Lucertola

Allora racconterò del giardino di mia zia.

Un piccolo cortile di una casa nobiliare in campagna, costruita all’inizio del Novecento per le vacanze estive, dove il caldo sole del sud maturava un vigneto adiacente, a cui si accedeva da un piccolo cancello arcuato, da fiaba.
Ero piccola, e mi sembrava enorme e ricco di luoghi segreti e magici. Mi era concesso andarci solo di rado, e questo lo rendeva immensamente desiderabile, una calamita che mi tirava da dentro le ossa, mentre seduta al tavolo ripetevo le tabelline e guardavo dalle alte finestre il cielo azzurro, ma così azzurro e liquido che pareva poter entrare nella stanza come una brezza per prendermi e sospingermi fuori. I grossi quadretti del foglio di algebra elementare erano ostacoli che si frapponevano tra me e il giardino, solo a compiti finiti era consentito il gioco non sorvegliato.
La zia, che fingeva amore e tenera severità, mi accompagnava fino alla porta d’ingresso, usciva solo per assicurarsi che il cancello fosse chiuso, tirandolo e spingendolo più volte, poi si ritirava dal sole, che odiava. Accostava la porta per non far entrare le lucertole, bloccandola con il chiavistello aperto, per impedire che io mi chiudessi fuori. Nessuna chiave doveva essere data ai bambini, nessuna porta doveva avere le chiavi.

La prima cosa che facevo era correre al cancello per assicurarmi che fosse davvero chiuso. Era sempre chiuso. Poi attraversavo lentamente il cortile: un corridoio di pochi metri che mi sembravano infiniti. Ogni centimetro di terra aveva qualcosa da dire, non perché il giardino fosse particolarmente curato o traboccante di fiori, ma perché era terra, diversa dal tavolo, dai fogli a quadretti, dalla scuola, dalle braccia conserte e le gambe dritte, diversa dai grembiuli neri e bianchi, i codini, le trecce e le cartelle, dal fischietto della maestra.

Setacciavo il giardino centimetro per centimetro a caccia di nuove cose: vermi, animaletti, file di rosse formiche, crepe nel muretto. Non potevo sporcarmi le mani o i vestiti, sarebbe stata una grave infrazione, perciò guardavo e non toccavo, oppure prendevo un bastoncino di canna con cui sollevavo le foglie di pervinca alla ricerca di fiori azzurrini, e di violette, quando era il periodo.
C’era un sedile, che decenni prima doveva essere stato grazioso, con i braccioli in pietra e la seduta di piastrelle decorate. Gli facevano ombra due grandi pittospori, densi e fronzuti. Staccavo i frutti e li lanciavo dall’altra parte, nella vigna, dove non era permesso andare. Quando ero di cattivo umore ne raccoglievo manciate e li tiravo oltre l’alto muro, dove sapevo che sarebbero finiti per strada e dove speravo avrebbero fatto scivolare la figlia del fruttivendolo o del droghiere, che mi guardavano da sotto in su perché ero piccola.

Il sedile era il posto dove preferivo stare, al centro del cortile: ai quattro angoli erano piantati dei folti cespi di Agapanthus e di iris, che non fiorivano mai per la troppa ombra, e le cui larghe foglie spadiformi rimanevano immobili. Dal sedile potevo vedere oltre l’arco sui correva uno strano ibrido di Bignonia, color mostarda e arancio, fino al mio ultimo punto di ancoraggio visivo: un vaso di euforbia spinosa rossa, le cui bratteole appiccicose appuntavo al maglioncino se immaginavo di essere una principessa al ballo.

A sinistra però non guardavo mai. Avevo paura del vaso cilindrico dove si raccoglieva l’acqua piovana, in cui una volta avevo sbirciato allontanandomi subito, orripilata dalla vista di decine di lucertole che tentavano di uscirne, dimenandosi come pazze, azzannandosi, usando il corpo delle altre come trampolino, anche di quelle morte, riverse a pancia in su, l’addome bianco e molle nell’acqua scura e terrosa.
Il giorno dopo il vaso era stato rovesciato e non c’era traccia di lucertole.

