向下滚动阅读中文版本。由 ChatGPT 翻译。Scroll for the English version (translated with ChatGPT)
The corner store. Una vecchia drogheria è una delle uscite migliori degli ultimi anni. Sorprendente è dire poco. Ruan Guang-min, un autore taiwanese, porta in scena un insieme di personaggi normali, comunissimi, e certamente più interessanti dei vari superpotenziati che abitano i manga giapponesi. Il manhua taiwanese è largamente inesplorato in Italia, anche in alcune delle sue vette artistiche (come Chen Uen o Little Thunder). Da pochi anni la casa editrice Toshokan ne sta traducendo alcuni, con grandissimo favore del pubblico più maturo e raffinato.Guang-min è molto noto in patria per avere centrato storie corali imperniate su piccole attività commerciali di famiglia, ha vinto numerosi premi e i suoi manhua vengono trasposti in serie televisive. The corner store sente certamente l’andamento del drama, dello sceneggiato, non solo nel succedersi degli eventi, ma anche della scansione dell’azione in pagina, della prospettiva, dell’inquadratura. Guang-min è senza alcun dubbio uno dei migliori artisti che circolano tra gli scaffali italiani, la sua tecnica di disegno è sorprendente per l’efficacia, per l’icasticità, la velocità con cui la rappresentazione raffigurata diventa vivida, reale, vicina. La sua capacità di far correre l’occhio e la lettura è straordinaria. In questo lo ritengo supremo, inarrivabile.
Lui disegna in digitale ma il tratto rimane sempre molto artigianale, con delle sporcature tipiche del carboncino, della matita grassa passata di taglio sul cartoncino ruvido. Non si perdono le linee ravvicinate dello schizzo a matita e a pennino, le finezze del pennello. Una attenzione allo strumento utilizzato che è praticamente ignota a molti mangaka giapponesi, che ci danno sempre un tratto fine e pulito, perfetto e anonimo, e che in Europa viene invece molto apprezzata poiché segno caratteristico e distintivo di una sola mano, di un unico individuo. L’unicità, la riconoscibilità, è sempre un elemento positivo per l’occhio europeo, poiché avvicina l’artista alla creazione divina.
L’emozione che mi ha suscitato questo manga è di una immensa nostalgia di qualcosa che non ho mai posseduto. Sono una X Gen, i “corner store” esistevano ai miei tempi, anzi, non c’era altro tipo di negozio. Si chiamavano “bottega”, “emporio”, “spaccio”, o meglio ancora, con il nome del proprietario. “Vado dal Carlino, dal Ieraci, da Torre”, oppure si usava il soprannome paesano “il Magnamagna”, “il Brigante”.
Per me erano posti terribili, dove andare perché necessario, per una richiesta ricevuta in famiglia, che per una bambina diventa un ordine. Lì dentro mi sentivo un agnello il mezzo ai lupi, un pezzo di carne da pesare, una merce da poter acquistare semplicemente prendendola dallo scaffale. Sin da piccola sentivo il puzzolente fiato del patriarcato sul mio collo. Gli sguardi sezionatori dei “vecchi” (magari quarantenni) che indugiavano sul mio corpo di scolara elementare come se fossi una sugosa pietanza ambulante. Le donne adulte o erano acquirenti, quindi di passaggio, oppure mogli dei titolari, quindi ipostasi dei mariti. Le bambine non sarebbero state ammesse in bottega, nemmeno se figlie del titolare. Troppi maschi, troppi vizi, alcool, sigarette, possibilità di violenza, e non ultima, la vicinanza al mondo del danaro, dell’attività commerciale, da cui le femmine venivano accuratamente tenute lontane.
Perciò il pensiero che avrei potuto aspettare il bus alla bottega, o fare i compiti assieme agli altri bambini, mangiucchiando biscotti, come hanno fatto i protagonisti di The corner store, mi ha letteralmente assestato una coltellata nelle costole. A me, questa vita, questi ricordi, che probabilmente sono condivisi da molti miei coetanei maschi, sono stati negati poiché nata femmina. E mi chiedo quanta distanza ci sia tra i negozietti d’angolo della remota provincia calabrese degli anni ’70-’80 e quelli della provincia taiwanese di qualche anno fa. Mi chiedo se le millennial di Taiwan abbiano sentito anche loro il peso dello sguardo maschile andando a prendere un ghiacciolo. E inevitabilmente mi dico di sì.
E questa cosa mi fa arrabbiare, e mi addolora.
Nel racconto di Guang-min i personaggi femminili non mancano, ma quelli importanti sono solo tre rispetto agli innumerevoli maschi. Tutte e tre sono legate a temi romantici, e una soltanto ha una caratterizzazione forte al di fuori della sfera sentimentale. Se tra i maschi avvengono dialoghi e considerazioni sul senso della vita, sui propri sentimenti e sul commercio, questo non avviene tra i personaggi femminili, che si sovrappongono o si lambiscono occasionalmente, spesso senza avere una reale interazione che non sia la condivisione dello spazio nella pagina. Manca anche un analogo rapporto intergenerazionale che si sviluppa attorno al protagonista maschile.
La lettura è sempre molto piacevole, davvero commovente. Ma si avverte questo ronzio, il rumore di fondo, quella distorsione della realtà data dall’ assenza di metà del mondo. Se il manga giapponese è tristemente famoso per questa assenza o per la trasfigurazione delle donne in bambole scervellate, in una narrazione di persone ordinarie era legittimo avere una aspettativa più alta. Qui la scarsa presenza femminile non è una scelta editoriale, ma viene spontanea come specchio della società.
