. Sakamoto’s ability to draw inspiration from every era and medium is simply boundless—a hallmark of Postmodernism, of which he is one of the most distinct voices today. This fourth volume of #DRCL is a memorable moment in contemporary Art history, something I am grateful to witness in my lifetime.
The body plays a fundamental role in Sakamoto’s work, even in pre-The Climber projects that gained him fame in the West. In Manben, he recounts how Hokuto no Ken (Fist of the North Star) impressed him with its depiction of muscles. The body, then, is a vehicle, an agent, and a memory—a symbol of transformation, action, and ultimately, a corpse. The eroticism these bodies emanate is so intense it requires no explicit representation. In the fourth volume, paradox, illusion, and enigma reign supreme. The pages are inhabited by infinite or impossible geometric figures—the Penrose tribar, Necker cubes, Möbius strips. These are geometries and topological figures created or popularized by M.C. Escher, arguably the greatest graphic artist of all time.
Escher, who happened to visit Calabria (Pentidattilo and Melito) and died in 1972—the year of Sakamoto’s birth—was obsessed with channeling artistic and psychological chaos into an apparent, surface-level order. His mastery of plane division, or tessellation (what we now call patterns), mirrors Sakamoto’s meticulous compositions.
This is why I mentioned #DRCL’s strong conceptual core: the unending conflict between human cognitive schemes and the vastness of reality, the irreconcilable divide between ideal order and real chaos. The two worlds—human ideas and reality—are incommensurable, meaning they cannot be measured by the same standard (like measuring length in liters). Mathematics, one of the most effective tools for understanding the world, utterly fails in the realms of ideas, knowledge, and especially the psyche. Sakamoto delves deep into the psyche’s hidden corners, creating a visual whirlwind that borders on the psychedelic.
The pages are so richly detailed that the ideal format to appreciate them would be A3. In Italy, unfortunately, the Innocent series suffers from a tiny format with poorly cut outer and inner margins. Despite the size and typographic flaws, the J-Pop edition remains the best for its paper brilliance and ink depth. The Japanese edition is lackluster—the slightly rough ivory paper does not suit Sakamoto’s fine linework, which demands high contrast and smooth, glossy paper. This also applies to #DRCL: the Japanese edition’s matte paper is underwhelming. J-Pop likely didn’t realize what they had in their hands, but they printed #DRCL properly (though an even larger format would have been ideal).
J-Pop is highly variable in typographic quality, but when they get it right, their materials shine, leaving competitors behind.
captions: 1)Dracula is Michael Jackson, dark and wondrous. The shades of light and shadow are left to the reader.
2)Left: Dulac. Center: Impressionist painting, Toulouse-Lautrec, Renoir, the softness of Ingres. Right: Fin de siècle fairy tales, Arthur Rackham, the Art Nouveau of Beardsley.
3)The Discobolus of Myron, but after he has thrown the discus.
Le letture di svago puro sono diventate di colossale importanza da un anno a questa parte, cioè da quando la dimensione culturale più spessa è focalizzata sulla questione palestinese. I fumetti hanno per me consolidato il loro ruolo di escapismo totale, nell’accezione più prossima alla celebre frade si Calderón de la Barca: la vita è sogno.
I manga boy’s love mi servono come combustibile per i miei daydreaming e arricchire le vicende dei miei amici immaginari, che porto con me da quando ero piccola (da Mazinga Z, per l’esattezza). Surfo lo yaoigram da abbastanza tempo per capire quando un titolo piace davvero, e questo sembrava avere convinto parecchie persone. Ormai credo poco alle recensioni, perciò ho aperto il volumetto con un’attesa a metà. Parto sempre bassa per sicurezza, e sulle prime non c’era granché, se non i bei disegni (un pelino non nel mio stile i volti dei protagonisti, ma è un gusto personale).
Dopo qualche pagina ho capito che non era il solito volumetto. E dopo qualche altra pagina ancora ho esclamato: ma questa è una fiaba!
Viene subito alla mente “La lanterna delle peonie” di San’yutei Encho, in cui la carnalità e l’incorporeità sono centrali. Il personaggio principale non è un fantasma, ma un akashibito, uno yōkai che mangia la sfortuna. Detta così poteva uscire una cosa comica alla Rumiko Takahashi, oppure ridicola, ed era questo il mio timore quando l’ho preso. Gli akashibito non esistono, sono un’invezione dell’autrice. Ma c’è nella parola la parte “bito” che viene usata nella reiterazione “hitobito”, un termine che vuol dire “persone”, senza distinzione. Non so se sia un caso, ma questa coda sintattica mi fa pensare a un’allusione al termine “uomo”, “essere umano”. Il Giapponese è una lingua che si presta molto per fonetica e morfologia a questo tipo di semantica.
L’avvio mantiene gli stereotipi di un genere che ha dei cliché forti come ganasce bloccaruote, ma poi Hitomi inizia a tornire Shiro, lo yōkai legato alla sfortuna degli umani. Shiro significa “bianco”, che è un colore antropologicamente legato alla trasparenza, quindi all’incorporeità e al mondo oltretombano (basti pensare al nostro detto “bianco come un fantasma” e alla rappresentazione dei fantasmi con le lenzuola). Le mie antenne si sono drizzate quando un flashback ci mostra Shiro a letto con… una donna.
