Di questa serie ho ricordi vaghi e nebulosi, ma esercitò su di me un fascino terrorizato. E’ uno dei miei “cassetti” della memoria e del cuore.

Flight: stallo e caduta libera

Spoiler

flightI film sui disastri aerei non sono più come una volta. Certo, come dargli torto? Dopo l’11 settembre appaiono o terrorizzanti o di cattivo gusto.
Per chi rivede in continuazione tutti i passaggi tv dei vari Airport, paragonare Patroni a Denzel Washington, è dura, eh.
Almeno Patroni, per sbaglio, poteva mangiare l’insalata di pesce avariata, mente Denzel si ubriaca e tira coca più di una intera redazione di un quotidiano.
Insomma, dai, che palle. Hai imbrogliato, Bob. Ci attiri con l’incidente aereo, ci fai immaginare uno scandaloso processo, mentre il tuo film è uno dei miliardi di miliardi di film sugli alcolisti? Be’, vaffanculo di cuore, sai.

Yippee ky yay Mother Russia

SPOILER

die hard 5_hippee_ki_yay-mother-russia La prima volta che ho visto un Die Hard è stato in tv, su Italia Uno. Lo presi già iniziato, tanto che ero convinta si trattasse di un film su un furto ad una banca e che i buoni fossero i ladri. Nella mia testa c’è un Die Hard-specchio in cui Hans è il buono e McClane un infiltrato.
Die Hard non lo puoi liquidare come “filmetto d’azione” seguito da seratina con pizza tra amici. No, è qualcosa che nel bene o nel male sta dentro i cuori di noi quarantenni.

Siete nati dopo, avete vent’anni? Die Hard vi sembrerà muffa su un’arancia lasciata a marcire, ma quando noi sentiamo pronunciare Hippee ky yay pezzo di merda! abbiamo come una sorta di risveglio delle branchie, una vibrazione dei follicoli epiteliali, una ricrescita pilifera.

Da allora, che ve lo dico a fare, non ne ho perso uno. Li ho visti tutti al cinema, anche questo, che era dichiaratamente al di sotto delle prove più riuscite.
E dopo una giornata orrenda ho deciso di chiudermi in quella magica oscurità in cui ogni cosa diventa bella.
Me la sono goduta un mondo con le scene in cui decine di auto venivano distrutte l’una dopo l’altra tentando di non chiedermi: ma perchè i soldi per comprare auto da distruggere non li hanno dati ad uno sceneggiatore decente?
E anche, ragazzi, quando l’elicottero si schianta su Cernobyl, e loro si buttano giù, non puoi che pensare: i MacClane, che famiglia!

Per renderlo un film appena passabile sarebbero bastate davvero poche cose. Prima di tutto una lunghezza maggiore. Ormai siamo abituati a film di due ore e mezza, questo è durato un soffio, appena un’ora e mezza, per come ho calcolato io. Sarebbe bastato inserire qualche scena in più sul McClane figlio, con tutte quelle cosette che piacciono alla Cia, tipo appostamenti, pedinamenti, microspie. Una cosa un po’ alla Nemico Pubblico o Bourne Identity. Ma sarebbero bastati pochi minuti. Aggiungere una scena che avrebbe migliorato il collegamento tra la fuga da Mosca e l’arrivo a Cernobyl, e basta.
Sarebbero stati venti minuti in più e avrebbero reso più lineare il film.

E poi, accidenti, i due MacClane facevano a gara per vedere chi risultava più antipatico. Bruce qualche battutina scema in più ce la poteva mettere, mica stiamo parlando di un film serio; e il figlio -santa pace- a parte il bellissimo colore d’occhi che abbiamo potuto ammirare nelle riprese ravvicinatissime (segno che si aspettano di più dai passaggi in televisione), è da buttare dalla testa ai piedi. Acido come un ravanello tenuto all’asciutto.

Nazifascista, oppiomane, guerrafondaio, sorpresa nell’uovo di pasqua, santo e scrittore di favole per bambini

Da sinistra a destra Orcrist, Sting, Glamdring
Da sinistra a destra Orcrist, Sting, Glamdring
Dopo l’uscita al cinema dell’Hobbit, speravo di avere materiale per una recensione da postare sul blog. Ma non sono riuscita a trovare che pochi appigli per dire qualcosa di già detto e ho lasciato perdere.
Così ne ho cercate in rete, sperando che qualche blog, magari semisconosciuto,  in coda alle classifiche, dicesse qualcosa di intelligente.
Forse non ho cercato abbastanza, ma l’essere un’anima tolkieniana mi fa sentire il dovere di dire qualcosa io: soprattutto di mandare a cagare i blog che hanno scritto interi poemi sugli aspetti tecnici della riprese in trepernoveventisette, quelli che hanno scritto che Lo Hobbit è “una fiaba” o “una favola per bambini” ( augurandogli crampi e violenta dissenteria) e gli altri che hanno incensato il film dicendo : “Dopotutto, Il signore degli anelli è irripetibile”.