Se mi soffermo su questo punto invece che sulle altre qualità del fumetto è per due ragioni: la prima è che questa serie ha ricevuto moltissimi consensi e recensioni, e gli aspetti tecnici e narrativi sono stati già ampiamente esplorati. La seconda è è perché ritengo sia molto importante sottolineare come spesso i maschi descrivano un mondo a metà (le recensioni scritte da donne sono ancora troppo poche, sempre indulgenti o poco attente alla rappresentazione mediatica dei generi). Noi donne siamo abituatissime a immedesimarci in personaggi maschili, ecco perché il female gaze ci sconvolge sempre, o la ragione dell’enorme successo dei boy’s love.
Sentirsi tagliate fuori da un racconto di supereroi è brutto, ma se succede in una storia di persone ordinarie, si sente un dolore tanto forte quanto più è bella l’opera. E The corner store è veramente bellissimo. La vitalità dell’andamento narrativo, mescolata a temi umani così forti e toccanti, l’espressività dei personaggi, rendono questo manhua un vero tesoro, quel tipo di racconto da leggere e rileggere nell’arco del tempo, nel quale rivedersi, ogni volta cambiati (e uso il maschile di proposito) a seconda dell’età, delle scelte di vita. A colpire direttamente è però l’abilità artistica di Guang-min, che ha uno stile molto incisivo, carico nel segno ma privo di orpelli, che insiste nel dettaglio pur concedendosi la sporchevolezza della bozza. Una magia che pochi artisti sanno fare.
Personalmente ho apprezzato molto il personaggio di En Pei, proprio per la sua scelta (e anche perché è molto carino).
Da rimarcare lo splendido lavoro fatto dall’editore Toshokan sulla traduzione e sulle note, che hanno spesso occupato una parte considerevole dei margini.
Ruan Guang-min è anche un artista molto social e estremamente disponibile e alla mano: risponde sempre a tutti e tutte con parole di ringraziamento e gentilezza. Questo è il suo account Instagram, dove pubblica spesso anche disegni a colori da lasciare senza fiato.
The comic ends precisely with this sentence: if you accept the flaws, then it’s true love. Maybe it’s the same for manga? I’d say yes. The Corner Store — an old-fashioned grocery shop — is one of the best releases in recent years. Calling it “surprising” would be an understatement. Ruan Guang-min, a Taiwanese author, brings to life a group of ordinary, everyday characters who are far more interesting than the super-powered ones populating Japanese manga. Taiwanese manhua are still largely unexplored in Italy, even in their artistic peaks (such as Chen Uen or Little Thunder). Only recently has the publisher Toshokan started translating some of them, to great acclaim among more mature and refined readers.
Guang-min is very famous in his home country for his ensemble stories focused on small family-run businesses. He has won numerous awards, and his manhua have been adapted into TV series. The Corner Store definitely carries the pacing of a drama, not only in how events unfold but also in the way action is laid out on the page — the perspective, the framing. Guang-min is without a doubt one of the best artists currently available in Italian bookstores. His drawing technique is astonishing for its effectiveness, its vividness, and the speed with which the images come to life, feeling real and close. His ability to guide the reader’s eye and reading flow is extraordinary. In this, I consider him supreme, unreachable.
He draws digitally, but his linework always retains a handmade quality, with the smudges typical of charcoal or a soft pencil rubbed sideways on rough paper. You can still see the close lines of pencil and pen sketches, the finesse of the brush. Such attention to the tool used is practically unknown to many Japanese mangaka, who often offer clean, thin, flawless (and anonymous) lines — whereas in Europe, this more personal, handcrafted touch is highly appreciated because it reveals the artist’s individual hand. Uniqueness, recognizability, is always a positive element for European eyes, as it brings the artist closer to the divine act of creation.
The emotion this manhua stirred in me was an immense nostalgia for something I never actually had. I’m from Generation X — “corner stores” existed in my time; in fact, there weren’t any other kinds of shops. They were called “bottega”, “emporio”, “spaccio” — or, better yet, by the owner’s name: “I’m going to Carlino’s, Ieraci’s, Torre’s.” Or sometimes by their nickname: “Magnamagna” (Big Eater), “the Brigand”.
To me, they were terrible places — places you went because you had to, often for a family errand which, for a little girl, felt like an unbreakable command. Inside, I felt like a lamb among wolves, a piece of meat to be weighed, merchandise that could be plucked off a shelf. Even as a child, I could feel the foul breath of patriarchy on my neck. The scrutinizing stares of the “old men” (often barely forty) lingering on my elementary-school girl’s body as if I were a tasty, walking morsel. Adult women were either customers — thus fleeting presences — or the shop owners’ wives — mere extensions of their husbands. Little girls weren’t really welcome in those shops, not even if they were the owners’ daughters. Too many men, too many bad habits — alcohol, cigarettes, the ever-present risk of violence — and not least, the proximity to the world of money and business, from which females were carefully kept away.
So the idea that I could have waited for the bus at a shop, done homework together with other kids while munching on cookies — as happens to the protagonists in The Corner Store — felt like a stab in the ribs. This life, these memories, which were probably shared by many of my male peers, were denied to me simply because I was born female. And I wonder how far removed the little corner stores of rural Calabria in the ’70s and ’80s really are from those in Taiwanese provinces just a few years ago. I wonder if millennial girls in Taiwan, too, felt the weight of male gazes when buying a popsicle. And inevitably, I tell myself — yes, they did.