Per chi non è praticə dei tropi yaoi, posso chiarire che le figure femminili, se esistono, sono sempre presenze anonime, fugaci e spesso senza volto, prive di fisionomia, funzionali a definire una backstory dei personaggi (solo due, che io ricordi, sono diventate buone personagge secondarie). Qui non è diverso, però viene rappresentato l’atto sessuale, il che è come buttare un tizzone in un occhio alle lettrici (una donna che non sono iooooh?).
A mano a mano che la storia avanza, il personaggio di Shiro trascina quello di Miki, un po’ meno interessante, e il sentimento che nasce tra i due va di pari passo con una meticolosa collaborazione tra i personaggi e una sceneggiatura misuratissima, che utilizza la materialità per definire l’immateriale. Il cibo, il corpo, la temperatura, l’abbigliamento, il nudo e il vestito, l’interno e l’esterno, la domesticità e la metropoli, le cose rotte e le cose che funzionano. Tutto concorre a definire il carattere dei personaggi e renderli familiari nel volgere di poche decine di pagine. Questo lo fa la bravura del mangaka, non è solo la sceneggiatura o l’editor, qui conta molto il disegno, il posizionamento delle figure, degli oggetti, la cura del tratto, la scelta delle ombre, delle espressioni. Sicuramente l’autrice conosce il folklore della sua nazione, con quella finezza che si riverbera nei dettagli più piccoli: quello che noi chiamiamo “stile”. Di certo Hitomi è molto colta, si sente. E ci sarebbe da aprire una riflessione sulla vastità di un mercato che ingloba anche talenti che probabilmente sarebbero a loro agio in altri tipi di narrazione.Transparent love è quello che io chiamo “un BL osculatorio”, cioè un racconto non basato sull’erotismo più meno visibile e fine a sé stesso, ma su una vicenda narrativa all’interno della quale nasce una storia d’amore. La storia di Shiro poteva andare diversamente, è andata diversamente più volte: lo abbiamo visto.
Però questa volta le cose cambiano. E qui tocchiamo il nucleo del fantastico racchiuso in questo racconto: lo spirito che vuole diventare umano, attraverso l’amore. Il rapporto tra l’umano e il non umano, estremi uniti dall’amore, è un motivo assai ricorrente nei racconti fantastici di tutto il mondo. La Bella e la Bestia, Maria di Metropolis, Pinocchio, Il fantasma dell’opera, Pigmalione, Frankenstein, Coppélia e Olympia (entrambe trasposizioni di Der Sandmann di Hoffmann), Alita, Her, tanto per fare pochi esempi. In Giappone le kitsune, la donna cigno e la principessa Kaguya.
Hitomi riesce a mantenere un tono intensamente malinconico rimanendo leggera grazie a una grandissima sensibilità narrativa e a un forte controllo del mezzo artistico. L’ andamento domestico e quotidiano rende il magico e l’impossibile più credibili che mai. La narrazione non stanca e non cede, non diventa incalzante ma rimane imprevedibile. Un fumetto cucito sulla grande lezione dei narratori del kaidan ma nei margini del racconto folk-pop internazionale.
Il colpo di scena finale arriva come in un fantasy la rivelazione su come spezzare l’incantesimo. Un equilibrio bellissimo di stile, cultura, leggerezza e sentimento.
È un manga ammirevole per la capacità di raccontare il magico in un mondo che la fantasia l’ha persa, in cui il materialismo e la noia hanno il potere assoluto, consacrato nell’espressione “brain rot”, celebrata qualche giorno fa.
Un racconto eterno, che sembra fuori da questo tempo sottile e spigoloso, in cui nulla arriva, nulla sconvolge. E se nulla sconvolge, nulla può fare innamorare.
Sanctuary è un manga ormai dimenticato, adatto a un pubblico che ha un certo occhio e un approccio molto maturo al fumetto giapponese, quasi filologico o da collezionista, bibliografico.
Non nasconde gli anni che ha, ma in un modo che non è concesso ad altre opere: l’aderenza alla sua epoca, non un invecchiamento precoce o il non essere più valido poiché superato dal trascorrere del tempo.
La traccia raffinata e quasi sublime di Ikegami, sicuramente uno dei massimi disegnatori dell’epoca e probabilmente uno dei più eleganti della storia, rende il manga così graficamente sofisticato da estrometterlo dalle grazie dell’interesse delle next generation, aduse a un tratto grafico più rigido e omologato, anche qualora sia elaborato e complesso.
Ikegami è morbido, i volti dei protagonisti sono lineari e simmetrici, puliti, con qualche propensione alla fisionomia del miglior Elvis Presley di sempre, quello di King Creole. Forse è questo che agli occhi dei lettori contemporanei lo fa risultare un po’ “effemminato” e poco attuale, “persino kitsch” (ho letto anche questa opinione in rete).
La sua ben nota inclinazione verso le scene di violenza, sesso e sangue potrebbe apparire oggi quasi una forma compensatoria della eccezionale bellezza dei protagonisti, in realtà è una precisa scelta estetica che all’epoca era innovativa e fuori dall’ordinario. In Italia non eravamo infatti abituati a manga con personaggi dalla bellezza fine ed elegante, in cui fossero presenti scene di violenza. In questo Ikegami è stato sicuramente una novità assoluta per il pubblico italiano, che arrivò a coniare per il suo stile il termine “estetica della violenza”, ben prima che Tarantino divenisse un fenomeno cultuale.
