Un giardino?
Solo mezza tazza, grazie, senza zucchero.
Come tutti ho il mio privatissimo sogno giardinicolo: soporifero, temo. Un giardino sopra una collina, a cui si arriva in calesse per stradine costeggiate da rose selvatiche e lunghe siepi miste in cui si rifugiano volpi e barbagianni, ombreggiato da olmi, immerso nel lucore chiazzato delle fronde di aceri e meli. Un’illusione, un rifugio, una confortevole tana della mente in cui in cui ripararsi da solitudine e disperazione.
Ma quando il motorino del sogno parte sul serio, penso a un camper. Un favoloso, confortevolissimo camper. Prenderei i miei cani, ce li metterei dentro e viaggerei con loro attraverso il mondo. Saremmo felici, ci basterebbe quel poco. Una scatoletta, un pacchetto di cracker, dell’acqua fresca. E loro sarebbero per magia i cani più intelligenti del mondo, mi darebbero il cambio a guidare, rassetterebbero, farebbero la spesa al market.
Meta numero uno: il Kansas. Lì dove è iniziata la passione per le praterie e per gli spazi aperti e sconfinati, dove un intimo e frustrato nomadismo vorrebbe prendere corpo. Con loro camminerei per tutta la giornata, in mezzo all’erba alta alle spalle, lo zaino, il sacco a pelo arrotolato, le pentole che tintinnano, e un bastone di Maclura. Accamparci all’imbrunire, quando il sentiero è illuminato dalla luna, grande, enorme come in una canzone, le stelle che appaiono una dopo l’altra, a mano a mano che il cielo si fa più scuro, di quel colore profondo, che ci vuole il blu ortensia, con una punta di ciano e di lacca bitume, per farlo: ma non viene mai uguale.
Montare la tenda? E che ci vuole? ZAC! La lanci per aria come nella pubblicità, e quella si monta da sola. Staremmo tutti e cinque zittini zittini, a guardare le stelle, dalla più vicina alla più lontana, da quelle a cui i cataloghi assegnano una sigla con lettere e numeri a quelle dai nomi esotici, arabeggianti. Tutte le stelle, i pianeti, le galassie, ogni storia mai raccontata su alieni, altri mondi, battaglie spaziali, tutto si vede, si dipana, come una linea del tempo aggrovigliata che riprende il suo normale fluire, tutto si conosce e si raccoglie in quella porzione di volta celeste, sdraiati fuori una tenda da campo, in Kansas.
Io e Bibo faremmo bollire l’acqua per il tè, Bassotto controllerebbe il fuoco, e Pappiralfi sarebbe già troppo stanco, accucciato a ronfare nella tenda. Andreino George con il musetto sulle mie gambe. Berremmo il tè, e con un mozzicone di matita, su un vecchio quadernetto dai bordi laceri faremmo importantissime statistiche sulla Little Bluestem e sulla Indiangrass, e poi partiremmo per una nuova camminata.
Riprenderemmo il camper, visiteremmo l’intero mondo. Le steppe della Mongolia, quelle che in inverno gelano e le puoi attraversare solo seguendo il percorso dei fiumi ghiacciati, dove se fai un passo falso, sei morto. Ma noi siamo protetti, semplicemente protetti dall’immaginazione sognante, e non metteremmo mai il piede in fallo. Non avremmo né freddo né fame, scaleremmo pareti verticali e con la forza del pensiero potremmo anche volare in picchiata da una vetta innevata fino alla verde vallata. Al nostro camper non manca né acqua né benzina. C’è sempre la giusta temperatura e non si infanga mai. Il nostro camper può andare ovunque, anche diecimila leghe sotto i mari, o nello spazio profondo.
Pappi, Bibo, Andreino, Bassotto e io saremmo un equipaggio di esploratori, compiremmo imprese epiche e andremmo là dove nessun camper è mai giunto prima. Infine, una volta stanchi, senescenti, atterrati su un piccolo satellite verde e rorido, potremmo, seppur con i nostri acciacchi, inventarci un piccolo orto.

SEI MAGICA SONO BRAVISSIMO A CAMBIARE LE GOMME E SO ASCOLTARE IL SUONO DELLA VITA GUIDO
Vengo anch’io dentro questa magia, so fare il te.