Be’, anche Mrs. Dalloway è irripetibile, ma non per questo Virginia Woolf non scrisse Le onde.

 

Tolkien nella sua vita da “famoso” ne ha subite tante di traslazioni del suo pensiero, di critiche che l’hanno fatto fluttuare dal nazifascismo alla cristologia, accuse di essere aduso alle sostanze stupefacenti per inventarsi tutte quelle robe lì; dopo il ciclo di flebo del dottor Jackson i suoi personaggi sono diventati figurine Panini e sorprese dell’uovo di pasqua, e “tesssoro” un intercale comune, e in ultimo, con questa ulteriore dose di Ringer con bicarbonato (per la digestione), è diventato “uno scrittore di favole per bambini”.

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Trascurando la non ovvia differenza, anche se meno consistente nel sud mediterraneo, tra “favola” e “fiaba”, Lo Hobbit non è né l’una né l’altra. Spiacente per chi lo crede, spiacente per chi l’ha scritto, oltremodo spiacente per chi l’ha letto e continua a crederlo.

 

Molti recensori si sono soffermati proprio su quest’aspetto: “è meno maturo del Signore degli Anelli”, “si capisce che il target è meno adulto”, “se non l’avete letto a otto anni non vi entusiasmerà”, “dopotutto si capisce che nasce dai racconti per i suoi figli”. Ecc. ecc.

 

Ma che vogliono, mi chiedo a questo punto, i ragazzi (e con questo termine abbraccio dai nativi digitali fino ai quarantenni) al cinema quando vanno a vedere un fantasy? Draghi sgozzati, orchi bavosi, lupi mannari che dilaniano gli avversari, orde di barbari che calano su cittadelle fortificate, teste mozzate, villaggi dati a fuoco, donne stuprate, effettacci speciali con milioni di comparse digitali tutte identiche, muscolature alla Boris Vallejo, vampiri e vampire, magari con un buon contorno se non proprio di tette e culi, almeno di begli occhietti e belle labbruzze da immaginare di baciare con la lingua(leggi: Lyv Tyler e Cate Blanchett)?

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Devo dedurre che se non ci sono guerre, città messe a ferro e fuoco, omicidi, sangue grondante un po’ ovunque, ampia varietà di mostri urlanti, un film fantasy “è una favola per bambini” ? Cribbio, ma l’avete mai visto The princess bride? E It? It, nonostante i mostri e il sangue È una favola.
No, dico, li avete letti Il Visconte dimezzato, Il Cavaliere inesistente  e il Barone rampante? E immagino che, visto che sua moglie era solo una casalinga e non una diva su youporn o una vampira ninfomane, anche Marcovaldo sia “una roba per bambini”. E via, dentro alle fiabe per bambini anche le Interviste impossibili di Calvino, i romanzi di Mark Twain e di London.

E avanti così, perché di questo passo Jane Austen e Virginia Woolf diventeranno “letteratura rosa” e Moby Dick e Lord Jim  “romanzi marinareschi”.

D’altra parte di che mi lamento: alla Hoepli di Milano il giardinaggio sta sotto “casa e tempo libero”, esattamente come su Amazon e IBS.

 

Sarò antiquata, ma “per bambini” erano le fiabe di Gianni Rodari, I Quindici, erano i giochi di parole e gli indovinelli da fare in classe, i libri da colorare.

“Per bambini” significa “destinato ad un pubblico che deve crescere”. Mentre devi essere ben cresciuto per leggere Lo Hobbit.

 

Lo Hobbit non nasce, come pensano i blogger col naso all’insù, dalle Lettere di Babbo Natale o da Mr. Bliss o da vari ammennicoli essenziali che Tolkien disegnava per i suoi figli. Nasce casualmente, perlomeno così ci tramanda la critica, dall’invenzione estemporanea del nome “hobbit”. Ciò condusse Tolkien a fare ciò che faceva sempre, sin da quando era marconista sulla Somme: a creare una lingua, una geografia e una storia per un popolo inventato. Nacquero così “la Contea” e la sua geografia, e la stessa Contea fu inquadrata nel più vasto territorio della Terra di Mezzo e delle sue dinamiche.

