Tristissimi giardini

Non c’è niente da fare, con certi libri non si può lottare. Ho fatto quest’ora per finire Tristissimi giardini, e non ho sonno per niente.
Il libro mi ha annullata, cancellata come una sabbiatrice scrosta la vecchia vernice, m’ha lasciata impotente, la testa che gira a vuoto.
Una recensione? per dirla con parole non disprezzate dall’autore, non è cazzo mio.

Buttiamo giù appena qualche impressione a caldo.
Sin dalla prima frase si avverte una spigolosità della scrittura, che rallenta la lettura e costringe a tornare più volte sullo stesso periodo. Ma una volta trovato il ritmo si procede, anche sulle frasi a volte lunghissime, più vicine al linguaggio del pensiero che a quello della saggistica.
Non sapevo bene a che pensavo quando l’ho comprato: ho capito subito che non era una trattazione legata esclusivamente al tema dei giardini, ma che era una descrizione del Nord-Est. Boh, dicevo, ne parlano tutti così male, soprattutto quando si tratta di giardini, che forse questo ne parlerà bene. Sarà un po’ come il Kansas di Prateria.
In effetti il libro mi ha molto ricordato Prateria, perchè è o aspira ad esserlo, una mappa in profondità.

A pagina 8 ho dovuto mandare un messaggio ad Alessandro, a pagina 11 telefonargli.

Ad ogni frase saltavo su dalla poltrona e più volte ho dovuto rileggere per confermare quanto i miei sensi stavano acquisendo: ma ho letto giusto? ha scritto proprio questo?
In un mondo in cui la comunicazione è diventata forma, nel senso peggiore del termine, in cui questa forma è patinata e levigata come le modelle di Dior ritoccate con strumento toppa a Photoshop, una prosa caustica e provocatoria è un bene rarissimo, un regalo dell’Alto dei Cieli. E’ come una zappa che lavora la terra, è lavoro della mente, è raggionare.
Sorge spontaneo un impeto di ringraziamento all’autore, che vende, ma almeno vende idee genuine, rrrobba bbuona, rrrobba frisca.
Che potenza di ironia, il Witz tedesco, l’arguzia, la capacità di afferrare il lettore e sostenerlo a braccia per portarlo con sè, anche quando è riluttante.
Una scrittura leggera quando deve essere leggera, dolorosa quando deve essere dolorosa. Un libro attraverso cui si intravede un carattere irascibile e lunatico, ma chi l’ha detto che chi scrive saggistica debba essere per forza saggio e soprattutto, sereno, anche ad una certa età?

Non spiegarmi le cose, fammele vedere, ti crederò più facilmente: è questo che fa Trevisan, inquadrando il Veneto partendo dalla lingua e dal territorio. Una descrizione impietosa, agghiacciante, raggelante, che fa passare la voglia di emigrare anche ad una meridionale disoccupata.
Tra vistosi calci nel sedere ai cliché della cultura veneta (Rigoni-Stern, Palladio, Scapin, Menghello) e della sua società (gli extracomunitari, la periferia, i rapporti di vicinato), una polemica teatrale con Paolini, la sfacciata dimostrazione del pensiero acritico e strumentale della politica che fa (o meglio non fa) cultura, l’autore trova lo spazio per raccontare il suo rapporto personale con la città, il giardino della madre, la sua moto, la lingua italiana e dialettale, la filosofia, i fantasmi del suo passato.

Un libro decisivo.

13 pensieri riguardo “Tristissimi giardini

  1. santa Lidia, per fortuna ci sei tu che mi salvi, in questa torrida (avevo scritto torbida!) estate solitaria in città. Qua sono spariti tutti e io per il momento non ho più nessuno con cui parlare di giardini, potrei suicidarmi sai?
    Vedi a che ora antelucana sono sveglia? è la crisi di astinenza che mi tormenta.
    Ma dici che è decisivo ‘sto libro? e parla abbastanza di giardini o serve solo a tenere alla larga gli aspiranti immigrati?

  2. Ma tu guarda la combinazione: giovedì mattina a radio 3 (ho un appunto sul quaderno dove segno i lavori) ne hanno parlato e ho subito pensato di prenderlo. Bene!

  3. eppure in estate uno dovrebbe alzarsi all’alba per innaffiare…giardinieri in piedi dovrebbero essercene.
    Io ho preso sonno a mattina fatta, verso le otto, e mi sono svegliata alle 11.

    Questo libro mi ha coinvolta in maniera totalizzante, mi ha emozionata fortissimamente in un modo che non mi ricordo dai tempi di Pizzetti e Assunto. Mi sento il cervello continuamente coinvolto, che gira come una betoniera.

    Non parla “abbastanza” di giardini per essere un libro sui giardini vero e proprio, ma parla dei sentimenti che attorno ai giardini e alla terra, all’identità, si sviluppano.

    Io ne sono entusiasta.