Se all’epoca la violenza e il sesso presenti in Sanctuary potevano sembrare “tanto”, sono nulla confronto ai fumetti contemporanei, diretti spesso a un pubblico piuttosto giovane. Ciò che non sembra essere stato superato è l’avvincente dinamismo delle figure durante la lotta o le scene di azione. In Crying Freeman, il suo manga più famoso, Ikegami raggiunge il vertice della perfezione per quanto riguarda la disposizione delle scene in pagina, il movimento delle figure e il tratto veloce e preciso. In particolare il disegno dei piedi, spesso abbozzato ma perfettamente comprensibile, richiama i disegni a inchiostro delle antiche illustrazioni giapponesi.
L’ edizione italiana è purtroppo specchiata, cioè si sfoglia come un libro tradizionale. Oggi è persino fastidioso e controituitivo, tanto i manga sono capillarmente diffusi. Questo è uno degli elementi che hanno contribuito all’attribuzione della qualifica di “vintage” o “démodé” . Senza prezzo e di notevole valore di ricostruzione della storia sociale del manga in Italia, sono invece i commenti e le lettere alla redazione, a cui molte pubblicazioni dell’epoca lasciavano spazio. In quel periodo il manga non era diretto a un pubblico generalista o perfino distratto, come lo è oggi. Chi acquistava era un appassionato che si era contrabbandato videocassette, disegni e magazine in fotocopia. Avere un “libretto” in mano era per noi qualcosa che non ci faceva sentire né soli né strani nel godere delle nostre passioni. Avevamo finalmente una forma istituzionale di cultura a cui fare riferimento, scoprivamo insieme molte cose, e queste pubblicazioni sono state apripista per avere una migliore consapevolezza di quanto vasto e bello fosse il mondo del manga giapponese. Alcune lettere oggi sanno di una ingenuità tenera e commovente. Immagino che chi le abbia scritte abbia approfondito, sia ora un collezionista, abbia magari imparato il giapponese, e le conservi come un piccolo tesoro.
Sanctuary è una storia complessa, a volte può apparire poco credibile e inutilmente intricata, ma è sostanzialmente una riproposizione aggiornata agli anni Novanta, di quanto accadde in Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia non è solo una “storia di politica” o una “storia di yakuza”, sebbene questi due elementi siano presenti. Semmai la yakuza è un espediente per raccontare in modo più avvincente un reale problema politico che il Giappone sentiva in maniera allarmante durante gli anni Novanta, quando implose la bolla speculativa e l’intera società iniziò a riformulare le sue dinamiche sociali. Non viene occultata l’importante influenza sulle modifiche alla costituzione da parte degli Stati Uniti. Nel manga compare il presidente USA, con le fattezze di Bill Clinton (presidente nei Novanta, tra i vari Bush).
Basta dare una letta a wikipedia per trovare delle analogie fortissime alla storia politica del dopoguerra, le modifiche alla Costituzione e la dichiarazione di antimilitarismo del Giappone, pilotata dagli Stati Uniti d’America che avevano inginocchiato la nazione con due bombe atomiche. Perfino Isaoka, la “vecchia volpe” della politica, è ispirato a Shigeru Yoshida (a me ha ricordato molto fittamente Andreotti: ogni paese ha le sue icone di sciacallaggio), che fuse i partiti più potenti del tempo nel Partito Liberal Democratico, che ha tenuto le redini del Giappone per mezzo secolo, fino a un decennio addietro.
Nel disegnare Isaoka, Ryoichi Ikegami ha premuto forte sul pedale dell’acceleratore, esprimendo il massimo della sua capacità tecnica sul tratteggio e il chiaroscuro. Isaoka è in assoluto il personaggio su cui è stato speso più sforzo estetico. Fa paura davvero.
Il chiaroscuro è ai massimi livelli. La qualità del disegno è illustrazione tout court.
Qui ha usato matita morbida, probabilmente una B4 o B5. Sono cose di fronte alle quali il mio cuore trema.
Chiaki Asami e Akira Hojo sono due faccie della stessa medaglia. Hanno affidato l’uno la vita nelle mani dell’altro da ragazzini, in un campo di prigionia in Cambogia. Darebbero la vita l’uno per l’altro ( e si può dire che Chiaki sia morto al posto di Akira) e vogliono ottenere un risultato, un risultato epocale e quasi mistico, religioso: rendere il Giappone il loro santuario. O meglio, far tornare il Giappone ad essere un santuario, un paese degno e non corrotto. Per farlo si dividono i compiti, uno diverrà un uomo politico e l’altro un boss della yakuza. Qui capiamo benissimo che Buronson ci dice con grande chiarezza che il potere governativo è legato a doppio filo con la criminalità, che -come in ogni stato capitalista- non è indipendente né autonoma, ma prende ordini dal governo. Anche in Italia è così, se qualcuno pensa che la ‘ndrangheta o la camorra non siano al servizio dello Stato Italiano si beva un caffè.
Una modifica della Costituzione sembra essere il nocciolo della questione sollevata da Buronson. Il Giappone è infatti in uno stato di contraddizione, avendo su carta rinunciato al militarismo. Asami fa notare che però -come tutte le altre nazioni- anche il Giappone ha un esercito per la difesa interna. Propone diverse soluzioni per raggiungere una coerenza che non sia lesiva ma neanche autolesionista. In questo -io credo- Buronson abbia voluto rimarcare che il Giappone ha bisogno di emanciparsi da una legislazione vecchia e che ha diritto all’autodifesa, senza ricorrere a mezzucci o alla vastissima rete della criminalità.