 

Io lessi felicemente per la prima volta Lo Hobbit nei lontani anni Ottanta, non trovandolo affatto una fiaba. E mi chiedo se chi lo definisce tale ha mai letto i vasto corpus di fiabe europee pubblicate credo nei Novanta dalla Oscar Mondadori, piccoli tesori per noi studenti, allora resi finalmente accessibili a prezzi modesti.  Mi chiedo se abbiano letto i testi di Norma Lorre Goodrich, o il Mabinogion, o Chrétien de Troyes.

I Nibelunghi, il Voluspä, l’Edda in prosa, l’Edda poetica, la Saga di Ragnarr, Beowulf, Sir Galvano e il Cavaliere Verde.
MA CHI HA VISTO QUESTO FILM, LO SA O NO COS’È L’ARAZZO DI BAYEUX?

bayeux arazzo

 

Ragazzi, è da questo che viene Lo Hobbit, non dai disegni dei francobolli finti per i sui figli!

Se l’idea di scrivere un romanzo per i suoi bambini può certamente essere esistita nella mente di Tolkien, questa non si materializzò con Lo Hobbit.  È innegabile che il pubblico infantile ne fu affascinato, ma noi non rimaniamo affascinati anche da 20.000 leghe sotto i mari ? Eppure non è una fiaba. È un gran romanzo, e come tutti i gran romanzi, se si è apprezzato da piccoli, si continuerà ad apprezzarlo da grandi.

Tolkien scrisse sempre per i suoi figli. Anzi, riuscì a completare Il Signore degli Anelli, dopo un lungo momento di blocco creativo (Pipino e Gandalf che corrono verso Minas Tirith su Ombromanto), grazie al supporto che gli dava il figlio Christopher, all’epoca aviere al fronte, a cui spediva i capitoli e da cui li riceveva annotati e corretti.
 

Nello Hobbit, nel suo linguaggio, nella definizione dei personaggi, ci sono delle evidenti ricerche di ricreare quell’atmosfera grottesca e popolaresca dei Racconti di Canterbury. Tutto questo è stato raccolto da regista come un invito ad usare battute e motti di spirito (a dire il vero poco divertenti) e portare sopra le righe ogni personaggio (senza però riuscire nel compito più arduo: differenziare i nani, che nel romanzo hanno una caratterizzazione molto evidente).

Ciò che distingue fondamentalmente Lo Hobbit dal Signore degli Anelli, per il lettore, è proprio qui. Nello Hobbit ogni personaggio ha un suo perché e una sua motivazione d’essere, la sua resa come personaggio è dinamica, sferica, completa. Non confonderesti mai Kili con Dori, o Bombur con Gloin.  Mente Il Signore degli anelli, per necessità, vede un appiattimento caratteriale dei personaggi fino a renderli oggetti narrativi funzionali alla trama (e qui i preti ci sono andati a nozze).

Lo Hobbit è, anche senza Il Signore degli Anelli, un’opera compiuta (e a detta di molti, ben più compiuta del suo seguito) che vive in maniera del tutto autonoma e racconta di vicende che hanno una loro indipendenza estetica dal contesto del corpus tolkieniano.

Per quello che riguarda me posso dire che è un libro decisamente più riuscito del Signore degli Anelli, sia per l’originalità che per la freschezza stilistica.
 

Da ultimo, ma giusto per darvi qualche informazione extra, i blogger più attenti hanno detto che per allungare il Ringer fino a portarlo a tre litri, uno l’anno ogni natale,  l’infermiere Jackson ha attinto a piene mani dalle Appendici del Signore degli Anelli.

Non è del tutto esatto. La maggior parte delle informazioni infilate in bolo nel Ringer non si trovano affatto nelle Appendici, ma nel volume Racconti Incompiuti, nella fattispecie a partire da pagina 425 e segg. La cerca di Erebor, una vera miniera di informazioni su tanti “retroscena” che non ci saremmo mai aspettati.

E' qui che s'è andato ad infilare Peter Jackson
E’ qui che s’è andato ad infilare Peter Jackson

 

Suicidatemi per favore
Suicidatemi per favore

Il cigno nero, l’arte come rinuncia a se stessi

Con questo benedetto decoder i collegamenti tra videoregistratore e lettore dvd sono saltati tutti.
Per vedersi un film tocca fare delle capriole alla Dimitri Sautin.
Ieri mia mamma ha insistito vivacemente di voler vedere Il cigno nero.
Era la seconda volta che lo vedevo e a me era piaciuto già la prima. Ieri invece l’ho visto in modo un po’ passivo.
Su questo film ho sentito molti pareri discordi e molte interpretazioni differenti. Io credo sia un bene. Quando di un film si danno diversi significati vuol dire che è andato al di là di quanto ci si aspettasse.
Quando un’opera può essere letta a molteplici livelli di interpretazione è lì che può nascere l’arte.

