Nel mese scorso “Gardenia” ( sulla quale sono sempre molto scettica), mi ha stupita con un bel reportage di Costanza Lunardi su un giardino catanese e con la pagina finale dell’allegato “Rose e Tulipani”, scritta da Stefania Bertola.
Il giardino è chiamato “le stanze in fiore di Canalicchio”; le foto di Dario Fusaro, come al solito molto suggestive e pulite, forse consapevoli di qualche omissione, ritraggono una sorta di oasi paradisiaca con vegetazione mediterranea e tropicale disposta alla maniera inglese, cioè quella tipica sistemazione che viene chiamata “giardino mediterraneo”, che di mediterraneo ha più o meno solo il nome, essendo in realtà un’invenzione di quelli che Guido Giubbini chiama “inglesi refiosi” che nella seconda metà dell’Ottocento venivano a trascorrere le vacanze o il resto della vita in Italia, e che così si immaginavano che dovessero essere i giardini mediterranei: una versione subtropicale del loro giardino settecentesco.
Albion caput horti
Il giardino è bello, ben concepito, di quelli che hanno la venustà della vecchiezza, che è una delle doti più pregevoli in un giardino. Piante locali, come il fico d’india, frammiste a piante più inusuali e difficili, come le felci arboree, l’erba nuova in mezzo a vecchi scalini, abbeveratoi in pietra come fontane, dovunque il senso dell’ “eredità”. Niente bordure per i fiori, anche perchè avrebbero stonato, al loro posto invece delle vasche rettangolari per i fiori da taglio, un po’ come quelle che desiderava Russel Page per un suo giardino privato.
Le rose non vengono neanche nominate.
Non manca neanche qui, però, una forte concessione al contemporaneo gusto del consumo dei luoghi. Luci a scomparsa attorno al laghetto per una suggestiva visita notturna, la piscina per nuotare (non si capisce bene se privata o no, ad ogni modo la piscina -secondo me- dovrebbe essere un elemento a parte di ogni giardino), e gli stuzzichini siciliani con un nome inglese. Tutto molto molto “very cool”, da sciure che l’aperitivo non gli basta, che per sentirsi soddisfatte devono aver consumato un po’ di antichità, perchè la modernità è alla portata di tutti, sciure che non hanno problemi se menu e prezzi sono da concordare.
Insomma, c’è anche lì la longa manus del consumismo moderno e del consiglio per gli acquisti ma il giardino, perlomeno visto in fotografia, vale una visita anche se poi bisognerà tenere il portamonete lontano dagli stuzzichini.
Direi: palla al centro.
“Gardenia”, che è sempre un po’ eguale a se stessa, sembra comunque essersi sollevata dalla sciatteria di qualche anno fa, per volgersi ad un pubblico dal portafogli ben gonfio e dai gusti raffinati (o falsi raffinati?). Invece l’allegato “Rose e tulipani” non era male, e la pagina finale scritta da Stefania Bertola, direi insuperabile. Una delle migliori cose che ho mai letto su “Gardenia” e una delle migliori cose che ho mai letto in assoluto su una rivista.
Lo riporto integralmente:
LE ROSE SONO COME I GATTI, se ne fregano. Non conoscono amore e fedeltà, sono bastardelle rese presuntuose da secoli di venerazione, e sono sempre pronte a mollarti per una ciotola più profumata o un cuscino più morbido. Prendete le mie. Hanno adocchiato il ristorante, già da tempo. Io le ho amorevolmente piantate in una aiuola che corre lungo una cancellata, oltre la cancellata c’è un ruscelletto, e oltre il ruscelletto un ristorante. E l’unico scopo nella vita di quelle disgraziate è allungare rami, spine e fiori fino a superare il gap e approdare trionfalmente nel cortile del vicino. Cosa sperate, cretine? Che i simpatici camerieri giapponesi vengano a imboccarvi di tortino al cioccolato fondente e sformatini di carpa? Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste, dovreste saperlo: non sono per voi, i golosi avanzi dei provinciali. E allora perché vi stremate in questi assurdi tentativi di fuga, che vi portano a sbocciolare nel nulla? Osservate, vi prego, il mio giardino in maggio. Lato casa: foglie foglie foglie spine spine. Lato ruscello: rose, roselline, boccioli, gruppetti, un profluvio incantevole di sfumature rosa, bianche, confetto, alba, tramonto. Fiori che allietano la vista di chi va ad aspettare l’autobus, o delle auto di passaggio, mentre noi ne intravediamo a malapena qualcuna, forse più timida delle altre, o più pigra chissà. Io le acchiappo con un bastone dell’Ikea, quelli con il gancio in fondo per appendere i vestiti negli armadi alti, e le rivolto insultandole, e lo vedo benissimo, nell’espressione dei fiori, che appena girerò le spalle ricominceranno a crescere verso il ristorante. Sono galline in fuga, anche loro.