Akira e Chiaki padroneggiano il loro territorio con grande sicurezza. In particolare Akira Hojo, il boss yakuza, sembra imbattibile. In questo Sanctuary pare anticipare quel tipo di videogioco a livelli crescenti di difficoltà, in cui i personaggi non cedono di fronte a fertite gravi e ostacoli impensabili, anzi, riescono ad aggirarli o superarli. Akira Hojo acquisisce la leadeship di buona parte della yakuza giapponese e Chiaki Asami riesce a portare dalla sua parte i membri chiave della politica, personaggi con uno spirito di ribellione e senso di giustizia non ancora sedati. Non mancano figure come il contabile e il banchiere, che all’occhio occidentale rimandano agli Intoccabili. Dopo aver portato a sé buona parte dei gruppi yakuza, Akira intende fare patti con la mafia russa e quella cinese, un sistema di criminalità transnazionale tra superpotenze che oggi appare più che mai saldo e longevo. Su questi legami Ikegami e Buronson si soffermeranno nuovamente nel poco noto Strain, che parte come vicenda umana e si conclude come azione politica, e che disgraziatamente non ha visto un seguito. Pur rimanendo al di sopra della maggior parte della produzione di manga contemporanei, Strain ha però un calo visibile di qualità rispetto a Sanctuary, che assieme a Heat rimane l’opera più bella di Ikegami.
Con gli occhiali tondi nella migliore tradizione dei banchieri che compulsano colonne fitte di numeri di quotazioni, ha l’abitudine di mandar giù mentine.
Nell’amicizia di Akira e Chiaki c’è ovviamente un accenno non troppo velato all’omosessualità e a quello che oggi chiamiamo BL o yaoi, le storie di amore romantico tra uomini. È fin troppo chiaro che tra i due protagonisti ci sia del sentimento non solo fraterno, anche se vediamo entrambi con delle donne. La personaggia che si lega ad Akira, la commissaria Kyoko Hishihara, è davvero futile e mal descritta proprio perché meramente funzionale a dichiarare Akira come eterosessuale. La compagna di Chiaki è un’apparizione fugace e quindi più simpatica e gradevole.
Akira ha un volto bellissimo, quasi quanto quello di Yo Hinomura di Crying Freeman, mentre Chiaki è descritto in modo più realistico, con il vezzo di aggiustarsi gli occhiali sul naso: un gesto ormai tipico di moltissimi personaggi dei manga e soprattutto degli anime (in cui ovviamente riesce più interessante grazie al movimento). È anche uno stilema ormai consolidato nel BL, come in Yuri!!! on Ice o Free! (Rei Ryūgazaki lo fa in continuazione). Akira riesce a uscire da uno stato quasi comatoso stringendo la mano di Chiaki (con l’aggiunta dell’elemento femminile dato da Kyoko che in questo frangente appare quanto mai superflua).
Tutti gli yakuza sono fraterni tra loro e la reciproca dedizione va oltre la verosimiglianza. Buronson affida a Tokai il compito di affrancare tutti i maschi presenti nel manga dall’ipotesi di omosessualità, facendogli violentare una donna ogni tanto, così, giusto per gradire. Lo stupro è quasi una regola nel manga e nell’anime giapponese, ma in questo caso non appare né hard-core né particolarmente stimolante, quanto “obbligato”. Tokai è il personaggio più importante e interessante dopo Hojo e Asami, e i suoi stupri occasionali lo caratterizzano in modo abbastanza inequivocabile, tuttavia non in modo unico e individuale. Risultano quindi gratuiti e strettamente funzionali all’indicazione di un orientamento straight. Questo fa perdere un po’ di freschezza al personaggio, che risulta invece molto più avvincente nelle sue manifestazioni di insolito e contraddittorio affetto per Akira Hojo o nelle spietate azioni da killer. Tokai è anche il personaggio che si muove di più, il più violento e lo yakuza più aderente all’immaginario.
Il dinamismo delle figure è straordinario. Al contrario del manga contemporaneo di azione, in cui i corpi (umani, di mostri, animali o altre figure) riescono a volte confusi e “impastati”, qui sono perfettamente separabili e comprensibili all’occhio, grazie anche a una retinatura pulita e attenta. Personalmente anche nei manga più celebrati,non ho più ritrovato questo stile elegante e dinamico.
Anche gli altri personaggi vengono descritti con bellissimi tratti, ognuno in modo molto individuale. Di sicuro il pubblico femminile troverà almeno uno su cui perdere gli occhi.
perdonate se non apro completamente i volumetti, ma non voglio rovinarliIl giovane Tashiro è uno dei miei preferiti
Un discorso quasi marginale è quello dei comportamenti sessuali di Akira Hojo e Chiaki Asami. In Crying Freeman la componente sessuale era di primaria importanza, Yo Hinomura s’è fatto anche i sassi della spiaggia. Ma si trattava sempre di rapporti etero, per quanto hard. Qui si vedono pochi accenni, specie su Asami, e la personaggia affiancata a Hojo è abbastanza noiosa, narrativamente inutile. Eppure è molto carina e ben descritta (graficamente), con un taglio corto piuttosto in voga qualche anno prima. Gli incontri tra i due sono sempre molto delicati e romantici, totalmente diversi da Crying Freeman.