This thought both angers and saddens me.
In Guang-min’s story, there are female characters, but only three important ones compared to the countless male ones. All three are tied to romantic subplots, and only one has a strong characterization outside of sentimental themes. While the male characters have conversations about the meaning of life, emotions, and business, this kind of exchange doesn’t happen among the female characters, who merely overlap or brush against each other, often without meaningful interaction beyond sharing space on the page. There’s also no intergenerational bond among the women like there is around the male protagonist.
The reading experience remains very pleasant and truly moving. But there’s this constant hum, this background noise — the distortion caused by the absence of half the world. If Japanese manga are sadly notorious for this absence or for turning women into brainless dolls, in a story about ordinary people, one might have hoped for something better. Here, the underrepresentation of women isn’t an editorial choice: it feels natural, a mirror of society.
If I’m focusing on this aspect rather than the other many qualities of the comic, it’s for two reasons: First, because this series has already received plenty of praise and reviews discussing its technical and narrative strengths. Second, because I believe it’s crucial to highlight how often men describe only half the world (and how there are still too few female reviewers, often overly forgiving or not very attentive to gender representation). We women are very used to identifying with male characters — that’s why the female gaze shocks us so much, and partly why boy’s love stories are so incredibly popular.
Feeling excluded from a superhero story is painful; feeling excluded from a story about ordinary people is even worse — especially when the work is so beautiful. And The Corner Store is truly beautiful. The vitality of the narrative flow, the touching human themes, and the expressiveness of the characters make this manhua a true treasure — the kind of story you reread over time, finding yourself in it again and again (and yes, I’m using the masculine consciously) depending on your age and life choices.
What strikes directly, however, is Guang-min’s artistic skill: his style is bold yet stripped of frills, deeply focused on detail while still embracing the roughness of a sketch. A magic that few artists can achieve.
Personally, I really appreciated the character of En Pei, both for her choices and because — well — he’s also very handsome.
It’s worth highlighting the excellent work done by publisher Toshokan on the translation and notes, which often took up a significant part of the margins.
Ruan Guang-min is also a very social and extremely approachable artist: he always replies to everyone with words of gratitude and kindness. This is his Instagram account, where he often posts breathtaking illustrations.
Come nessuna altra arte il giardino ci induce a un pensiero naturalmente quadridimensionale. Siamo culturalmente avvezzi a definizioni del giardino come di spazio o luogo, ma ognuno di noi è in grado di percepire lo scorrere del tempo all’interno di un giardino. Per quanto riguarda me il giardino è maggiormente un’articolazione del tempo, che si materializza nello spazio tridimensionale.
È solo in quest’ottica che si può comprendere la delicata e potente stratificazione estetica del giardino del Casoncello, di Gabriella Buccioli, nel bolognese.
Di questo giardino abbiamo letto la nascita e l’evoluzione nel libro I giardini venuti dal vento. Un giardino che può variare sensibilmente da un anno all’altro, di cui è impossibile cogliere ogni aspetto, proprio perché mutevole, sfuggente.
Ne racconta alcuni momenti il film di Emilio Tremolada “Il tempo del Casoncello”, un documentario che sia nell’esito che nel procedimento di realizzazione riesce a materializzare l’importanza della quarta dimensione nel giardino.
Girato poco alla volta, senza seguire lo standard dei documentari analoghi, cioè quello del classico fluire stagionale, il film raccoglie momenti, apre porte nella storia di questo bosco giardino, porte che sono ancora aperte, porte chiuse, porte che non portano più dove portavano prima. Porte che possono essere attraversate -oggi- solo in questo film.
“Ho seguito il dipanarsi del filo del giardino per anni, filmando quello che mi piaceva o mi muoveva un emozione, un pensiero. All’inizio non avevo nessun progetto preciso, ma nel tempo -nel mio tempo- il film mi si è materializzato davanti da sé”, dice Tremolada.
Forse perché filmato con uno stile rigoroso, preciso e poco indulgente alle romanticherie, alle ricercatezze di luci dorate o di scene d’effetto, il documentario risulta carico di poesia -come il giardino stesso. Reso ipnotico da un affondo nella ricerca dei suoni della natura, a volte amplificati e resi stranianti, e da una colonna sonora irregolare e aspra, costellata da sonorità metalliche e taglienti: nulla di più distante da ciò che consuetamente immaginiamo per raccontare un giardino.
Il film sarà presentato in anteprima assoluta domenica 27 ottobre alle ore 10:30, al Milano Design Film Festival, all’Anteo Palazzo del Cinema. Il festival si arricchisce della nuova sezione BLOOM dedicata all’ambiente, sostenibilità, giardini, paesaggio e persone, curata da Antonio Perazzi. Qui potete vedere il trailer del film
Il memo delle date e degli orari:
ANTEO PALAZZO DEL CINEMA, Milano 27 ottobre 2019 ore 10:30
Qualche tempo fa ho intercettato l’ennesima discussione facebucchiana sulla pubblicità Pandora, fatta non da femministe o maschi Neanderthal, ma da giardinieri.
Lì per lì mi è venuto da ridere.
Mi sono chiesta: ma possibile che manco i giardinieri si siano resi conto di quanto è brutta? E dire che il giardiniere dovrebbe avere una stretta frequentazione con l’Estetica (a quelli che confondono l’Estetica con l’estetista consiglio di passare ad altro blog).