E qui entra in gioco il mio buon amico Jan Mukarovsky. L’in-intenzionalità è una delle caratteristiche dell’arte. Ciò che è precluso all’artista e che è invece peculiarità del caso, del tempo e -soprattutto- del pubblico.

Lo scultore dei Bronzi di Riace non poteva certo sapere che sarebbero finiti in acqua e le armi rubate. Ora quelle “pose plastiche” sembrano nascere da un semplice movimento, non da uno sforzo per sorreggere un giavellotto o uno scudo. E lo stesso vale per la Nike di Samotracia, il cui volto è il volto della bellezza e della potenza che ognuno di noi ha in mente, più o meno definito (ma alzi la mano chi ha in mente un volto ben definito della Nike di Samotracia!).
Perciò a volte non capiamo l’arte moderna, perchè è poco storicizzata. Gli Anni ’50, ad esempio, li abbiamo metabolizzati, ci vorrà ancora un po’ per gli Anni ’80.

Un’opera d’arte totalmente intenzionale non è “perfetta”, come si potrebbe pensare (tutti la guardano e pensano la stessa cosa), ma è del tutto Kitsch, cioè non lascia spazio libero all’immaginazione, non trova collocazione al di fuori di se stessa, non esiste neanche al di fuori di se stessa, non riesce a porsi in differenti piani di analisi e ad abbacciare funzioni diverse, seppure tangenti, come quella simbolica o magico-religiosa.

Perciò si può a buon diritto dire che l’opera d’arte è letteralmente costruita dal pubblico che la osserva, con le sue mille interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni (stratificazione del giudizio).
Ciò non significa che passare davanti ad un Moore e dire : “Che bella schifezza” contribuisca alla crescita della critica artistica, ma solo alla crescita dell’ignoranza crassa, supina e pluristratificata.

Rimannendo in campo artistico vorrei proporre la mia interpretazione di Il cigno nero. Fatto salvo che non conosco la storia del cinema e i suoi stili e che le mie recensioni sono tutte elaborazioni logiche o commenti di pancia, io la vedo così:
Nina ambisce alla perfezione. E’ il fil rouge di tutto il film. La perfezione, come ogni artista sa, non esiste. Se una cosa fosse perfetta (cioè, secondo il latino, perfecta, “conclusa”), sarebbe con tutta probabilità un classico intoccabile o un un’opera Kitsch. Il compito più grande dell’artista è avvicinarsi il più possibile alla perfezione evitando accuratamente di toccarla.
La perfezione è un bersaglio mobile. E’ proprio quando ti avvicini e miri per colpire, che ti sfugge. Ma nella mia esperienza di artista e critico d’arte è lo sguardo con la coda dell’occhio il più sensibile: non bisogna mirare al bersaglio, ma appena un po’ di lato.

Per come la vedo io Nina si trasforma da “cigno bianco” (una ottima danzatrice, ma senza quel carico di emozioni che un vero artista deve saper trasmettere. Se vogliamo è “perfetta” ma fredda), in “cigno nero”, una vera artista, che è totalmente in simbiosi con l’opera prodotta. L’opera viene da lei, lei dall’opera. E’ un binomio indissolubile che tutti gli artisti conoscono. Il creatore e il creato sono la medesima cosa/persona, è quanto di più vicino alla divinità posieda l’Uomo (checchè ne dicano le varie religioni).
Non si può spiegare, accade, è il “passo del leone”. E’ il passo della fede.
Nel film tutto ciò è rappresentato dalla metamorfosi fisica di Nina nella famosa scena in cui volteggiando le crescono le ali nere.

Per essere una vera artista Nina deve morire, a se stessa e al mondo. Non è un procedimento che si impara a scuola: è la vita, il più delle volte, che si incarica di sfuggirti,e l’Arte diventa-come suggeriva Montale- un “surrogato, un compenso, per chi realmente non vive”.
L’artista è morto a se stesso. E’ l’Autore/Creatore, non un “io”. Non può farne a meno.
E il modo che ha, il solo modo che ha, per cambiare la realtà è quella di raccontarla, farla vedere, non già com’è, ma come egli vorrebbe che fosse.
Perciò la morte finale di Nina, che molti hanno trovato pretestuosa e incoerente, io la trovo simbolica di una rinascita ideale come artista.
L’arte richiede il sacrificio della vita interiore (si dice che Flaubert avrebbe venduto sua madre per un buon verso), della vita interiore di chi ci sta vicini e di chi amiamo, a volte anche della nostra stessa fisicità.

Ortobello, corto in partecipazione al Via Emilia Doc Fest- Houssy’s Movies

ORTOBELLO. PRIMO CONCORSO DI BELLEZZA PER ORTI.