Prima di stare con Kyoko, Akira ci viene mostrato come un ragazzo che si gode la compagnia femminile, anche in modo “domestico”. Il bacio sulla fronte che lei gli scocca mentre si alza per rispondere a una chiamata internazionale è familiarissimo: chi non l’ha mai fatto mentre si spostava nel letto?
Ikegami non disegna faccine e personaggi deformati, il suo stile è sempre verosimile. I personaggi vengono disegnati in modo appena buffo solo all’inizio, per attrarre il pubblico. Akira Hojo che mastica in modo poco elegante non si vedrà più.
Un altro soggetto di grande interesse è Ozaki, l’assistente di Kyoko Hishihara, di cui è innamorato. Ozaki stima Hojo ma è allo stesso tempo un poliziotto ligio e di valore morale. Posto davanti alla complessa scelta tra il suo dovere e l’affetto per il suo capo, il rispetto per un uomo che ritiene nel giusto, Ozaki sceglie la sua coscienza e non il suo distintivo. L’accenno di Tokai al “bacetto” non è davvero casuale. Ikegami e Buronson descrivono un mondo maschile in cui anche i rapporti sentimentali più forti vi risiedono profondamente.
Ma l’elemento che forse caratterizza Sanctuary più fortemente di ogni altro è la descrizione dei personaggi. Ognuno di loro ha una fisionomia perfettamente riconoscibile, delle “smorfie” individuali, tratti personalissimi e totalmente verosimili, aderenti alla fisionomia nipponica. I personaggi non si confondono mai tra loro, nè come personalità né come tratti. Hanno un’autonomia distinguibile, sorprendentemente vicina alla cinematografia. Siamo ad anni luce di distanza dalle opere contemporanee, in cui i personaggi dei manga hanno visi molto simili tra loro, che cambiano in rapporto ad abiti e capigliatura. Non sono quindi stereotipi, e neanche macchiette, ma personaggi veri e propri presi quasi di peso dalla realtà quotidiana.
Questo vale per gli yakuza, per i politici e per gli avversari. Diventa facilissimo per lettori e lettrici empatizzare con uno o con l’altro, prendersi a cuore una vicenda o l’altra. In questo senso non ho mai letto un manga che possa neanche lontanamente competere con Sanctuary.
Questa è una delle mie scene preferite, in cui uno spietato yakuza ricorda il calore e l’affetto delle mani della madre, irruvidite dal lavoro
Non c’è l’ombra della caricatura neanche nel personaggio apparentemente più buffo. Le ambientazioni esterne e interne sono rese con grande cura, in particolare l’abbigliamento tradizionale maschile, lo yukata e gli abiti da ufficio, giacche e pantaloni occidentali, che comunque Ikegami disegna sempre morbidi, in modo da mettere in risalto le gambe, sia nelle scene d’azione che in quelle statiche.
Sulle gambe e i piedi c’è un discorso particolare da fare quando si tratta di disegno giapponese. Se per noi occidentali la parte superiore del busto è molto importante, al punto che abbiamo inventato il ritratto a mezzo busto, per l’arte giapponese sono molto più importanti le gambe, che spesso sono chiuse al ginocchio. Lo abbiamo visto in molti manga shojo, come Il grande sogno di Maya (in cui peraltro la parte superiore del tronco pare disegnata con la zappa, mentre le gambe sono di una bellezza inarrivabile). La diversa interpretazione della bellezza delle forme corporee è una cosa che apprezzo e mi diverte moltissimo, perché ogni volta ci vedo in trasparenza un vaffanculo grande così a William Hogarth a Burke e Bacon.
All’occhio occidentale è una graziosità se il corpo è femminile, ma una stranezza se il corpo è maschile. Ikegami forse se n’è fregato di cosa pensiamo noi occidentali, forse non lo sapeva neanche, o forse ha preferito rimanere più aderente a un tratto nipponico, senza l’obiettivo di piacere anche al pubblico estero. Non saprei. Ma il risultato è che spesso i personaggi maschili hanno pose delle gambe delicate e mobide che li fa apparire “effemminati” al nostro occhio. In realtà per i giapponesi sono semplicemente belli e basta.
E ora vi lascio con alcune immagini che non sono sicura di avere inserito – se sono ripetute vi chiedo scusa ma ne ho caricate davvero tante. Di sicuro avrete capito che la mia assoluta preferenza è a Chiaki Asami, che per me è uno dei personaggi più sensuali mai disegnati. ❤
Autrice di Manuale di Giardinaggio Selvatico, Maria Ferdinanda Piva è giornalista dalla pluridecennale esperienza nel campo dell’ecologia. Il suo è un libro piacevole, informativo, in cui aleggia uno spirito battagliero. In questa breve intervista ho voluto raccogliere quello stile pungente e carico di energia che la contraddistingue.
Perché in città è più sentito e più importante lasciare un po’ di spazio alle piante selvatiche?
Lasciare spazio alla natura in città è fondamentale per gli esserini con le zampe e le ali che vivono accanto a noi e secondo me è fondamentale anche per noi stessi: ogni pur minimo frammento di natura ci somministra gratuitamente la terapia della bellezza, e ormai la natura è diventata difficile da incontrare.