C’era un signore che veniva a pulire il giardino, secondo me lo puliva troppo, ma la zia non voleva sporcizia, e la terra –diceva- era molto sporca.

Cosmo camper

Un giardino?
Solo mezza tazza, grazie, senza zucchero.
Come tutti ho il mio privatissimo sogno giardinicolo: soporifero, temo. Un giardino sopra una collina, a cui si arriva in calesse per stradine costeggiate da rose selvatiche e lunghe siepi miste in cui si rifugiano volpi e barbagianni, ombreggiato da olmi, immerso nel lucore chiazzato delle fronde di aceri e meli. Un’illusione, un rifugio, una confortevole tana della mente in cui in cui ripararsi da solitudine e disperazione.
Ma quando il motorino del sogno parte sul serio, penso a un camper. Un favoloso, confortevolissimo camper. Prenderei i miei cani, ce li metterei dentro e viaggerei con loro attraverso il mondo. Saremmo felici, ci basterebbe quel poco. Una scatoletta, un pacchetto di cracker, dell’acqua fresca. E loro sarebbero per magia i cani più intelligenti del mondo, mi darebbero il cambio a guidare, rassetterebbero, farebbero la spesa al market.
Meta numero uno: il Kansas. Lì dove è iniziata la passione per le praterie e per gli spazi aperti e sconfinati, dove un intimo e frustrato nomadismo vorrebbe prendere corpo. Con loro camminerei per tutta la giornata, in mezzo all’erba alta alle spalle, lo zaino, il sacco a pelo arrotolato, le pentole che tintinnano, e un bastone di Maclura. Accamparci all’imbrunire, quando il sentiero è illuminato dalla luna, grande, enorme come in una canzone, le stelle che appaiono una dopo l’altra, a mano a mano che il cielo si fa più scuro, di quel colore profondo, che ci vuole il blu ortensia, con una punta di ciano e di lacca bitume, per farlo: ma non viene mai uguale.
Montare la tenda? E che ci vuole? ZAC! La lanci per aria come nella pubblicità, e quella si monta da sola. Staremmo tutti e cinque zittini zittini, a guardare le stelle, dalla più vicina alla più lontana, da quelle a cui i cataloghi assegnano una sigla con lettere e numeri a quelle dai nomi esotici, arabeggianti. Tutte le stelle, i pianeti, le galassie, ogni storia mai raccontata su alieni, altri mondi, battaglie spaziali, tutto si vede, si dipana, come una linea del tempo aggrovigliata che riprende il suo normale fluire, tutto si conosce e si raccoglie in quella porzione di volta celeste, sdraiati fuori una tenda da campo, in Kansas.
Io e Bibo faremmo bollire l’acqua per il tè, Bassotto controllerebbe il fuoco, e Pappiralfi sarebbe già troppo stanco, accucciato a ronfare nella tenda. Andreino George con il musetto sulle mie gambe. Berremmo il tè, e con un mozzicone di matita, su un vecchio quadernetto dai bordi laceri faremmo importantissime statistiche sulla Little Bluestem e sulla Indiangrass, e poi partiremmo per una nuova camminata.
Riprenderemmo il camper, visiteremmo l’intero mondo. Le steppe della Mongolia, quelle che in inverno gelano e le puoi attraversare solo seguendo il percorso dei fiumi ghiacciati, dove se fai un passo falso, sei morto. Ma noi siamo protetti, semplicemente protetti dall’immaginazione sognante, e non metteremmo mai il piede in fallo. Non avremmo né freddo né fame, scaleremmo pareti verticali e con la forza del pensiero potremmo anche volare in picchiata da una vetta innevata fino alla verde vallata. Al nostro camper non manca né acqua né benzina. C’è sempre la giusta temperatura e non si infanga mai. Il nostro camper può andare ovunque, anche diecimila leghe sotto i mari, o nello spazio profondo.
Pappi, Bibo, Andreino, Bassotto e io saremmo un equipaggio di esploratori, compiremmo imprese epiche e andremmo là dove nessun camper è mai giunto prima. Infine, una volta stanchi, senescenti, atterrati su un piccolo satellite verde e rorido, potremmo, seppur con i nostri acciacchi, inventarci un piccolo orto.