Dato che oltre a una occasionale e non sempre riuscita funzione aggregativa e sociale, i giardini non hanno altro scopo che essere belli (funzione estetica -Mukarovsky), i giardinieri dovrebbero essere in grado di percepire il Bello, anche se la sua definizione non è univoca. E altrettanto dovrebbero essere in grado di riconoscere il Brutto, e visto che la storia della Filosofia ha evidenziato nel corso dei secoli un profondo legame tra l’Estetica e l’Etica, anche l’etico e il non etico. In breve, l’Estetica ci aiuta a comprendere quale è la parte più umana e preziosa di noi, come individui e come specie, e quale dovrebbe essere superata.
La mia sorpresa nel nel leggere commenti del tipo “Pandora libera la filippina che è in te” , “La pubblicità è riuscita nel suo scopo, cioè far parlare di sé” o ancora “bisogna prendere le cose con leggerezza”.
Altri non me ne ricordo ma erano tutti sullo stesso tenore: indifferenza, qualunquismo,abdicazione al senso critico, stupidità o conformismo spregiudicato.
E dargli fuoco?
Sulla filippina che è in te, finalmente liberata dal gioiello Pandora, taccio poiché si tratta di razzismo puro e semplice (pare che vada ancora di moda, specie al Nord).
Che lo scopo delle pubblicità sia far parlare di sé è un pleonasmo, ma non a scapito di qualcuno. La pubblicità non deve essere offensiva o denigratoria, per due ragioni: la prima è che denigrare, sminuire, svilire, decontestualizzare una categoria sociale riposizionandola a seconda delle necessità del brand è semplicemente sbagliato, antietico, e anche brutto. Sì, brutto.
La seconda ragione è quella categoria di persone potrebbe essere indotta a non acquistare più quel marchio o invitare le altre persone a non acquistarlo: questo non non è un buon affare per quella marca.
I più matusa -qui- ricorderanno la protesta dei veterinari contro una pubblicità di non ricordo quale liquore, un amaro, che in maniera “incidentale” li ritraeva come persone amanti del buon bere. I veterinari s’incazzarono un bel po’, e quella marca dovette ritirare lo spot per buttarla poi su un prezioso vaso che doveva essere salvato con un aereo, o qualcosa del genere.
Nessuno si è scandalizzato per la protesta dei vet, né ci ha riso sopra, né ha invitato questi professionisti (per il solito molto ricchi e assai corporativi), a “prenderla con leggerezza” o gli ha mai detto “e fattela ‘na risata, doc!”, specie se il suo cane stava sul tavolo operatorio con una zampa in attesa del gesso.
Delle volte mi viene in mente Lisistrata e sospiro.
Quindi per me chi dice che “Pandora ha centrato il suo scopo” è afflitto da conformismo ed è così biscottato dalla società da non riuscire a distinguere il Brutto dal Bello, il Buono dal Giusto, il Vero dal Falso.
Perché non te lo compri? Costa solo venti dollari!
A chi sostiene “prendila con leggerezza” o invita alla risata, rivolgo una domanda: perché sulle bacheche di tanti e tanti giardinieri in questi giorni ci sono dotte e infinite elucubrazioni su “Spelacchio”? Perché ve la prendete se abbattono gli alberi nelle vostre città? Siete sempre a lamentarvi di questo o quello (condividendo, non sia mai scrivendo un pensiero proprio o FACENDO qualcosa), tutti a dire “ah, le fioriture sono impazzite a causa del clima” o “certo, questo accade se le amministrazioni mettono degli stupidi a potare gli alberi”, e poi però -quando la cosa non tocca voi e il vostro giardinetto- tutti a dire “E prendila con leggerezza”.
E che giardinaggio vuoi fare così, core bello? Ma dove vuoi andare? Ti fermi giusto alle rose, tutte ammucchiate perché “di più è più bello”, alle fioriture in massa, alle cazzatelle shabby chic, al romanticismo senza interpretazione. In te non si alzerà mai l’ala della poesia, non avrai mai il coraggio di fare il passo del leone, e il mondo finirà alla siepe del tuo giardino: ciò che accade fuori non ti turba, non ti interessa e non ti disturba. Finché avrai acqua abbondante per irrigare, i soldi per comprare le rose a radice nuda, il diserbante e l’antiparassitario al supermarket, per te andrà bene tutto. E rimanici nel tuo “tutto”.
Giardiniere Pandora, tu sei un giardiniere Kitsch, prendine atto.
Ti è piaciuta la pubblicità Pandora? E beccati un giardino BRUTTO.
Ecco i giardini che ti meriti, giardiniere Pandora: li ho scelti col cuore pensando a te.
… “perché rovinare un giardino solo per un puntiglio?”.
Vita Sackville West riprese questa frase spiegando il giardino bianco ai suoi lettori dell’Observer.
All’epoca di Jekyll erano di gran moda le fioriture monocolore, che certamente dovevano qualcosa all’estro di Pückler-Muskau e al tardo eclettismo. Spinte in là dal campo da tennis, le complesse aiole si trasformarono in bordi monospecie, in plate-bande estive. La calceolaria gialla è l’epitome narrativa di questo disastro, se si ricorda Il giardino di Elizabeth di von Arnim.