    1. se avessi il giardino sottocasa, mi alzerei volentieri anch’io all’alba!
      Però mi hai convinto; appena ho terminato i due libri che ho appena iniziato, vado a cercarmelo

  4. Brava, è così che si fanno le recensioni, con la testa, col cuore e anche un po’ con la pancia (solo un po’, ve’), che fanno venire voglia di leggerlo, un libro, mica solo averlo lì come strumento da usare una volta o l’altra. Lo avevo notato quando mi era arrivato in libreria, settimane fa, e avevo pensato di segnalartelo, poi avevo visto che i giardini non erano il soggetto centrale e ho lasciato perdere, anche perché mi sono detto che avrai già i tuoi canali per acquisire informazioni: Però la prossima volta vincerò l’accidia.

  5. Non lo conosco abbastanza per esprimere un’opinione non superficiale. Qualcuno dei libri precedenti lo ricordo vagamente (i buoni librai non leggono i libri, sarebbe troppo facile: devono improvvisare coi clienti basandosi su sbirciate ai risvolti, ricordi di presentazioni dei promotori, mezze recensioni e pareri di lettori-campione fidati); come attore l’ho visto nello sceneggiato su Basaglia “C’era una volta la città dei matti” e mi è sembrato molto bravo a interpretare un personaggio molto sgradevole. Mi pare che abbia una faccia piuttosto interessante e che può adattarsi anche a ruoli “normali”. Certo di cose ne ha fatte tante, tra libri, film e teatro, Vedrò di approfondire.

  6. Dunque, l’ho finito anch’io. Mi è piaciuto, ma non posso concludere come te “Un libro decisivo”. E’, a detta stessa dell’autore, caotico e disorientante come la materia di cui tratta, mettendo un po’ troppo le mani avanti. Alla fine a me è rimasta l’impressione che lui fosse troppo impastato con e della realtà di cui parla. La materia gli scappa dalle mani e lui dice che è proprio colpa della consistenza della materia, non sua che a volte non ha gli strumenti adatti all’operazione.
    Dice di non volersi trasformare in un “professionista della realtà”, bene, ma a volte senti che gli mancano le parole giuste, la giusta geometria per impadronirsi del mondo e dargli uno sguardo sì umano, ma anche oltre.
    Bellissimo titolo.

  7. Gentile Lidia, ho letto anch’io il libro nel periodo in cui l’ha letto anche lei e anch’io sono rimasta molto contentina. Il titolo mi aveva incuriosita, anche se avevo capito subito che non parlava di giardinaggio e forse proprio per questo l’avevo comperato di corsa. Mi ha fatto venire in mente un episodio che mi era capitato tanti anni fa (15?). Ero a Montegrotto Terme per fare un piccolo documentario alla Casa delle Farfalle e per caso incontrai la compianta Donvito (organizzatrice di … come cavolo si chiama? La mostra di torino del Fai) e Giullini, quello del Giardino Storico di Padova. I poveri erano lì per far da giudici al giardino e al balcone più bello del paese. Mi coinvolsero e devo dire che fu un’esperienza decisiva per il mio futuro. Allora ero abituata a girare solo per grandi giardini come la Landriana, Ninfa, Vignanello, Samminiatelli, Pejrone, Castel Giuliano, Villa Emo e tutti gli altri storici e non storici … in poche parole ogni volta che si parlava di giardino io entravo in una sorta di estasi. Probabilmente giravo anche con gli ochhi foderati di prosciutto della migliore qualità che mi aveva impedito di guardare attentamente quello che c’era in giro, anche se i guasti al paesaggio li avevo già notati, eccome! Ritornando a palla, questi mi portano in giro a vedere tutta una serie di casette linde e pinte, con tutte, ma tutte, intorno il pratino all’inglese, i vasi con la surfinia e le begoniette e, in un angolino di tre metri per tre, il trittico: Magolia grandiflora, liquidambar e cedro dell’Atlante. Per fortuna non era ancora di moda il tronco dell’ulivo. Non c’erano neanche i nani, una però aveva solo alberi piangenti e noi lo chiamammo “tristissimo giardino”. Per disperazione, decidemmo di dare il premio ad un albergo che aveva tutte le finestre adornate da vasi di surfinie. Ce n’era però uno bellissimo, ma non era in concorso. Era di una casa di campagna ed aveva tutta una bordura di emerocalli arancio sulla strada, dentro c’erano i gigli di Sant’Antonio, le rose, le zinnie, il bersò d’uva, i vialetti di ghiaia, i cespugli, l’erba della Pampa. Una grande confusione. Che bello!
    Abito a Roma, ma sono veneta e sono anche nata in una vecchia fabbrica. Mia madre era amica della vecchia Parise (era la più scandalizzata di suo figlio che aveva appena scritto il prete bello). Da piccola andavo in giro per la campagna in bicicletta cantando a squarciagola. Era tutto poverissimo e bellissimo. Perchè le storie devono sempre finire male?
    Per la cronaca sarei anche la Zinnia della CDG.
    Saluti
    Lucilla

  8. Dimenticavo qualche cosa di significativo per farle comprendere lo spirito del luogo. Dopo la lettura del libro telefonai ad una mia conoscente vicentina per chiederle se lo conoscesse ed eventualmente avere il suo indirizzo di posta elettronica (di Vitaliano Trevisan). Lei, che è una donna impegnata e di buone letture, mi rispose che personalmente non lo conosceva…”…ma quello è un matto!”
    Questa è la provincia veneta, cara mia

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