MW 1.070
Bibo e me nella cosmo Panda

Il glicine del bicentenario

Il glicine del bicentenario

1807
Viveva una volta a Gloucester un vecchio sarto.
Era molto povero ed a stento riusciva a guadagnare quel tanto che gli bastava per comprare da mangiare per sé e il suo gatto. Lavorava tutto il giorno e dormiva e cucinava nel retro del negozio.

Un giorno il Sindaco della città gli chiese di fargli un bel panciotto coi bottoni foderati per le celebrazioni del Natale.
Il sarto comprò allora una bella stoffa di damasco e del filo color ciliegia per fare le asole, ma non aveva più danaro per comprare né legno né osso per i bottoni.

Si ricordò allora che quella primavera aveva visto fiorire un glicine sulla cancellata di una casa poco distante dal suo negozietto, e pensò che se i semi fossero stati maturi avrebbe potuto prenderne qualcuno per i bottoni foderati. E così fece: tagliò qualche baccello che pendeva dalla parte della strada e raccolse una manciata di semi scuri, levigati, duri ed uniformi. Una volta foderati e cuciti al panciotto con il filo color ciliegia nessuno avrebbe potuto sospettare che non fossero di legno di faggio o di osso.

Il sarto finì in tempo il suo panciotto, anche se ebbe dei problemi con il filo color ciliegia (ma questa è un’altra storia) e l’idea dei bottoni di glicine gli piacque così tanto che ne usò alcuni per la sua giacca.

Ma l’inverno successivo il vecchio sarto morì. Il freddo entrava nella sua povera casa, e lui non aveva danaro per comprare legna o carbone per accendere un fuoco.
Gli fu messo indosso il suo miglior abito e la sua migliore giacca, quella appunto con i bottoni di glicine, il suo corpo fu trasportato in un piccolo cimitero fuori dalla città e seppellito in una zona lontana dalle cappelle dei ricchi e dei nobili, nell’angolo di un prato riservato alla povera gente.

L’inverno passò e si portò dietro la primavera, e a quella primavera ne seguì un’altra, e un’altra ancora. Avvenne che i semi di glicine, contenuti nell’involucro della stoffa dei bottoni, dopo tanto tempo, germinassero.
La piccola piantina si affacciò timidamente proprio sotto la pietra tombale del povero sarto, tanto che i becchini quando la videro pensarono che qualcuno l’avesse piantata per decorazione, anche se non capivano chi, dato che la tomba del sarto era sempre stata spoglia e nessuno vi aveva deposto mai dei fiori.
La pianta cresceva velocemente, e dopo poco tempo i due becchini dovettero iniziare a tagliarla periodicamente per evitare che si allungasse troppo verso le altre tombe, ma presto si stancarono di quell’operazione, e dato che la tomba del vecchio sarto era proprio vicino al muro di confine, lasciarono che la pianta crescesse e andasse dove preferiva.

In pochi anni il glicine era divenuto una pianta vigorosa, si era attorcigliato alla lapide del vecchio sarto fino a sgretolarla, e poi aveva preso di mira le pietre vicine, fino ad arrivare ad un giovane olmo che dava sulla strada per il cimitero. Quando era primavera tutti quelli che passavano a piedi o in carrozza, guardavano il grande glicine che pendeva a festoni dall’ olmo, e avevano esclamazioni di stupore e meraviglia, mai pensando che simile spettacolo fosse casuale.
Dopo molti anni il glicine era così grande da essere diventato un’attrazione della contea, l’olmo era invecchiato, e molte persone per vederlo prendevano il treno, che era appena stato inventato. Il prato del camposanto in cui prima venivano sepolti i poverelli divenne la parte più bella del cimitero, i notabili, i lord e gli squire volevano avere ognuno una cappella il più vicino possibile al maestoso glicine.