Jekyll, che conosceva a menadito la psicologia della Gestalt, scrisse che un giardino di fiori della stessa tinta, ma con sfumature differenti, poteva anche esser bello, ma non tanto quanto se il colore scelto fosse stato appena esaltato o contrastato. Facendo l’esempio del giardino blu, come quello di Wallis Simpson, spiegava che i blu e gli azzurri non bastano a creare l’idea del blu, ma che occorre qualche delicata luminescenza bianca o di un giallo appena percettibile. Questo l’ avrebbe esaltato e reso il blu più “blu”, foss’anche se -come spesso accade tra i fiori- il colore fosse stato un malva azzurrato, o un blu “sporco”, tendende al viola, al cenere, al bianco, al rosa.
L’importante non è che sia blu, o rosso, ma che sembri blu o rosso.
Se in un disegno ho bisogno di esaltare un azzurro, mi accerto di avere inserito qualche elemento giallastro. Così se mi dicono “rosso” tendo a evitare il colore #FF0000, inserendo un marrone rossiccio, come un Rosso di Marte, o un Terra di Siena Buciata, che hanno comunque una componente giallo-arancio. Questo mi consente di esaltare la componente blu (ottica o pigmentale) pur utilizzando un malva o un azzurro polvere.
E per tornare a Vita e al suo celebre giardino bianco: basta poco, ma bisogna saperlo vedere, per esaltare un colore che tutti oggi ci attendiamo puro e levigato, digitale. Le macchie dorate alla base del petalo dei cisti, il bottoncino dei cosmos, il colore dei lupini, che non è mai bianco, ma sempre con un piede dentro un’impurità grigio-giallina, la delfinia con le punte verde tenero.
In pittura, in disegno, in grafica e in giardino ancor di più, le luci hanno bisogno delle ombre.
Foto da:
accatitipiesse-duepunti-slashslash-puntoit-punto-pinterest.com/pin/556335360189613254/
http://www.honeykennedy.com/2016/05/sissinghurst/
Credo sia una fase necessaria dell’educazione del giardiniere prendere a un certo punto le distanze col giardino. Non con il concetto di giardino o l’idea di giardino, ma con le epifanie di giardino, cioè con le rappresentazioni materiali dell’idea e le procedure comuni ad esse legate.
Non so se questo rigetto, tutt’altro che improvviso, ma crescente negli anni, sia dovuto ad un legame con la Natura più forte e invincibile di qualsiasi altro. Il sentirsi parte di un insieme vitale, sviluppatosi in uno spazio localizzato (un pianeta), e ancor oltre, frutto di una lunga, eonica elaborazione di un insieme superiore e più grande (l’Universo così come lo immaginiamo), pone i giardini su un piano di valore totalmente disallineato a quello comune, cioè il punto di vista del giardiniere, dello storico dell’Arte, del progettista, dell’agricoltore, avvicinandolo a quello del naturalista e del biologo quando non a quello del narratore di fantascienza.
Da questo punto di vista i giardini perdono completamente interesse soprattutto nella loro diffusa forma di “falso borghese”.
Mara Miller scrisse che non esiste falso in giardino per via dell’unicità dell’elemento biologico. Credo che non ci sia concetto più sbagliato di questo. Il falso in giardino è presente quanto in pittura e in scultura, ed esistono giardini che sono come le statuette di gesso della Madonna, della bella contadina o della ninfa dei boschi, su cui è ben visibile la traccia laterale dello stampo. Giardini che sono come un “falso d’autore”, una stampa digitale di Monet incorniciata nella sala d’attesa di uno studio medico, giardini come le cartoline olografiche di Padre Pio sulla bancarella della fiera di paese e via via giù verso il basso, fino ai fiori finti e la palla di neve natalizia.
Mi ha preso un’avversione per questi giardini che mi viene la voglia di cancellarli con una potente riga rossa dalla dichiarazione di status di giardino.
Mi chiedo come gli altri non vedano il falso, la “forgery” soggiacente (Mara Miller, Garden as an Art, SUNY Press 1993). In Italia questi giardini nascono da un’imitazione, da pellegrinaggi verso le terre di Albione, Sissinghurst, Le Vastérival, Chaumont-sur-Loire o il Chelsea Fringe. Quando va bene. Quando va male sono frutto di visite costanti alla fiere specializzate, tour di vivai, abbonamenti a riviste anglofone. Sono il risultato di una buona condizione economica unita a tempo e risorse (acqua, accesso alle piante, alle informazioni, agli strumenti di mantenimento), che aspira a una dimensione più elevata, cioè quella proposta dai paesaggisti internazionali (che già sono copie di se stessi), di cui si raccolgono le suggestioni stilistiche più superficiali, più immediatamente visive, come le siepi di Wirtz, le onde di Hummelo, i cerchi di Jenks, le graminacee di Oudolf, ma che non si spinge ad una “sincera elevazione del gusto” (Guido Giubbini, Rosanova n° 24, aprile 2011).
Non hanno nessuna originalità, nessun estro, nessuna aspirazione. La massima ricerca è capire che fungo ha preso il prato o se tra questa e quella rosa è meglio il giallo freddo o il giallo caldo.
Insomma, raggiunta la maturità della tecnica orticola, intesa come cura delle piante e capacità di giustapporle, il giardino-falso lì si ferma. Persino la detestata brodura inglese fa qualche passo in più, arrivando a una capacità compositiva elevatissima che di per sé diventa stile e linguaggio. Come a Hidcote Manor, che supera il limite imposto dalla materia usata (non sobbalzino coloro che non accettano il termine “materia” per le piante: si intende qui la “cosa” di cui è fatta l’opera d’arte. Anche Michelangelo superò il limite della materia usata).
