Con questo benedetto decoder i collegamenti tra videoregistratore e lettore dvd sono saltati tutti.
Per vedersi un film tocca fare delle capriole alla Dimitri Sautin.
Ieri mia mamma ha insistito vivacemente di voler vedere Il cigno nero.
Era la seconda volta che lo vedevo e a me era piaciuto già la prima. Ieri invece l’ho visto in modo un po’ passivo.
Su questo film ho sentito molti pareri discordi e molte interpretazioni differenti. Io credo sia un bene. Quando di un film si danno diversi significati vuol dire che è andato al di là di quanto ci si aspettasse.
Quando un’opera può essere letta a molteplici livelli di interpretazione è lì che può nascere l’arte.
E qui entra in gioco il mio buon amico Jan Mukarovsky. L’in-intenzionalità è una delle caratteristiche dell’arte. Ciò che è precluso all’artista e che è invece peculiarità del caso, del tempo e -soprattutto- del pubblico.
Lo scultore dei Bronzi di Riace non poteva certo sapere che sarebbero finiti in acqua e le armi rubate. Ora quelle “pose plastiche” sembrano nascere da un semplice movimento, non da uno sforzo per sorreggere un giavellotto o uno scudo. E lo stesso vale per la Nike di Samotracia, il cui volto è il volto della bellezza e della potenza che ognuno di noi ha in mente, più o meno definito (ma alzi la mano chi ha in mente un volto ben definito della Nike di Samotracia!).
Perciò a volte non capiamo l’arte moderna, perchè è poco storicizzata. Gli Anni ’50, ad esempio, li abbiamo metabolizzati, ci vorrà ancora un po’ per gli Anni ’80.
Un’opera d’arte totalmente intenzionale non è “perfetta”, come si potrebbe pensare (tutti la guardano e pensano la stessa cosa), ma è del tutto Kitsch, cioè non lascia spazio libero all’immaginazione, non trova collocazione al di fuori di se stessa, non esiste neanche al di fuori di se stessa, non riesce a porsi in differenti piani di analisi e ad abbacciare funzioni diverse, seppure tangenti, come quella simbolica o magico-religiosa.
Perciò si può a buon diritto dire che l’opera d’arte è letteralmente costruita dal pubblico che la osserva, con le sue mille interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni (stratificazione del giudizio).
Ciò non significa che passare davanti ad un Moore e dire : “Che bella schifezza” contribuisca alla crescita della critica artistica, ma solo alla crescita dell’ignoranza crassa, supina e pluristratificata.
Rimannendo in campo artistico vorrei proporre la mia interpretazione di Il cigno nero. Fatto salvo che non conosco la storia del cinema e i suoi stili e che le mie recensioni sono tutte elaborazioni logiche o commenti di pancia, io la vedo così:
Nina ambisce alla perfezione. E’ il fil rouge di tutto il film. La perfezione, come ogni artista sa, non esiste. Se una cosa fosse perfetta (cioè, secondo il latino, perfecta, “conclusa”), sarebbe con tutta probabilità un classico intoccabile o un un’opera Kitsch. Il compito più grande dell’artista è avvicinarsi il più possibile alla perfezione evitando accuratamente di toccarla.
La perfezione è un bersaglio mobile. E’ proprio quando ti avvicini e miri per colpire, che ti sfugge. Ma nella mia esperienza di artista e critico d’arte è lo sguardo con la coda dell’occhio il più sensibile: non bisogna mirare al bersaglio, ma appena un po’ di lato.
Per come la vedo io Nina si trasforma da “cigno bianco” (una ottima danzatrice, ma senza quel carico di emozioni che un vero artista deve saper trasmettere. Se vogliamo è “perfetta” ma fredda), in “cigno nero”, una vera artista, che è totalmente in simbiosi con l’opera prodotta. L’opera viene da lei, lei dall’opera. E’ un binomio indissolubile che tutti gli artisti conoscono. Il creatore e il creato sono la medesima cosa/persona, è quanto di più vicino alla divinità posieda l’Uomo (checchè ne dicano le varie religioni).
Non si può spiegare, accade, è il “passo del leone”. E’ il passo della fede.
Nel film tutto ciò è rappresentato dalla metamorfosi fisica di Nina nella famosa scena in cui volteggiando le crescono le ali nere.
Per essere una vera artista Nina deve morire, a se stessa e al mondo. Non è un procedimento che si impara a scuola: è la vita, il più delle volte, che si incarica di sfuggirti,e l’Arte diventa-come suggeriva Montale- un “surrogato, un compenso, per chi realmente non vive”.
L’artista è morto a se stesso. E’ l’Autore/Creatore, non un “io”. Non può farne a meno.
E il modo che ha, il solo modo che ha, per cambiare la realtà è quella di raccontarla, farla vedere, non già com’è, ma come egli vorrebbe che fosse.
Perciò la morte finale di Nina, che molti hanno trovato pretestuosa e incoerente, io la trovo simbolica di una rinascita ideale come artista.
L’arte richiede il sacrificio della vita interiore (si dice che Flaubert avrebbe venduto sua madre per un buon verso), della vita interiore di chi ci sta vicini e di chi amiamo, a volte anche della nostra stessa fisicità.
VERISSIMO
l’artista deve morire (come il chicco di grano) per creare qualcosa di grande
o almeno essere molto infelice: se Leopardi fosse stato sano, alto e ricco sarebbe diventato notaio e non avrebbe scritto quello che ha scritto