Credo sia una fase necessaria dell’educazione del giardiniere prendere a un certo punto le distanze col giardino. Non con il concetto di giardino o l’idea di giardino, ma con le epifanie di giardino, cioè con le rappresentazioni materiali dell’idea e le procedure comuni ad esse legate.
Non so se questo rigetto, tutt’altro che improvviso, ma crescente negli anni, sia dovuto ad un legame con la Natura più forte e invincibile di qualsiasi altro. Il sentirsi parte di un insieme vitale, sviluppatosi in uno spazio localizzato (un pianeta), e ancor oltre, frutto di una lunga, eonica elaborazione di un insieme superiore e più grande (l’Universo così come lo immaginiamo), pone i giardini su un piano di valore totalmente disallineato a quello comune, cioè il punto di vista del giardiniere, dello storico dell’Arte, del progettista, dell’agricoltore, avvicinandolo a quello del naturalista e del biologo quando non a quello del narratore di fantascienza.
Da questo punto di vista i giardini perdono completamente interesse soprattutto nella loro diffusa forma di “falso borghese”.
Mara Miller scrisse che non esiste falso in giardino per via dell’unicità dell’elemento biologico. Credo che non ci sia concetto più sbagliato di questo. Il falso in giardino è presente quanto in pittura e in scultura, ed esistono giardini che sono come le statuette di gesso della Madonna, della bella contadina o della ninfa dei boschi, su cui è ben visibile la traccia laterale dello stampo. Giardini che sono come un “falso d’autore”, una stampa digitale di Monet incorniciata nella sala d’attesa di uno studio medico, giardini come le cartoline olografiche di Padre Pio sulla bancarella della fiera di paese e via via giù verso il basso, fino ai fiori finti e la palla di neve natalizia.
Mi ha preso un’avversione per questi giardini che mi viene la voglia di cancellarli con una potente riga rossa dalla dichiarazione di status di giardino.
Mi chiedo come gli altri non vedano il falso, la “forgery” soggiacente (Mara Miller, Garden as an Art, SUNY Press 1993). In Italia questi giardini nascono da un’imitazione, da pellegrinaggi verso le terre di Albione, Sissinghurst, Le Vastérival, Chaumont-sur-Loire o il Chelsea Fringe. Quando va bene. Quando va male sono frutto di visite costanti alla fiere specializzate, tour di vivai, abbonamenti a riviste anglofone. Sono il risultato di una buona condizione economica unita a tempo e risorse (acqua, accesso alle piante, alle informazioni, agli strumenti di mantenimento), che aspira a una dimensione più elevata, cioè quella proposta dai paesaggisti internazionali (che già sono copie di se stessi), di cui si raccolgono le suggestioni stilistiche più superficiali, più immediatamente visive, come le siepi di Wirtz, le onde di Hummelo, i cerchi di Jenks, le graminacee di Oudolf, ma che non si spinge ad una “sincera elevazione del gusto” (Guido Giubbini, Rosanova n° 24, aprile 2011).
Non hanno nessuna originalità, nessun estro, nessuna aspirazione. La massima ricerca è capire che fungo ha preso il prato o se tra questa e quella rosa è meglio il giallo freddo o il giallo caldo.
Insomma, raggiunta la maturità della tecnica orticola, intesa come cura delle piante e capacità di giustapporle, il giardino-falso lì si ferma. Persino la detestata brodura inglese fa qualche passo in più, arrivando a una capacità compositiva elevatissima che di per sé diventa stile e linguaggio. Come a Hidcote Manor, che supera il limite imposto dalla materia usata (non sobbalzino coloro che non accettano il termine “materia” per le piante: si intende qui la “cosa” di cui è fatta l’opera d’arte. Anche Michelangelo superò il limite della materia usata).
Le rose, in particolare, in questi giardini-falso, diventano emblema della “forgery”. Tutte identiche, tutte ben tenute, tutte straripanti di fiori, tutte antiche o anticheggianti, tutte straspampanate, tutte strabordanti e straromantiche al punto da farti prendere un attacco epilettico.