Le rose, in particolare, in questi giardini-falso, diventano emblema della “forgery”. Tutte identiche, tutte ben tenute, tutte straripanti di fiori, tutte antiche o anticheggianti, tutte straspampanate, tutte strabordanti e straromantiche al punto da farti prendere un attacco epilettico.
Povere rose, perché? Capisco allora certe frasi un po’ trancianti di persone che dichiarano una forte avversione per le rose. Per le rose usate in quel modo, senza alcuna misura nè criterio, sì.
Da creatura sensuale e mistica, la rosa diventa volgare e senza fascino, perfino ridicola e disturbante, presenza asfissiante, claustrofobica, nauseante.
Le pratiche di manutenzione, poi, così apertamente insostenibili dall’organismo “Terra”, non le tollero in alcun modo. Perché il giardino viene inteso come un mezzo per dimostrare una maggiore “bravura”, specie tra gli appassionati, e questa “bravura” aumenta esponenzialmente in misura della perfezione delle corolle.
Ma un vero giardino non ha paura del fango e degli insetti (Maurizio Usai, Rosanova n° 23, gennaio 2011)
Svegliatevi e prendete il vostro caffè: i fiori non fanno un giardino.
“Falso-borghese”: magari qualcuno si chiederà perché ho scelto questa locuzione. Perché si tratta di copie di giardini, copie non creative, non elaborate. Sono, in poche parole, la riproposizione acritica e pedissequa di strutture giardinicole già sperimentate e anche obsolete o obsolescenti. Strutture facenti capo alla bordura mista (legnosa, erbacea, francese o inglese, non cambia poi molto), in cui l’elemento centrale è la cura della pianta, che riconducono alla pratica hobbistica del giardinaggio e non all’idea creativa di un giardino, alla “kepoiesi”.
A questi giardini manca l’intenzione, manca quello che chiamo “il coraggio del passo del leone”, o “il coraggio della fede”, se siete spiritualisti.
Perché “borghese”? Perché oggi siamo tutti borghesia. Tuttavia il termine, usualmente, accomuna chi ha un maggiore potere d’acquisto, magari non elevatissimo, unito a un maggiore capitale culturale.
Non sono giardini “ricchi” ma dimostrano comunque un certo agio, e se consideriamo il fatto che il giardino sta ritornando ad essere molto costoso, anche “un certo agio” è una dimensione più ristretta di quanto non fosse vent’anni fa. Spesso sono piuttosto piccoli e sono sempre amatoriali. Nascono in un ambito culturalmente aperto e fertile, spesso aggiornato, ma non solido e profondo al punto da spingersi oltre l’imitazione.
Io li trovo immensamente tristi. Tristi per me, non per essi stessi. Anzi, di solito chi li abita è felice, e quello che ha fatto gli basta, in questo senso si potrebbe dire che sono “onestamente falsi”.
Sia come sia, io non riesco a trarne nessun profitto, nessun godimento interiore. Mi paiono come un libro scontato, un film scialbo, un piatto insipido. Sì, te lo mangi, ma devi avere davvero fame.
Questi giardini non parlano, sono muti. Io chiedo un giardino che parli anche ai sordi. Chiedo Arte, chiedo Poesia.
Non intristiscono per quello che sono, ma per l’occasione perduta, per ciò che sarebbero potuti essere, con la dote della leva calcistica del ’68: “Non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che lo giudichi un giocatore. Il giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”.
Un paio di giorni fa, su Radio3, andava in onda un’intervista a Franco Micalizzi sulle numerose citazioni di Quentin Tarantino della sua colonna sonora di “Trinità”.
Micalizzi ha detto qualcosa del genere: “Vengo da una scuola in cui eravamo abituati a comporre musiche originali, l’unicità era ciò che ci distingueva. Ma se altri si trovano bene nell’esprimersi attraverso ciò che ho scritto io, a me fa solo piacere, tantopiù che Tarantino lo fa in modo splendido”.
Poi sono dovuta andare a fare la spesa.
Non è la prima volta che mi capita di sentire qualcosa di analogo, quando mi interrogo sulla natura della citazione: “esprimere se stessi, ma con i termini già fatti da altri in precedenza”.
Se questo è senz’altro vero per la citazione scritta, non lo è sempre per quella visiva o musicale.
Come tutti, sono affascinata dalle citazioni, dagli aforismi e dai brevi proverbi. Sono quel tipo di persona che non ricorda le date e i nomi, ma che sa a memoria interi film, battuta per battuta. Sì, sono una di quelle odiosissime persone che mentre la famiglia è riunita a vedere un film, dice la battuta un secondo prima che esca dalle labbra degli attori.
A volte rispondo frasi apparentemente sconnesse e senza senso:
“E come ci piace la pastella a lei? Normale, al dente o ben cotta?”.
“Era buona la totta?”.
“Sì, però è un caldo asciutto!”.
“Follia completa!”.
“Scusi il francese”.
“Alla grande grande”.
“È stata una giornata brutta brutta brutta”.
“A chi, al tonno?”.
“Sì, la torta la prendo, ma non riscaldata”.
“Tu sei quello che i francesi chiamano “les incompétents” “.
