Natale Torre-I giardini del sole, di Gaetano Zoccali, Officina Naturalis 2021

Ero piccolina quando vidi per la prima volta Anastasia con Ingrid Bergman.

Avrò avuto circa dieci anni: quell’età in cui alcune cose ci sembrano inspiegabili finché non arrivano mamma o papà a dirci perché e percome, e dopo appaiono perfino scontate.

Mi rimase impresso il passaggio in cui Ingrid Bergman raccontava di una giovane suora che al manicomio le portava qualcosa di delizioso da mangiare: “Un’arancia o dell’uva”.

Come poteva un’arancia essere mai un “regalo”, una “delizia”? Un’arancia, nella mia testa di bambina, era un umile frutto che allagava le nostre campagne invernali di color arancione e riempiva gli alberi fino a farli scoppiare.

“Come sarebbe che le portava un’arancia in regalo, papà?”.

Devo dire che mio padre, forse preso dal film, forse dal viso dolce e severo di Ingrid Bergman, non iniziò una delle sue solite tiritere che partivano dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente e finivano a Emilio Sereni e al capitalismo marxista. Mi disse semplicemente: “Loro non le hanno, l’albero di arance non cresce al freddo. Un’arancia era considerata un dono prezioso. Non ne parliamo un limone, sarebbe stato un regalo da regina!”.

Fu forse la prima nozione di climatologia della mia vita.

Ritrovai, dopo decenni, la descrizione della preziosità degli agrumi nel libro di Kazimiera Alberti L’anima della Calabria, nel quale i limoni diventano quasi frutto magico: il limone che curava tutti i malanni, che disifettava, che proteggeva case e bambini, che si trasformava in essenza divina, in stille benedette dagli dei.

La stessa atmosfera di meraviglia e di infantile stupore si respira nel libro di Gaetano Zoccali (presentazioni non necessarie) I giardini del Sole, recentemente edito da Officina Naturalis. Un libro che nasce da una conversazione con Natale Torre sui frutti esotici acclimatabili in Italia. Non parliamo di agrumi, quindi, di limoni o mandarini particolari, se non occasionalmente, ma di quella che abbiamo sempre chiamato “frutta esotica”, con un termine che includeva e impastava tutto in modo improprio, come il packaging di un brick di bevande con noci di cocco, ananas, soia e carote.

Oltre a fiori e piante ornamentali da clima caldo, il discorso con Torre si sposta velocemente sulla frutta: guava, pomo dei caffri, lichi, passiflora, avocado, mango, annona, papaya, banani, carambola, pitaya, macadamia, pecan, white e black sapote, e innumerevoli altri.

Solo a nominarli il cervello inizia a mulinare in divagazioni poetiche e pensieri di mondi esotici in cui cibi deliziosi si spiccano delle fronde degli alberi o addirittura piovono dal cielo. Ad ogni passaggio del libro, si può dire a ogni riga, si rimane sorpresi, affascinati, trascinati, verso un mondo ricco, opulento, carico di profumi e di squisitezze da far concorrenza all’idea di un paradiso in terra, in cui basta allungare la mano e raccogliere un frutto dal sapore delizioso. La mente scivola senza freni in un vortice di pensieri apparentemente incoerenti, sovrappone volti e storie raccontate da romanzi e film, da saggi su grandi navigatori e cacciatori di piante, traccia su planisferi immaginari rotte ideali per congiungere una pianta all’altra, srotola date e rincorre a spron battuto la sequenza dei nomi botanici, che sembrano custodire tutte queste vicende, pur senza narrarle.

Un nome, da solo, può contenere infinite storie.

Il volto del capitano Blight, quello di Mel Gibson, i riccioli bruni di Lord Banks, i suoi soldi, le sue doti amatorie, lo scolo, la febbre gialla, il fiore di protea in copertina sul libro La confraternita dei giardinieri, la guerra dell’oppio, Gian Lupo Osti che si inerpica sulle montagne della Cina, i romanzi di Conrad, Indiana Jones, i miei avocado tanto odiati dai vicini, arrivati qui in Calabria grazie al narcotraffico.

Tutto questo e altro ancora si attorciglia in testa nel passaggio da occhi a cervello, e la lettura diventa trascinante, costellata da personalissimi ricordi. Ogni pagina sarà sorprendente sia per la quantità di informazioni, sia per le implicazioni che queste comportano.

“Un libro difficile” lo descrive Zoccali. Sì, soprattutto per un certo tipo di pubblico, quello poco avvezzo alle piante subtropicali acclimatate. Se nella testa di chi pratica giardinaggio in clima caldo, al Sud, si forma immediatamente una mappa della “posizione” di dove si potrebbe coltivare questo o quello, è esattamente l’opposto per il pubblico standard dei libri di giardinaggio, molto più nordico e milanocentrico.

Senza contare la numerosa fascia media di lettori e lettrici, per la quale la maggior parte di queste piante sono delle perfette sconosciute. Non in molti pensano che ciò che si trova sui banchi dell’ortofrutta al supermarket o nell’INCI dei prodotti cosmetici, si possa coltivare anche nel proprio Paese. Eppure l’esperienza del kiwi qualcosa dovrebbe avercela insegnata, ed è su questo punto che batte Natale Torre: la coltivazione di frutta esotica da reddito in Italia. Più stazioni d’acclimatazione, più a Nord possibile, in modo da saggiare la resistenza delle piante. Frutti che oggi paghiamo a due euro al pezzo potrebbero veder scendere il loro prezzo fino a essere non proprio economici, ma almeno più abbordabili. Questo arricchirebbe non solo le tavole e la cucina, ma soprattutto le tasche di molti piccoli e medi coltivatori, aziende di trasformazione, conservazione, distribuzione e in generale tutto il comparto alimentare-frutticolo, sia fresco che conservato, sia di piccola produzione che di grande distribuzione.