Povere rose, perché? Capisco allora certe frasi un po’ trancianti di persone che dichiarano una forte avversione per le rose. Per le rose usate in quel modo, senza alcuna misura nè criterio, sì.
Da creatura sensuale e mistica, la rosa diventa volgare e senza fascino, perfino ridicola e disturbante, presenza asfissiante, claustrofobica, nauseante.
Le pratiche di manutenzione, poi, così apertamente insostenibili dall’organismo “Terra”, non le tollero in alcun modo. Perché il giardino viene inteso come un mezzo per dimostrare una maggiore “bravura”, specie tra gli appassionati, e questa “bravura” aumenta esponenzialmente in misura della perfezione delle corolle.
Ma un vero giardino non ha paura del fango e degli insetti (Maurizio Usai, Rosanova n° 23, gennaio 2011)
Svegliatevi e prendete il vostro caffè: i fiori non fanno un giardino.
“Falso-borghese”: magari qualcuno si chiederà perché ho scelto questa locuzione. Perché si tratta di copie di giardini, copie non creative, non elaborate. Sono, in poche parole, la riproposizione acritica e pedissequa di strutture giardinicole già sperimentate e anche obsolete o obsolescenti. Strutture facenti capo alla bordura mista (legnosa, erbacea, francese o inglese, non cambia poi molto), in cui l’elemento centrale è la cura della pianta, che riconducono alla pratica hobbistica del giardinaggio e non all’idea creativa di un giardino, alla “kepoiesi”.
A questi giardini manca l’intenzione, manca quello che chiamo “il coraggio del passo del leone”, o “il coraggio della fede”, se siete spiritualisti.
Perché “borghese”? Perché oggi siamo tutti borghesia. Tuttavia il termine, usualmente, accomuna chi ha un maggiore potere d’acquisto, magari non elevatissimo, unito a un maggiore capitale culturale.
Non sono giardini “ricchi” ma dimostrano comunque un certo agio, e se consideriamo il fatto che il giardino sta ritornando ad essere molto costoso, anche “un certo agio” è una dimensione più ristretta di quanto non fosse vent’anni fa. Spesso sono piuttosto piccoli e sono sempre amatoriali. Nascono in un ambito culturalmente aperto e fertile, spesso aggiornato, ma non solido e profondo al punto da spingersi oltre l’imitazione.
Io li trovo immensamente tristi. Tristi per me, non per essi stessi. Anzi, di solito chi li abita è felice, e quello che ha fatto gli basta, in questo senso si potrebbe dire che sono “onestamente falsi”.
Sia come sia, io non riesco a trarne nessun profitto, nessun godimento interiore. Mi paiono come un libro scontato, un film scialbo, un piatto insipido. Sì, te lo mangi, ma devi avere davvero fame.
Questi giardini non parlano, sono muti. Io chiedo un giardino che parli anche ai sordi. Chiedo Arte, chiedo Poesia.
Non intristiscono per quello che sono, ma per l’occasione perduta, per ciò che sarebbero potuti essere, con la dote della leva calcistica del ’68: “Non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che lo giudichi un giocatore. Il giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”.
Molto intrigante il tuo articolo. Complimenti. Franco Botta
Inviato da iPad
Concetto interessante che si può estendere praticamente a tutti i campi della cultura, dell’arte e della sociologia e ricorda la magistrale lezione di Tolstoj ne “La morte di Ivan Il’ič”.
ecco, mi ha fatto pensare al “suonatore Jones”, non tanto l’originale di Edgar Lee masters, quanto alla versione di De Andrè:
“Sentivo la mia terra
vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.”
Oh Lidia, grazie! Eccolo il tuo coraggio che emerge, si esprime, sviluppa un’idea profondamente tua! Ho provato piacere. Giardini, parchi e terrazzi veraci ma forse ancor meglio iniziare a relazionarsi con foreste, boschi e praterie e poi desiderare di averli vicini creando umilmente giardini.