Segnalo ASINC, critica del doppiaggio

La rete è ancora un posto bello se ci sono siti così.
Home page in italiano, ma c’è anche in inglese.
Aggiunto al blogroll.

I mercenari 2

Il cinema mi alza sempre il morale. Se non avessi passato una giornata da schifo forse non ci sarei andata.
“Me ne vado a un cinema”. Cazzo che verità. La dice Sarah Connor nel primo Terminator. Si mette una maglietta rosa slavata, di quelle tipo batik che andavano di moda negli ’80 e dice “Io me ne vado a un cinema”.
E io aggiungerei: faculo a tutto il resto. Nel cinema uno si dimentica della sua merdosa vita, delle merdose persone che ti serpeggiano vicino, delle merdose camicie di forza che ti strangolano.

Santa guadalupe, in certe scene pensavo che sarebbe spuntata fuori una quattro stagioni su un vassoio con la scritta “Planet Hollywood”, ma mi sono sentita come ad una rimpatriata di ex-alunni, a sparare cazzate sulle professoresse e aneddoti sui culi delle compagne.
E che il diavolo mi prenda, avrei voluto essere lì con loro.

Prometheus di Ridley Scott e una riflessione sulla contemporaneità

SPOILER: il testo che segue contiene informazioni sulla trama e il finale del film Prometheus.

Che sensazione strana andare al cinema per vedere un film di fantascienza e uscirne scoprendo di aver visto il prequel di Alien.
Neanche nei miei sogni più sfrenati ho mai immaginato che di Alien si potesse fare un prequel, eppure pare che il progetto fosse nell’aria da tempo: si vede che sono proprio fuori da certe dinamiche di pensiero.
Sono perplessa: ci sono un paio di cose che non tornano. No, perchè dovete sapere che io Alien e Aliens li ho mandati a memoria, altro che Pignatti.

Considerando le scarse informazioni date in Alien era difficile sbagliare, non far combaciare le cose, eppure ci sono riusciti.
Certo, se di un filmone così mostruosamente pubblicizzato e sceneggiato di fretta, si può dire che “ci sono appena un paio di cosette che non vanno”, già non è poco.
A quali livelli di logica immaginativa si devono librare le nostre menti per far combaciare pezzi apparentemente buttati a caso in serie televisive, saghe di film, personaggi morti e resuscitati? Una telenovela anni ’80 avrebbe avuto maggiore consequenzialità di certe puntate di Dr. Who o di Star Trek, per non parlare di Lost.

In ordine cronologico, perplessità numero uno: il satellite su cui atterra la Prometheus è l’LV223, non l’LV426. Durante l’arco del film ho pensato che l’ “astronave abbandonata, il veicolo alieno”, nonostante lo scontro con la Prometheus, riuscisse comunque a prendere velocità di fuga, uscire dall’atmosfera e compiere un piccolo tratto prima di abbattersi su un altro satellite del gigante gassoso. Un satellite più esterno che sarebbe potuto essere l’LV426.
Invece l’astronave aliena cade quasi nel punto di decollo.
ORA: filmicamente, se il satellite-meta fosse stato indicato con la sigla LV426 i più attenti avrebbero capito sin da subito di essere di fronte al prequel (o al reboot, come è stato definito) di Alien.
D’altra parte è possibilissimo che nel futuro (cioè nel segmento di tempo compreso tra Prometheus e Alien), attorno al gigante gassoso siano stati individuati altri corpi e quello che era stato nominato LV223, diventi LV426. Succede nella nomenclatura botanica, succede anche in quella astronomica.

Seconda, e più grave, perplessità. Come ha fatto l’Ingegnere supersitite, attaccato e ucciso dall’alieno nel modulo di salvataggio di Vickers, a raggiungere -da morto- la postazione dove è stato trovato in Alien, cioè al posto di pilotaggio, con la pancia spaccata?
Diciamo che è una bella incongruenza per la quale ci sarebbe stata una soluzione facile, teatrale e citazionista (per non tradire lo stile autoreferenziale del film): sarebbe stato sufficiente che l’Ingegnere, dopo aver fatto lo shampoo di schiaffi agli umani, decapitato David-Ash-Bishop-Hal 9000-Lawrence d’Arabia-Peter O’Toole, venisse attaccatto da ‘sta benedetta piovra (mai vista prima) mentre era già seduto al posto di pilotaggio. La morte dell’Ingegnere sopravvisuto alla criostasi si sarebbe potuta vedere negli occhi glaciali di David, come la morte di Brett in quella del gatto Jones (l’unico vero superstite della Nostromo). Il tempo di incubazione avrebbe lasciato la possibilità a Cosa-lì-come-si-chiama (la finta Ripley) di prendere i resti immortali dell’organismo cibernetico e portarseli a zonzo per l’universo.