La flora spontanea delle campagne è così immiserita che non sappiamo neanche più quanto possa essere bella. Così se dici “flora spontanea” la gente pensa “erbacce”.Anche a causa di questo equivoco, il verde urbano è quanto di più banale e innaturale possa esistere: praticelli all’inglese, aiuole e vasi di fiori esotici ed ibridi. Nulla di utile alla piccola e piccolissima fauna, che ha bisogno della flora spontanea locale per trovare nutrimento e rifugio.
E allora aiutiamoli, no? La flora spontanea è per loro ancor più utile delle mangiatoie invernali. Arbusti ed alberi che forniscono bacche e nascondigli per i nidi; fiori ed erbe adatti alle esigenze degli insetti che sono le loro prede.
Dici “insetti” e la gente pensa “infestazioni”. Altro equivoco. Le zanzare qui non c’entrano: le infestazioni di insetti strettamente legati ai vegetali non si verificano dove esiste una gamma di flora spontanea un po’ diversificata. Si produce una situazione in cui c’è sempre qualcuno che mangia qualcun altro. Niente proliferazioni eccessive, niente presenze troppo visibili o ingombranti.
Mi racconti di nuovo la storia dei fiordalisi e della tua vicina?
Papaveri e fiordalisi, per la precisione. Ho seminato anche loro nel mio piccolo giardino urbano dedicato alla flora spontanea locale. Desideravo un giardino da una vita… Dopodiché persone a me totalmente sconosciute hanno cominciato a fermarmi per strada: “Uh signora, mi hanno detto che è il suo quel giardino. Come ha fatto a far tornare i papaveri?”; “Oh signora, da quanto non vedevo i fiordalisi! È lei che li ha, vero? Credevo che non ce ne fossero più”. Eccetera. Una ragazza mi ha addirittura attaccato bottone al supermercato in pieno inverno: quando di fiori in giardino proprio non ne avevo.
E così ho capito due cose. La prima, che la natura “parla” a tanti esseri umani. La seconda, che dovevo scrivere il Manuale di giardinaggio selvatico. Infatti ho faticato per procurarmi semi, bulbi e quant’altro: esistono in commercio e non sono neanche cari, ma sono difficili da trovare. Una volta imparato come e dove cercarli, mi è sembrato giusto mettere le informazioni a disposizione di chiunque desideri servirsene.
Procurarsi i semi di piante spontanee era quasi impossibile un tempo, mentre ora le ditte semenziere dimostrano un maggior interesse, anche se la progressione in questo senso è molto lenta. C’è da sperare bene per il futuro delle piante spontanee italiane?
Le piante spontanee italiane possono sperare bene per il futuro nella misura in cui noi umani finalmente capiamo l’importanza della natura – di tutta la natura – e la necessità urgente di rispettarla e salvaguardarla. Perché ora la natura è in forte sofferenza, ma dalla natura dipende la nostra stessa esistenza in vita.
Un giardino selvatico non è la natura, ma un surrogato della natura. È un uno spazio artificiale e piacevole che può fare le veci di un frammento di natura e che sta alla natura come un caffè d’orzo sta ad un autentico caffè espresso. Far crescere flora spontanea in giardino è importante, ma preservare la natura lo è molto di più.
Però qui il discorso passa dal giardinaggio alla difesa dell’ambiente. Mi considererei fortunata se i lettori del Manuale di giardinaggio selvatico usassero il mio libro come un ponte che conduce ad una maggiore attenzione e consapevolezza nei confronti dell’ecologia.
Il libro può essere acquistato su Youcanprint. Acquista il libro a questo link.
“Un deserto tinto di verde”, così Maria Ferdinanda Piva descrive la campagna.
Copertina del libro Manuale di giardinaggio selvatico – Maria Fernanda Piva
L’appiattimento biodiversitale scoraggia la riproduzione di specie come le rane nostrane, i piccoli anfibi, i gechi, i predatori come volpi e donnole, gli uccelli notturni, e molti altri. Favorisce invece il proliferare di piante e animali più resistenti, molto spesso provenienti dall’estero, privi quindi del predatore naturale che hanno nel loro luogo di origine. È il caso del punteruolo rosso, della “farfallina del geranio” (Cacyreus marshalli), ma anche delle tortore e delle gazze, che occupano spazi importanti per gli altri uccelli che richiedono un habitat uniforme e biologicamente vivace, laddove non diventino predatori essi stessi.
L’impoverimento della vegetazione selvatica conduce gli animali a cercare cibo nelle zone abitate, spingendoli a attraversare strade o frugare nei mastelli della spazzatura, con danni ormai noti a tutti. Quanto bisogno c’è di restituire un po’ di spazio sottratto alla vegetazione spontanea? Moltissimo sostiene Maria Ferdinanda Piva. Una sosta su un fiordaliso in un vaso o una balconetta, in pieno centro urbano, può essere un regalo impagabile per una farfalla che transita. Ed ecco da dove nasce il suo libro Manuale di giardinaggio selvatico, in cui vengono raccontate e spiegate le specie selvatiche più facili da collocare in un giardino già esistente, o da creare ex novo.