“Piccoli bambini negri di Shimoga più ritardati che io”.
“Stronzo inutile!”.
“Inconcepibile! Del tutto, in qualsiasi altra maniera, inconcepibile!”.
“Travalica la mia capacità di razionalizzare”.
Credo che mai come in questa epoca storica la citazione veda il suo momento d’oro. Non solo la citazione pura, quella dei tesauri o degli almanacchi, delle agende e dei calendari. Intendo proprio la citazione artistica, cha a volte diventa appropriazione di un’altra opera d’arte.
Da studentessa ho imparato a guardare la citazione come un escamotage, tollerata se ispirata alla cultura istituzionale o elevata. Solo i più ardimentosi pescavano nel magma della cultura pop.
Era pericolosa, malvista.
Solo le rock star, i registi, i grandi fotografi, erano ammirati quando riuscivano ad inserire una citazione all’interno delle loro opere. Tutto il resto del mondo era biasimato.
Oggi la citazione artistica è un elemento quasi necessario per farsi comprendere, per parlare agli altri. Le opere originali sono considerate o “visionarie” o “cerebrali”.
La mole di film che citano film che citano altri film, è una testimonianza tangibile, poiché -su tutto- il cinema si presta ad accogliere suoni, parole e immagini, e quindi citazioni provenienti dalle più disparati fonti, anche diverse, mescolandole.
La citazione non è solo un mezzo espressivo attraverso le opere altrui, ma -dopo attenta e lunga anlisi- sono arrivata a concludere che sia uno degli elementi distintivi del Postmodernismo.
Giubbini scrisse che viviamo in’epoca senza stile, come paradigma artistico, non come “classe” o “raffinatezza”.
Il Postmodern si qualifica per non possedere uno stile a margini fissi, ma proprio per il suo eclettismo, molto più ampio di quanto possa essere stato ogni eclettismo passato, grazie alle suggestioni che provengono da ogni parte del globo. Il Postmodern non è riuscito a individuare una serie di regole estetiche precise, nuove, proprie. Ma le ha mutuate dai periodi precedenti, fondendole in un modo perfettamente riconoscibile.
E allora vedete che piano piano ci stiamo arrivando: non è cosa ma come. È il modo in cui questi elementi vengono isolati, frattalizzati, incollati o fusi, su cui si basa lo standard of taste del Postmodern.
Se ne evince che l’originalità non trova facile collocazione all’interno di un insieme eterogeneo. Non si capisce cos’è e la si ignora come elemento estraneo o non pertinente.
Mentre ciò che già risiede nell’immaginario collettivo, vuoi per la sua grande potenza espressiva che per la sua età, assolve meglio alla funzione “copia e incolla”.
Conclusione: ringrazio tutti coloro, dotti e professori, a cui ho posto questa domanda e che mi hanno risposto in modo superficiale e disattento. Ringrazio la mia autonomia di pensiero e la capacità di attendere l’input giusto, e -ovviamente- il signor Trinità.
Blu di prussia steso ad olio. A destra è più denso, appena uscito dal tubetto, a sinistra meno saturo (più liquido)
Non so quanti di voi ricorderanno il libro da cui proviene questa frase, ma l’acido prussico non ha colore, nonostante per la nomenclatura Iupac si chiami cianuro di idrogeno, il che farebbe pensare ad una colorazione azzurra.
Il blu di Prussia non ebbe sulle prime l’enorme fortuna di cui godette in seguito, proprio perchè in molti temevano che decadendo si trasformasse in acido prussico, diventando mortale.
La storia dell’invenzione del Blu di Prussia è, come spesso accade nella storia dei colori e degli alimenti, piuttosto casuale.
Il colore azzurro era sempre stato difficile per i pittori e i tintori. Per alcune popolazioni era considerato poco importante, mentre oggi è il colore più amato nei paesi occidentali e in assoluto il meno sgradito.
La cravatta di pessimo gusto. I soldi del blu li anticipò il Papa
Fino al 1700 si tingeva e si dipingeva con il lapislazzuli (un minerale di origine estrusiva, raro e costosissimo- con cui è dipinto il fondo del Giudizio Universale della Cappella Sistina), o in alternativa con l’azzurrite, una sorta di lapislazzuli di seconda scelta, o con coloranti vegetali tipo l’indaco e il guado (Isatis tinctoria).
I dipinti e soprattutto le stoffe tinte di questi colori non avevano splendore, profondità, non tenevano ai lavaggi, e sbiadivano, soprattutto considerando che l’importazione dell’indaco (prima dall’Asia e poi dalle colonie americane), che aveva una resa migliore, era vietata.
Solo nel 1737 il divieto cadde.
Intanto a Berlino, all’inizio del secolo, era stato già “scoperto” il Blu di Prussia.
La storia è molto divertente. C’era un droghiere e venditore di colori che aveva un rosso molto bello nel suo catalogo. Lo otteneva aggiungendo del potassio a un decotto di cocciniglia (sì, stramaledette, crepate! Noi siamo animalisti!), a cui prima aveva aggiunto del solfato di ferro. Un giorno che gli era finito il potassio mandò il suo gatto a comprare del filo color ciliegia….no, questa è un’altra storia. COMUNQUE! Un giorno esaurì le sue scorte di potassio e l’andò a comprare da un chimico di sinistra fama, tale Johann Konrad Dippel, che gli vendette del carbonato di potassio già utilizzato per i suoi esperimenti, quindi adulterato.