Terza perplessità: Cosa-lì-come-si-chiama torna sulla nave aliena DOPO che questa è stata colpita dalla Prometheus, tra mille schianti, botte e capitomboli sulla superficie. Ora, dico io…ehm, ma i personaggi che erano nella sala controllo non dovevano essere rotolati tutti via, essendo morti? Uno di qua, uno di là? E David-Ash-Bishop-Hal 9000-Lawrence d’Arabia-Peter O’Toole, essendo per giunta diviso in due e non potendosi aggrappare ad un accidente di niente se non con la lingua, come ha fatto a rimanere nella stessa identica posizione al centro della sala comando, esattamente dove la Salomè degli alieni l’ha decollato?

O sono le leggi della fisica e della logica che cessano di esistere tra i fornelli della Sci-fi?

Prendiamone atto e mettiamoci l’anima in pace. Ma certo qualche volta viene proprio la voglia di trasformarsi in Anne e sequestrarli finchè non scrivono qualcosa di buono, azzoppandoli pure se è del caso.
Porcaccia, ma perchè bisogna mandare tutto a puttane?

E abbiate pazienza, ma io queste cose le devo scrivere. Come non digerisco la misteriosa cuffia di Arwen e il dilitio come propellente dell’Enterprise, non digerisco neanche questi errori di continuità che avrebbero trovato facile soluzione con appena un po’ d’attenzione in più.

E con questo chiudo la parte di nerd carognosa, e mi avvio verso una riflessione sociale che mi sembra impossibile evitare.
E’ da anni che nella letteratura, nel cinema, nell’industria dell’intrattenimento televisivo, è pienamente visibile una involuzione non solo stilistica ed estetica, di gusto e di contenuti. Di quella ne hanno discusso persone ben più grandi di me e io ho poco da aggiungere e solo sporadicamente.
Ciò che mi appare grave, una vera e propria ferita nel tessuto della società umana, è l’involuzione della fantasia, il ripiegamento su se stessi.
Letteralmente un’implosione di speranza.
Questo mi addolora, e mi preoccupa, e mi spaventa, molto di più di quanto non possa fare un alieno divoratore di cervelli.

Cosa ci aspettavamo negli anni ’70? Cosa ci mostravano Star Trek e Spazio 1999? Alieni completamente diversi da noi, per conformazione fisica soprattutto. Ne hanno fatte di tutti i colori con i mezzi che avevano all’epoca, mutaforma, rettiloidi, poliponi, meduse, fasce di luce, plasma-energia, alieni senza corpo rivelati solo da suoni, pietre viventi, macchine pensanti.
Ora cosa succede? Cosa ci mostrano le serie Sci-fi più gettonate?
La Terra.
La Terra, la Terra, la Terra. Gli umani, gli umani, gli umani.

Ditemi, dov’è la Terra in Guerre Stellari? Dov’è? Eh? Non c’è. Non c’è proprio. Siamo “in una galassia lontana lontana”.

Ci aspettavamo qualcosa dal futuro, dallo spazio, una rivoluzione scientifica. Ora stiamo facendo i conti con la crisi energetica globale e la crisi economica internazionale. E cosa troviamo sugli altri pianeti, nei tempi futuri e passati? Noi stessi. Siamo diventati l’unico oggetto di una riflessione che ha smesso di ricercare l’altro da sè, che non accetta il diverso, che implode su se stessa in una sorta di circolo chiuso di cui l’uomo è inizio e fine di ogni cosa, in cui si pensa di andare avanti invece si continua a rutore inconsapevoli sullo stesso binario.
E’ l’inizio della fine.
Quando cede la fantasia gli imperi tramontano.

Gli States sono stati il traino della nostra economia e della nostra cultura per oltre cento anni, la “Terra Promessa” cantata da Ramazzotti.
Se crolla la loro fantasia è perchè è già crollata la loro economia. Ora stiamo mangiando gli avanzi ammuffiti del consumismo neo-liberista. E poi?
E poi la fame, i ghetti, la guerra tra poveri.
Non se ne parla più, nei film, perchè se ne ha paura, troppa paura che diventi realtà.
Non c’è mai stata la guerra in America, l’America non ha mai avuto la fase difficile dell’adolescenza che diventa una giovinezza già stanca. L’attacco alle Torri Gemelle l’ha portata alla scabra realtà dell’evoluzione delle nazioni. Solo da allora per il popolo USA si è concretizzata la paura, che prima era un pizzicorino sotto la schiena, ora è un brivido che raggela il sangue.
Film come I figli degli uomini, la Strada, non hanno avuto nè successo nè grande distribuzione, perchè materilizzavano un pericolo troppo imminente perchè potesse essere concepito come prodotto di fantasia.