Il libro è una lettura rinfrescante nel settore della manualistica, afflitta da pubblicazioni ripetitive e non centrate sull’Italia. Il piglio rigoroso di chi si basa sui fatti e una scrittura asciutta e senza fronzoli sono caratteristiche del giornalismo vecchio stile, abituato a fornire informazioni da cui i lettori traggono poi le loro deduzioni. Piva spiega subito che un giardino selvatico non è una ricerca sentimentale della pianta coltivata dai nonni, né un ripristino ecologico, per il quale servono competenze elevatissime, esperienza professionale e conoscenza delle Scienze Naturali. Il giardino selvatico è uno spazio, magari piccolo ma gradevole, che “accoglie la piccola natura del posto”, opponendosi all’impoverimento progressivo e alla sua scomparsa. Con il termine “natura”, Piva intende tutta la natura, quindi anche i piccoli animali e gli insetti. Inoltre il giardino selvatico è a portata di gestione di mani da principiante, o di chi ormai ha troppi inverni sulla schiena. Può essere realizzato in spazi davvero esigui, dal balcone al piccolo cortile di città, fornire anche un po’ di piante per la cucina ed essere al contempo anche molto bello, grazioso e profumato. Oltre al piacere di vedere un po’ di vita che vi si insedia o che vi transita.
Un punto importante su cui Piva insiste è di evitare la raccolta diretta in pieno campo. Non è consigliabile né dal punto di vista ecologico né della salute, se si vogliono usare le erbe per tisane o per la cucina. Ed ecco sollevata un’interessante questione: le ditte semenziere propongono molto spesso piante selvatiche, ma si tratta spesso di varietà ibridate, alcune volte a fiori così doppi da essere inaccessibili alle api o altri insetti. Segno che anche l’occhio si è ormai disabituato alle forme di fiori come il fiordaliso o il rosolaccio, poco aggraziati rispetto alle selezioni o varietà ornamentali.
Il volume affronta generi e specie spontanee per utilizzo, aiutando così una ricerca veloce tra le pagine: dal prato al balcone, alle zone in ombra al sostegno di farfalle o altri insetti. Un capitolo molto interessante è dedicato alle siepi. Le siepi di campagna sono state il baluardo della fauna e in parte della flora selvatica. Soppiantate da divisori metallici o alla meglio da file di alberelli in monocoltura, le siepi miste erano riserva di cibo e protezione, nicchia ecologica privilegiata. Non mancano indicazioni sulle rampicanti, sulle piante amate dagli insetti impollinatori, che sono fondamentali nella frutticoltura, e sulle piante alimentari. Per ogni tipologia di piante c’è un apparato di foto e una serie di link e indirizzi per conoscerle meglio botanicamente e per l’acquisto in rete. Le ditte semenziere consigliate sono affidabilissime, da numerose ho acquistato semi con ottimi risultati. Non mancano indicazioni semplici e molto comprensibili su come convertire o modificare il proprio giardino, su come comportarsi di fronte a un’incertezza, cosa togliere e cosa lasciare.
Il catalogo è aggiornato all’autunno scorso.
Il punto di vista di Piva è neutrale, fattivo, organizzato. Un libro ammirevole per la godibilità della lettura, per capacità di sintesi, quantità e qualità delle informazioni focalizzate sull’Italòia, sulla sua ricchezza biodiversitale, che per la particolare natura del clima, mal si attagliano all’Italia, sia da un punto di vista orticolo che culturale. In numerose occasioni Piva si sofferma sulla distribuzione delle piante sul nostro territorio, aggiungendo fascino alle descrizioni.
Maria Ferdinanda Piva, giornalista dalla pluridecennale esperienza nel settore dell’ambiente e dell’ecologia, ha scritto un incalcolabile numero di articoli su riviste e siti specializzati, come Terra Nuova e Greenplanet. Ha collaborato con la RSI, radiotelevisione della Svizzera Italiana, e con Blogeko. È stata assistente parlamentare accreditata. Vive e lavora a Torino.
A Laurel Stevenson è toccata una sorte non comune nella sua vita di personaggia inventata, ma una iella piuttosto diffusa nell’elaborazione narrativa.
Laurel è una delle due protagoniste del racconto I Langolieri di Stephen King, Anno Domini 1990. L’edizione che ho io è quella pubblicata da Sperling nel ’91, in due volumi (Quattro dopo mezzanotte) .
Sembra un millennio fa, e forse lo era. Nel 1990 scoppia la guerra in Kuwait, parte l’operazione Desert Storm, inizia la guerra in Jugoslavia, Germania Est e Ovest si riuniscono. Nel 1990 l’OMS cancella l’omosessualità dal registro delle malattie, mentre occorrono ancora sei anni -sei- perché in Italia lo stupro diventi un reato contro la persona e non contro la “morale pubblica”.
A Mosca apre il primo McDonald’s e Kasparov batte Karpov, la notte di capodanno.
In questo clima non stupisce che la povera Laurel sia stata ritratta come una pescelessa, perfino da Stephen King, che ha sempre avuto una certa attenzione alle acquirenti femminili, anche se pruderie, turgori qui e lì, scenette da due spiccioli e grattatine varie, non mancano mai nei suoi romanzi e racconti.