Ciao paolo, grazie del sostegno. Non sai quanto significhi essere compresi in quei piccoli passi che sono il concentrato di pensieri a lungo inseguiti, presi, abbandonati, ripresi. Pensieri che si fa fatica a mettere in fila, e che quando riemergono da uno stato di torpore, diventano urgenti, premono.
A lungo ho riflettuto su questo e argomenenti correlati, e perciò mi dispiace che frasi di questo testo siano state assurdamente prelevate e riporposte in un contesto assolutamente non pertinente. Purtroppo non posso controllare tutto ciò che con i miei testi si fa (in molti li hanno anche copiati o se ne sono ispirati così intimamente, scrivendoci libri) e dichiaro apertamente che non sono responsabile dell’altrui miopia o malevolenza.
Cara Lidia, sono una giardiniera fai da te che trae grande gioia dal vedere, coltivare i fiori con i quali ci parlo mentre li curo e non mi dispiace andare a vedere giardini e mostre mercato di fiori per vedere nuovi fiori e magari cercare di riprodurre qualche nuovo accostamento proposto,
L’importante secondo me è non considerare il proprio giardino come il centro del mondo, bensì una piccola cosa inserita in una natura che va ugualmente curata, coccolata e protetta.
Mi piacciono sempre i tuoi articoli per l’ironia e la competenza ma questa volta forse non l’ho apprezzato perché mi sono persa tanti rimandi che la mia scarsa cultura non mi permettono di comprendere.
Comunque in questi tempi così scarsi di cose positive mi guardo bene dal prendere le distanze dal mio giardino
Che la pratica del giardinaggio sia rasserenante e dia un senso di continuità e di sospensione nle tempo, è un fatto di cui ho parlato molto spesso.
Per me in estate tutto si ferma tranne le irrigazioni, e a differenza di molti non traggo piacere nell’annaffiare le piante. Perciò l’estate è una stagione ingrata, ma durante il resto dell’anno il mio pur picoclo giardino mi offre quella mezz’ora quotidiana che mi salva la vita.
Non stavo infatti riferendomi al mondo privato del giardino, ma a quel tipo di giardino “da rivista” che ha pretese di essere ciò che non è. Questo genere di giardini non porta lustro all’idea di giardino qualse credo debba essere in un mondo positivamente indirizzato.
ora ho capito e sono d’accordo, buone annaffiature. Qui nel nord quest’anno annaffiamo meno. abbiamo un’estate tremenda, pazienza. A me piace bagnare i fiori perché è un momento di tranquillità e con loro ci parlo
Ciao Marisa, lieta di essermi spiegata meglio. Io in genere non parlo con le piante, parlo moltissimo con gli animali che vivono a casa con me, al punto che gli chiedo consigli o gli illustro i miei programmi per la giornata. Mi piace pensare che le piante, in quanto creature più ascetiche, siano telepatiche. Quindi i miei discorsi con loro sono tutti nella mente. In questo momento sono in particolare contatto con una pianta di salvia. L’ho comprata a una fiera, sto volutamente posponendo l’identificazione, e sto aspettando che apra i boccioli. C’è un fitto dialogo mentale tra me e quei boccioli.
Prova a comunicare telepaticamente con i tuoi animali, potresti avere delle sorprese.
Con uno già ci comunico. Paradossalmente il cagnino che dorme sul mio letto non lo capisco troppo bene, mentre uno dei gatti non fa neanche finta di non essere alieno, l’altro gatto invece è convinto di essere un animale terrestre. Credo che il prossimo animale che avrò sarà un cagatto.
Con tutto il rispetto Lidia, a me pare che più che “prendere le distanze col giardino” tu stia prendendo le distanze dai committenti di giardini (quindi nulla di cui preoccuparsi, tutto sommato – anzi, re-azione fisiologica e salutare, direi).