Allora meglio tornare sulle cose che conosciamo, che non ci fanno paura, che ci hanno fatto paura (quando eravamo giovani) ma che ora non ci fanno più paura perchè le conosciamo (siamo cresciuti). Prometheus che in greco dovrebbe significare “prevedo, vedo oltre, vado avanti”, rappresenta invece un ritorno indietro, e non solo cinematografico, ma soprattutto sociale. Un epi-film, se vogliamo.

Non c’è più spazio per cercare chi è diverso da noi: chi è diverso potrebbe volerci come cena. La paura si è trasformata in xenofobia. Allora non troveremo alieni sugli altri mondi, ma sempre noi stessi, un po’ diversi, più alti, più bianchi, magari azzurri e dai tratti amerindi (mai nergroidi: la titolarità di qualche ambizione possono avanzarla a mala pena gli oriundi, non gli “importati”), ma sempre umani.
Siamo lontanissimi da Solaris, dalla fantascienza di Urania, da Asimov, persino Marty McFly ha l’Alzheimer.

Guardate Prometheus per quel che è: non il prequel di Alien, non un reboot di un film miliare, non un prodotto dell’industria dell’intrattenimento, ma un altro tassello del mosaico della nostra inevitabile decadenza.

Il tempo per far tutto (Chicca, Doraemon, TG2 costume e società, Twilight Zone, la nuova economia e un film senza spessore)

Devo essere la sola a ricordarlo, perchè in tutte le recensioni che ho letto di In time, non c’è nessuno che ne parla.
Credo fossero gli anni Ottanta, i mitici. Non so se “Costume e società” andasse in onda già da allora, ma è in quella rubrica che l’ho visto. Intervistavano le ricche signore impellicciate sulla Fifth Avenue, che compravano oro, diamanti, auto, solo per il piacere di spendere soldi. Erano gli anni in cui iniziava lo shopping compulsivo.
A una signora, la ricordo come fosse ora, con una pellicciona e degli occhialoni da sole (che non c’era), chiesero: “Per cosa vale veramente la pena spendere tantissimi soldi?”.
La signora impellicciata inclinò la testa da un lato e disse sorridendo: “Time!”.

I produttori di Hollywood dovrebbero darle un sacco di diritti d’autore.
Il tempo. Uno dei soggetti prediletti del cinema e della narrativa, e anche dei giardini.
C’era un bellissimo episodio di Twilight Zone in cui una signora riceveva un amuleto in grado di fermare il tempo.
Chicca ha scritto un racconto ambientato in giardino Il tempo per far tutto.
Anche Doraemon tirava fuori dalla sua tasca una sveglia che immagazzinava tempo, con effetti sconvolgenti sulla vita quotidiana.

Chi non vorrebbe poter fermare il tempo, controllarlo, ritornare indietro, avvertire se stesso (non fare quella cosa, non farla, non farla!), oppure immagazzinare il tempo che si passa dormendo in una sorta di circuito per poterlo utilizzare da svegli?
Quante volte siete andati al supermercato a fare la spesa pensando che una divinità malevola vi stesse rubando il vostro tempo?
Quante volte pensate che la vostra famiglia, i figli, i mariti, gli amici, i parenti, vi stiano letteralmente succhiando il tempo dalle vene?
E il tempo passato in treno, in aereo, in coda alla posta, in mezzo al traffico? Tempo perso.
Perduto, ffff, non ritorna più. Sei stato quattro ore alla posta? Quattro ore che nessuno ti ridarà mai.
In questo caso il tempo perduto è molto materiale e per nulla mnemonico o narrativo. Niente Proust, solo frustrazione.

Pagheresti, come la signora impellicciata sulla Fifth Avenue, per avere tempo in più. Lo ruberesti, anche, se ci fosse la possibilità.
La vida es sueño, il tempo è denaro.
Perciò era lecito aspettarsi qualcosa di più da In time, che mette in scena un futuro che è una metafora del presente, in cui i beni materiali si pagano con ore, minuti, giorni.
Il tempo non è un’ossessione, come al giorno d’oggi, ma solo merce di scambio. Sembra che non importi poi molto, ai personaggi di questo film, quanto tempo debbano spendere per questo o quello. Ci sono solo accenni raminghi gettati qua e là nel corso del film, come i guanti indossati dalle signore-bene per non far vedere il proprio “orologio-borsellino”, sporadiche corsette per risparmiare, ma tutto troppo “parlato”, troppo descritto dagli stessi personaggi (“ti ho visto correre”), non lasciato all’intuizione dello spettatore. Male. Malissimo.