Fu così che invece del rosso, il droghiere vide formarsi un precipitato di un magnifico e intenso colore blu. Purtroppo il droghiere non comprese il valore di questa accidentale scoperta, ma Dippel sì. Dopo un po’ di prove iniziò a commercializzare il nuovo colore col nome di Berliner Blau.
Polvere di Blu di Pussia
Nel 1724 (mancavano più di dieci anni all’abolizione del divieto di importazione dell’indaco), un chimico inglese riuscì a ripetere l’esperimento e rese pubblica la formula chimica del colore e il metodo per ottenerlo. Nel frattempo il Berliner Blau era diventato Blu di Prussia, ed ebbe via libera in tutta Europa.
Il losco e disonesto Dippel, che non aveva mai voluto rivelare la sua formula, fu rovinato e si rifugiò in Scandinavia, dove divenne cerusico del re. Lì potè dare libero sfogo alla sua inventiva e mise a punto una serie di farmaci pericolosissimi che gli valsero l’espulsione dalla Scandinavia e la deportazione in Danimarca. Salute.
Arrivando più vicino a noi, nel 1800, i tintori se ne servirono per lanciare il “Blu marino”, cioè quello che noi chiamiamo “Oltremare Francese” che sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno sociale della moda.
Blu oltremare per l'abbigliamento sportivo moderno
A consacrarlo come colore della legge fu la Prima Guerra Mondiale, quando le divise, fino ad allora nere, divennero blu scuro. Un nero brillante, profondo, che tenesse il colore, era difficile da ottenere e molto costoso, perciò si pensò a Blu Oltremare come colore meno austero e più a buon prezzo, oltre che più gradevole. Da qui viene la moda del colore blu delle tute e delle uniformi da lavoro, postino, meccanico, falegname, grembiuli, sopravesti da lavoro, ecc. “Colletti bianchi e tute blu” è un detto che vale ancor oggi per indicare la separazione tra classe dirigente e quella lavoratrice.
Jeans tinti in Blu di Prussia
Un capitolo a parte lo meritano i jeans, che assunsero quel colore per cause accidentali (una partita di tela da velatura non conforme alle richieste, finita per diventare stoffa per le tute dei lavoratori americani). In italia divennero simbolo della contestazione studentesca (certo, non in questo colore austero, ma in colori più chiari e slavati). Ma la verità che oggi possiamo dire è che il ’68 fu un movimento borghese, ove non alto-borghese.
Insomma, dire che ci piace il blu è un po’ un non dir nulla, essere nella media. Il blu è apprezzato da tutti, nelle sue varie sfumature.Incredibilmente rustico.
Country blue, cosy, gentle and lovely
Come anche del tutto sciccoso.
Bulgari, Blu di Prussia, a volte detto Blu Ottanio
Il blu è un colore riposante, pacificatore, e questo sin dall’epoca medievale. E’ un colore onirico, dell’irraggiungibile, del sogno, del fantastico (Der Blaue Reuter, il Principe Azzurro)ma anche della tristezza malinconica rassegnata, della nostalgia romantica (to feel in blue), è il colore della notte, (Blue Velvet), nell’America Settentrionale, l’ora blu è l’orario di uscita dagli uffici. In tedesco ubriaco di dice blau. Colore del freddo, colore della tecnologia (Blue-ray), della nobiltà (sangue blu).
E qui mi fermo, perchè volevo parlare solo della curiosa scoperta del galantuomo di Dippel e del Blu di Prussia.
Ora vi metto un Blues che vi sdirenerà il cuore
It was down in Old Joe’s barroom,
On the corner by the square,
Drinks were being served as usual,
And a goodly crowd was there.
When up steped old joe McGuinny
His eyes were bloodshot red;
As he poured himself more wiskey,
This is what he said:
I went down to the St. James Infirmary
I saw my baby there,
Streched out on a cold white table,
So sweet, so cold, so fair.
So Let her go, let her go, God bless her;
Wherever she may be **see note**
She may search this wide world over
but she’ll never find a sweet man like me.
When I die, want you to dress me in straght laced shoes
A box back coat and a Stetson hat;
Put a twenty-dollar gold piece on my watch chain
So the boys know I died standin’ pat.
**verses not in original recording**
There are sixteen cold black horses,
Hitched to her rubber tired hack;
There are seven women goin’ to that graveyard,
and only six of ‘em are coming back.
Now that you’v heard my story,
pour me one more shot of booz;
And if anyone comes askin’ about me,
Tell ‘em I got, Saint James Infermery blues.
Some people exchange “She never did love me” for the line “Where ever she may be” that was in the original.
Anche Hugh Laurie ne canta una bella versione, strumentisticamente più articolata ma non così toccante
"Quando guardiamo il cielo di notte ci soffermiamo ad ammirare le stelle a caso senza seguire uno schema.. lasciamo che la nostra fantasia si perda in questo immenso soffitto brulicante di luci... una stella grande.. qualcuna piccola.. un'altra azzurra ed una rossa! Luci lontane che forse ora non esistono neanche più.. eppure sono lì le guardiamo ogni sera quando le nuvole ce lo permettono.. luci che continuano a brillare .. a vivere.. che continuano a farci sognare! Questo BLOG vuole essere uno spazio semplice, senza pretese, uno spazio dove antichi sorrisi e sguardi continuano a brillare come stelle... semplicemente continuano a vivere nell'immenso cielo della rete." (Domenico Nardozza)