Quelle che non possono scappare di casa, manifestano la loro indipendenza creando insetti. Creando, non ospitando. Li fabbricano in proprio, confermando le teorie di Aristotele. Un bel cespuglio di rose bianche, adagiato attorno allo steccato dell’orto (chiamiamolo così), produce abbondanti boccioli graziosi e compatti che però, quando si aprono, contengono già al loro interno un insettaccio nero che mi ride in faccia e divora tutti i petali. Gli spruzzo cose, e loro ingrassano. Che insetti siete? Appartenete al nostro mondo, o siete fatti della stoffa degli incubi, come i Manga giapponesi? E la rosa rossa sul muretto? Perché non fa NIENTE? E dico niente. Non fiorisce, non muore, non fa foglie, non si secca, non dà segni di vita e neanche di morte. Sta. Un rametto verde nel terreno, vivo ma inerte. Esisterà la depressione fra i vegetali? Devo darle il lithio, invece che quel buon letame di cavallo? Questo spirito di menefreghismo nei confronti del committente sta contagiando anche le ortensie, quel fiore buono e ottocentesco, un po’ la nonna dei fiori, diciamo, la simpatica zia rotondetta che suona vecchi valzer su un pianoforte scordato. Nessuno si immagina di vedere le ortensie in prima fila a una manifestazione contro il G8. Eppure, anche loro quest’anno hanno cominciato a fare le furbe: fioriscono solo ed esclusivamente raso terra. Grandi piante piene di salute, che mettono i fiori sui rami bassi, come una specie di bordura che si impolvera e langue. Io le vedo, le ortensie in giro, che sembrano disegnate da una bambina pignola, con quei fiori ben distanziati e regolari, fitti fitti, tanto belli che ti chiedi perché la gente in Piemonte si ostini a piantare oleandri. Le mie mi ridono dietro, e di notte bisbigliano con le rose: «Rendiamole la vita difficile. Hai parlato con i bulbi? Gli hai detto di passare direttamente dal boccio al marcio? Si? Ottimo».
E come i gatti, le perfide rose sanno farsi perdonare. Basta un fiore perfetto una mattina di giugno, e le doneresti anche il sangue.
Leggo “Gardenia” fin dal primo numero e concordo pienamente sulle considerazioni sugli articoli della rivista.Sarei però un pò dubbiosa sulla tendenza a rivolgersi ad un pubblico con il portafoglio ben gonfio: nella realtà l’ostentazione di ricchezza non è strettamente legata al possederla.
Per altri versi diverte notare che,a volte, sembra più un elenco di titoli araldici che una rivista di piante,orti e giardini.
nella realtà l’ostentazione di ricchezza non è strettamente legata al possederla.
Hai perfettamente ragione!
Ciao Lidia
Il pezzo di Stefania mi ha letteralmente accesso 🙂 Grazie!
Gardenia come tante riviste patinate lavorano sul sogno del giardino: ne stuzzicano il desiderio. Nella loro pigrizia a volte ricordano certe riviste per soli uomini, quelle zuppe di supposti sogni di femmina dove la qualità più che gli ormoni muove gli sbadigli… Fortunatamente però giardini e femmine (e uomini) non sono solo affare di sogni e chi li frequenta, biblicamente intendo, anche senza tanti sogni, forse proprio perchè senza tanti sogni, può gioiosamente godere.
Accidenti, Paolo, sai che questo paragone con le riviste per soli uomini pi piace davvero tanto?! Credo che lo adotterò. Ti dispiace se ti cito?
Senza remore Lidia 🙂