Il cimitero si ingrandì e divenne più bello, con cappelle decorate e viali di cipresso. Il Sindaco, che era il bis-bis-nipote di quello a cui il vecchio sarto aveva cucito il panciotto, appose anche una targa sul contorto tronco del glicine, un po’ più in alto del punto dove anni prima si trovava la pietra tombale del vecchio sarto, di cui nessuno aveva più memoria.

Passarono molti anni, e i venti della moda cambiarono. Il cimitero fu reso più funzionale e molte cappelle furono smantellate, il vecchio olmo venne abbattuto e il glicine tagliato per far spazio a nuovi sepolcri. Il terreno venne lastricato e nuove cappelle moderne furono edificate.
Ma le radici del glicine avevano ormai oltre cent’anni, ed erano vigorose e potenti sotto il terreno, e gettavano in continuazione dei virgulti dove le fessure del selciato lo permettevano.
I custodi del cimitero però le tagliavano appena le vedevano comparire, e per anni il glicine nato dal bottone del sarto non fu mai lasciato crescere.

Scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, e durante la Battaglia d’Inghilterra una bomba cadde proprio al centro del cimitero, non troppo distante dal glicine.
Sulle prime le autorità non seppero cosa fare, ma poi decisero di spostare il cimitero più lontano dall’abitato, che con l’estendersi della città si era fatto sempre più centrale.
Il camposanto era sparito e con il tempo il glicine finì per trovarsi in piena città.
Su di lui vennero costruite prima delle case, poi un asilo, poi un ospedale e infine un supermercato. Ogni volta il glicine cercava di venire su, ma veniva sempre tagliato. Tuttavia le sue radici erano profonde e potenti, e infine logorò e spaccò il cemento che lo ricopriva, ritrovandosi più o meno al centro del piazzale del supermercato, nella zona dove si potevano lasciare i carrelli della spesa.
I gestori del supermercato non se ne accorsero subito, così il glicine ebbe il tempo di crescere un po’. La gente che faceva la spesa non prestava troppa attenzione a quella pianta, finché una commessa non capì che era un glicine, perché sua nonna ne aveva uno uguale in campagna.
“Costruiamo una pergola”, propose “per far ombra alla gente che va a prendere il carrello”.

Foto di Thevivons, archivio Compagnia del Giardinaggio (link in basso)

E così fu. Il glicine fu lasciato crescere nuovamente su un pergolato tutto per lui. Veniva potato due volte l’anno e in primavera per chi faceva la spesa era una gioia mettere la monetina nel carrello sotto quel bagliore filtrato di azzurro. Alcuni andavano a fotografarlo e poi mettevano le fotografie in internet, per far vedere anche agli altri quanto fosse bello quel glicine, mai sospettando che avesse ormai ben più di centocinquant’anni.

La città crebbe ancora e il supermercato si ingrandì e dovettero trasferirlo in periferia, dove divenne un grande centro commerciale.

Il terreno del vecchio camposanto fu così lottizzato e venduto per costruirvi delle villette. Per fortuna l’architetto che fece il progetto era un ragazzo molto sensibile e calcolò tutto in modo che il glicine non fosse toccato dalle ruspe e che capitasse proprio sul confine tra due casette, di cui una la volle tenere per sé, e l’altra la chiese per la sua vecchia mamma, facendosi detrarre il costo dalla sua paga, pur di mantenere in vita quel bellissimo glicine.

“Sai mamma” disse una sera di primavera, inebriandosi del suo profumo e contemplandone la fioritura azzurra, “Credo proprio che vicino al glicine pianterò un olmo. Non trovo compagnia migliore per questa vecchia pianta che un olmo sul quale possa abbarbicarsi”.


2007
Fu così che glicine ed olmo si ritrovarono di nuovo insieme per chissà quanti altri anni ancora.

Suggestioni essenziali

E il glicine se ne frega (archivio Compagnia del Giardinaggio
Per un Erbario, Colette, Passigli editore. “…quel despota almeno due volte centenario”
L’uomo del bicentenario, racconto di Asimov
Il sarto di Gloucester