Niente di male, in fondo: ogni progettista appassionato, prima o poi, si scontra con la difficoltà di farsi riconoscere le proprie doti, le proprie capacità, con la difficoltà di esporre il proprio progetto.
se n’è parlato anche qui (il discorso è cominciato parlando di quadri, ma poi si è spostato sull’architettura in generale, -quindi anche sulla progettazione di giardini, per estensione, immagino. Cito il sito perché contribuisci anche tu):
http://www.houzz.it/discussions/3826720/dilemma-i-quadri
“ci siamo lasciati abbagliare dal mercato e non dall’Arte.”
“se riempiamo le pareti di tutto ciò che ci piace solo perché ci ricorda il nostro primo amore, o lo sguardo incrociato al semaforo, o quella commessa del centro commerciale che ci ha obbligato alla spesa, come pensi che possa esserci una maturazione dello spirito critico che l’arte esige?”
Le poche volete che ho avuto la possibilità di progettare uno schema di piante per giardini a livello non amatoriale, l’ho fatto sempre credendo molto nel lavoro che stavo svolgendo, e tentando di prevedere l’imprevedibile nel mantenimento da parte di altri che non me. Non ho perciò una normale reazione fisiologica che potrebbe avere una persona che in questo settore ci lavora d’abitudine. Anzi, mi piacerebbe molto poter fare altri progetti (veri, non solo su carta).
Per quanto riguarda il sistema dell’arte contemporanea ne scrissi qualcosa qui https://giardinaggioirregolare.com/2009/02/27/il-collezionista-di-fiori/
Non ho visto la discussione di Houzz, andrò a darci un’occhiata. Sei un collega? Non è che sei quello dei sassi della spiaggia?
Ho letto la arzigogolata discussione: veramente queste analisi sono già state ampiamente fatte, da Dorfles, Benjamin, Broch, Abram Moles, MCDonald, fino a bauman e se vogliamo anche quel maniaco di Freud. la questione non mi sembra tanto un’analisi su cui già ci sono gli elementi per ragionare, ma come modificare questo status quo?
per quanto riguarda il citazionismo ho già messo a punto una riflessione che ti passo: https://giardinaggioirregolare.com/2015/04/11/la-citazione-come-elemento-distintivo-del-postmodern/
Ciao Lidia, non sono nessuno dei due, no.
Potremmo far cominciare il gioco delle citazioni anche chiamando in causa Weber e la sua celebre conferenza “la politica come professione” del 1919: basta sostituire a “uomo politico” la figura del “progettista” (non importa in che ambito); a “politica”, “progetto” o “progettazione” a seconda del contesto, ed il gioco è fatto.
La citazione – o meglio colui che cita – si fa carico di una frase nota per giocare ‘al rialzo’: purtroppo in caso di fallimento, dovrà dar conto anche dello spreco di cotanto materiale di partenza. Dici bene: in questa particolare gara, non esistono medaglie d’argento…
Il punto è qui: quella che tu chiami ‘borghesia’ riproduce l’estetica di alcuni progetti adottando questo aspetto sia come ‘causa’ che come ‘effetto’ – di fatto cortocircuitantdo (escludendola) la fase progettuale, quindi tradendo il progetto e i suoi motivi, le sue spinte, le sue ispiraizoni. Di fatto, la borghesia ‘copia&incolla’ è rimasta a warhol – ma non ha capito che li prendeva in giro – appunto.
grazie per aver ripescato per me quelle riflessioni (che condivido, ora che le ho lette).
bon, basta.
E’ stata dura prendere distanza dal giardino, dal mio giardino, un vero parto, qualche anno fa. Ricordo che lo consideravo un aspetto maledettamente egoistico del mio carattere.
Ho superato quella fase, mi ha aiutato molto l’orto. Non ho però perso la voglia di capire le forme del bello, è sempre là, la tiro fuori saltuariamente, di rado, se l’occasione mi capita.
In fondo è anche normale che ciascuno si metta alla prova, che ci creda, l’importante che alla fine sia in grado di trarne delle conclusioni ed esprimere un giudizio.