In questo la visione di Natale Torre è molto precisa e poco incline a favoleggiamenti di zecchini d’oro e campi dei miracoli, ed è perfettamente raccolta dalla penna di Zoccali, che lavora di ascia, martello e cesello per far emergere la personalità dinamica di Torre, senza lasciarsi prendere in un tornado cognitivo, lasciando intatto l’enorme patrimonio informativo contenuto nel libro.

Si parte dal vivaio di Torre, ormai gestito dai figli, e dal suo giardino privato, per il quale si prova quella sorta di “invidia rassegnata” di chi può solo godere della descrizione. Il viaggio si conclude all’Orto Botanico di Palermo. Il giardino privato di Torre conta moltissime piante acclimatate, una rotazione di frutta esotica e “tradizionale” tale da consentire raccolti quotidiani: piante da fiore e da frutto di diversi decenni che testimoniano la sua pionieristica capacità di coltivazione ma soprattutto la sua lungimiranza nell’intravedere nella frutticoltura d’acclimatazione una consistente possibilità economica per il Meridione.

Molte di queste piante sono usate non solo a scopo alimentare, ma anche cosmetico, farmacopeico, in profumeria, altre potrebbero esserlo come biomassa combustibile. La ricchezza del mondo delle piante delle zone calde del globo è tanto vasta da lasciare senza fiato.

Tra i molti libri letti sulle qualità delle piante questo mi ha lasciato dei segni profondi, e lo confesso, ora come ora è difficile che un libro di giardini o di piante m’impressioni più di un catalogo BonPrix, perché oggi i libri sul giardino o sulle piante sono non solo insopportabilmente lagnosi, tristemente privi di ironia, ma perché sono ormai divenuti diaristici e banalotti.

Per me, qui l’esperienza di lettura è diventata l’opposto: c’è così tanto in questo pur piccolo libro che si potrebbe discutere del contenuto per mesi, e la lettura di ogni singola pagina ha corrisposto a una serie di coltellate in pancia.

Coltellate in pancia? Perché?

Primo: mai in un libro sulle piante o i giardini ho letto tante volte la parola “Calabria”. Sapete, è un po’ come questa storia dei neri negli Stati Uniti: se parli di me in un film, seppure come “minoranza”, mi identifico nel personaggio tal dei tali, e pagherò l’abbonamento a Disney+ per poter vedere la serie televisiva. Se invece non parli di me, vedrò la serie piratata da torrent oppure non la vedrò affatto.

La Calabria non compare quasi mai nei libri di giardinaggio italiano, e di certo con colpa, se non con dolo.

Due: perché questo libro non parla solo di piante, di come si coltivano e di quanto sono belle e ammalianti. Né parla delle vecchie storie sulle piante, di anneddotica o di come furono scoperte e messe in coltivazione.

Questo libro parla del FUTURO delle piante, o almeno di uno dei futuri possibili. E assieme a questo, anche di uno dei possibili futuri della Calabria.

Sì, Natale Torre ha un vivaio in Sicilia, non in Calabria. A Messina. Messina-Reggio è quasi una conurbazione geografica, sebbene ci siano sempre state rivalità tra le due città. Moltissime zone della Sicilia sono climaticamente apparentabili e vicine ad alcune della Calabria, specie a quella dove vivo io, tra Riace e Melito, dove le Plumeria hanno forma arborea e la Pachira aquatica vive bene anche nella sala d’attesa del mio veterinario, senza un filo di riscaldamento neanche nelle notti invernali.

Per chi ha una naturale familiarità con le piante citate nel libro (anche solo per il fatto di ipotizzarne l’acquisto o di essersi informati tramite amici che vivono in climi analoghi, su resistenza e necessità idrica), non è quindi affatto difficile, anzi, persino implicito, immaginare a occhi aperti le piante descritte, collocate con una certa precisione geografica, magari in sostituzione di colture abbondanti come gli agrumi, ma non più redditizie.

Un “possibile futuro orticolo” per la Calabria che significherebbe se non la fine dell’immiserimento verso il quale viaggia la mia regione, almeno una barriera d’argine piuttosto alta. Ne verrebbe fuori un romanzo di fanta-orticoltura. Eh sì, perché la verità che in pochi ammettono, pur conoscendola benissimo, è che alla Calabria non verrebbe mai consentito di crearsi una minima stabilità economica. Nulla verrebbe e verrà mai concesso alla Calabria, nulla che non sia all’interno di una pianificazione molto precisa sulla finanza nazionale.

La nostra terra ha uno scopo: essere povera per consentire ad altre regioni di essere ricche, e questa povertà forzosa ci viene imposta con uno degli strumenti sociali e finanziari più potenti che lo Stato Italiano utilizza e manovra: la mafia.

A noi la povertà, a noi la sorte di essere nati in catene, a noi il marchio, a noi l’onta. E di più: a noi rimane l’impossibilità di una vita dignitosa nella nostra stessa terra. Dilaniata, fatta a pezzi, sbranata dalla nazione da cui è posseduta per tributare forza-lavoro, criptosalariato, bacino di acquisto e offrire dimora mediatica alla mano che è strumento di tutto ciò, a esclusivo beneficio delle regioni dominanti, che godono della loro ricchezza come se realmente fosse meritata e non semplice risultato algebrico di sottrazione.

Ed è più che ovvio che ogni calabrese raziocinante si senta coltellate in pancia leggendo questo libro.

Gli altri sogneranno invece il paradiso in terra.

Per favore, siatene grati.

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