Non è che ci sarebbe molto da considerare: Laurel Stevenson è la tipica personaggia di sponda, che viene sempre vista attraverso l’occhio maschile. Se Dinah, la bimba cieca, appare come il carattere femminile più rilevante, e perfino la quasi-comparsa, Bethany, ha maggiore autonomia descrittiva, Laurel rimane pescelessa dal primo all’ultimo momento. Percepita dapprima attraverso le sensazioni di Dinah, e immediatamente dopo da quelle di Nick e Brian (i due protagonisti del racconto), racconta sé stessa poche volte, e solo riguardo alla sua scarsissima attività sessuale. Grazie mille.
Darren, ti siamo vicini
Zio Stevie la smerdacchia sin da subito, facendoci sapere che sta mentendo sulle ragioni del suo viaggio, e che la menzogna serve a coprire -mio dio!- un appuntamento al buio con possibile scopata finale. Laurel, quando Zio Stevie fa così, non c’è rimedio, sei spacciata!
Ed è un vero peccato, perché non è Dinah il carattere femminile più di rilevo, ma proprio la nostra cara Laurel, che attraversa il racconto in modo sempre più intenso e presente, mentre Dinah è il classico personaggio-chiave, la bambina veggente nelle cui sensazioni tutto è riposto, in cui è la soluzione del problema e in cui risiede la salvezza per il gruppo. Dinah non esce dal solco classico in cui King pone i personaggi che ricoprono il ruolo di motore narrativo, né potrebbe farlo in una dimensione molto ridotta, quella del breve romanzo (I Langolieri è lungo circa 250 pagine, che per King significa davvero “breve”). In questa lunghezza lo Zio Stevie non è in grado di compiere mirabili sintesi, come tanti altri autori o autrici, e a maggior ragione non lo era nel 1990. Si assapora infatti una certa ruvidezza stilistica, un grezzo ancora non polito, tipico dei suoi racconti più vecchi. Era la fase in cui migrava verso uno stile più maturo e liscio, lavorato, forse meno fresco, ma più consapevole e attento – e per me certamente migliore.
Rendere Laurel più apprezzabile senza ledere la posizione narrativa di Brian e Nick è qualcosa decisamente alla portata di King. Diciamolo: Zio Steve ha svaccato mille e mille volte, ma nessuno come lui riesce a rendere i personaggi tridimensionali e amichevoli, veri. Il Vecchio riesce sempre a infilarti una frasetta che dipinge quel personaggio, una frasetta che torni a rileggere dieci volte, di cui conosci esattamente la posizione in quei dannati libroni, quella frasetta che sai ritrovare nella peste delle sue trame dispersive, “quella frase” che in qualche modo racchiude tutta l’esperienza di lettura. Sì, forse nessuno come Stephen King, oggi, sa fare bene questa cosa qui. Potete gettargli addosso il fango che volete, ma datevi pace: lui lo sa fare.
Perché non lo ha fatto per Laurel? Semplice, perché Laurel non gli interessava. Classica rappresentazione della femmina da narrazione di pessimo livello: il personaggio che serve solo a rendere più interessanti i maschi. È infatti attraverso Laurel che il Fedele Lettore inizia ad assaporare la parte più tenera di Nick, ed è attraverso Laurel che Nick diventa coprotagonista assieme a Brian. L’essere trottolata da un maschio all’altro non fa bene a Laurel, ma soprattutto non fa bene al racconto.
Con Laurel lo Zio si è preso troppe libertà rispetto alla sua consuetudine. Non solo la appiattisce come una sogliola sul fondale, ma compie un errore fatale: la fa pensare in modo assurdo e inverosimile, in cui una lettrice anche disattenta non può né riconoscersi né ravvisare un minimo di credibilità, e che un lettore maschio sarà invece portato a ignorare o rimuovere. Chiedete a qualsiasi buon kinghiano chi è Laurel dei Langolieri: non se lo ricorderà. E questo, questo è infamante, Zio!
Di sicuro c’è chi ha considerato il reato più grave del racconto dell’orrore, la comicità involontaria. Io l’ho considerata, nella scena che segue.
Incoerenza logica e narrativa: se un personaggio perde la testa, non è consapevole di averla persa. Se la perde consapevolmente o è pazzo o delinquente. Laurel qui sragiona continuando a ragionare. E tu vuoi che io, fedele lettrice, me la beva? Zio, valla a vende a qualcun altro!
Dopo un po’ lo Zio ha smesso di fare così, rendendo autonomi anche i personaggi minori, e perfino le occasionali apparizioni hanno a volte un qualcosa di indimenticabile. Laurel è rimasta invischiata altro che in una frattura spazio-temporale, è rimasta invischiata in una transizione stilistica e contenutistica di uno degli autori più noti e venduti degli ultimi cinquantt’anni.
Che rogna. A confronto i langolieri stessi sembrano un niente.
"Quando guardiamo il cielo di notte ci soffermiamo ad ammirare le stelle a caso senza seguire uno schema.. lasciamo che la nostra fantasia si perda in questo immenso soffitto brulicante di luci... una stella grande.. qualcuna piccola.. un'altra azzurra ed una rossa! Luci lontane che forse ora non esistono neanche più.. eppure sono lì le guardiamo ogni sera quando le nuvole ce lo permettono.. luci che continuano a brillare .. a vivere.. che continuano a farci sognare! Questo BLOG vuole essere uno spazio semplice, senza pretese, uno spazio dove antichi sorrisi e sguardi continuano a brillare come stelle... semplicemente continuano a vivere nell'immenso cielo della rete." (Domenico Nardozza)