E per l’appunto di ciò si tratta: non è l’età che si nasconde (come si fa ora), ma il danaro (che invece si mette in mostra) . Il regista non riesce a separare i due elementi, e il tempo-moneta non è più una metafora del tempo, della vita, dell’immane sforzo compiuto su se stessi per sopportare le costrizioni sociali che rubano tempo, ma del danaro. Si finisce il danaro: sei morto. Invece non è così! Il danaro può finire, ma il tempo continua. Unire tempo e moneta è stato troppo per la mente dello sceneggiatore, che s’è confuso e non c’è proprio riuscito.

Aprire il borsellino e far vedere che è vuoto, o che ci sono solo monetine nel reparto spiccioli è diverso dal ritmo veloce, costante, perenne, che regola le nostre vite. Tutti raggiungiamo il futuro a ritmo di sessanta secondi al minuto.
Misure arbitrarie, fissate (nel corso del tempo) sul movimento di rotazione e di rivoluzione terrestre.
Il nostro ritmo biologico è diverso. Come misurereste il tempo nello spazio profondo, senza un orologio? Iniziereste a contare? E per quanto riuscireste a contare senza confondervi o addormentarvi? e dopo?
Il concetto di finitudine dello spazio e del tempo è aristotelico, ma siamo proprio sicuri che esistano inizio e fine del tempo? Il tempo esisterebbe lo stesso se non ci fosse nessuno a calcolarlo?E se lo calcolasse in maniera diversa dalla nostra?

Mi chiedo: in In time, anche i cani e i gatti hanno l’orologio verde? Animali non ce ne sono nel film…irrealistico! Non posso credere che le varie sciure riccone che passano nella pellicola non possano spendere qualche centinaio d’anni per Fufi e Cicci. Lo farei anche io se potessi donare il mio tempo agli animali che vivono con me. Saranno già morti tutti gli animali nel futuro? E l’uomo come camperebbe? Mah. Se poi il film è una metafora del presente, eliminare gli animali per avere meno problemi di sceneggiatura…be’, è indice di fretta.

In time, a dirla tutta, è un film fatto di fretta. Poco ragionato, poco studiato, a dispetto di una premessa tanto possente anche se non originalissima. E dire che poteva venire un filmaccio-culto, di quelli che avremmo ricordato per decenni. In fondo, Blade Runner è strutturato sullo stesso elemento, i quattro anni di vita ai Nexus 6.
“Non sapevamo quanto tempo ci restasse, ma chi è che lo sa?”.

E poi, l’errore più clamoroso: chi ha più tempo, come i ricconi di In time, non è vero che va piano, va più veloce di chi ne ha di meno!
Cade il discorso del “ti ho visto correre”, o del “Signora, è meglio che si metta a correre”.
Non funziona così, soprattutto nella new economy. Se hai più tempo fai più cose, specie se il tuo tempo di lavoro è passato a ragionare, e non è lavoro di braccia, come quello dei poverazzi. La tecnologia in questo senso ha una doppia faccia: permette la trasmissione veloce di idee complesse e permette di elaborare più idee nella stessa quantità di tempo.
Chi di mestiere fa il “lavoro di mente”, in realtà non lavora otto ore al giorno, ma tutta la giornata, non lavora solo quando dorme, e talvolta anche nel sonno.
Perciò ci posso pure credere che Mr Coso si giocasse un paio di millenni al tavolo da poker, ma non che salisse le scale lentamente. No. Se si dà come premessa che le ore del giorno non sono cambiate e che il ritmo giorno-notte è uguale al nostro (una premessa diversa avrebbe non solo scombinato la sceneggiatura, ma soprattutto il sistema solare…), Mr Coso sale le scale della banca-tempo, correndo, ve lo dico io. Anche se ha eoni in cassaforte. E non ha poi tanto tempo per le seratine e le festicciole: lavora. Con la ventiquattro ore e il pc, come noi, come gli asini che siamo noi.

Non mi soffermo sugli aspetti tecnici del film, però voglio dire due parole su Cillian Murphy, che insieme a Mr. Coso era l’unico attore bravo. E’ irlandese, ha fatto lo Spaventapasseri in Batman Begins e ho letto che il suo nome non si pronuncia Sillian, ma Killian. E’ irlandese, perciò la “c” è dura. Come Celeborn, Celebrant, Celebrimor, Cet, Cementari, e tante altre parole tolkieniane.

In effetti è solo una guardia di finanza
In effetti è solo una guardia di finanza