Come anche il lettore casuale avrà capito, io viaggio poco. Non che viaggiare non mi piaccia, ma è che qualsiasi punto d’italia è diventato praticamente impossibile da raggiungere vivendo sul “litorale basso ionico”.
A tal proposito sono maestra di valige ultraleggere, che tornano ottime quando si deve correre come dei pazzi forsennati tra i sottopassi delle stazioni, fare code interminabili alle biglietterie, camminare per ore nelle città aspettando l’orario della partenza, perché i treni per il Sud partono solo di notte, come quelli dei carcerati. Continua a leggere “Travolti in un turbine di rose e politica”
Tag: Jan Mukarovsky
A quanti compiti deve assolvere il giardino contemporaneo?
Non so più recuperare il filo che mi ha condotto a questo pensiero ma ricordo che mi ci ha portata un senso di sconforto, di pesantezza, di noia, di ottundimento.
Il giardino deve essere così e cosà, deve essere etico, ecologico, bio, sociale, futuristico, intanto però non devono mancare glamour, fashion, style, home and outdoor. In più deve essere bello. Sì, semplicemente bello.
E’ come chiedere ad una donna di andare a lavorare, fare le pulizie, badare i figli, impegnarsi in politica e nel sociale, essere magra e avere le tette, truccarsi, fare palestra, avere la pressione il colesterolo a posto pur facendo cake design a tutto spiano e cucinando in continuazione finger food e cupcake neo-hipster style.
Be’ ma cosa diavolo è preso a tutti? Che razza di cecità dilaga in giro? Perchè questa mania del giardino e di come deve essere?
Ho sempre considerato il giardino una specie di indicatore sociale, un po’ come le coccinelle. Un marker, insomma, come quando ti fanno le analisi del sangue.
L’attenzione, a dire il vero un po’ fatua, che viene dedicata al giardino in questo ultimissimo periodo (un annetto o giù di lì), è un sintomo di un cambiamento di idee nei confronti dell’ambiente e delle sue manifestazioni materiali. E ci tengo a precisare che ho scritto “cambiamento”, non un “miglioramento”, perchè non credo lo sia.
Del cambiamento in atto tutti siamo consapevoli: la dimuzione del reddito e dei beni a cui potevamo attingere liberamente dalla natura. Ciò non ha comportato affatto una maggiore resposabilità nel trattare l’ambiente, anzi, ha generato una corsa sfrenata all’accaparramento delle ultime risorse. Solo i pochi che erano “civilizzati” già negli anni ’80 lo sono rimasti o hanno rafforzato le loro idee e le loro azioni a favore dell’ambiente, isolate o organizzate.
La cultura non è esente da questo processo di accaparramento di beni, in questo caso i consumatori che per un motivo o per l’altro, coscientemente o meno, approdano alla vita “eco”.
Tralasciando l’orto in terrazza e analoghe mode, c’è stata un’esplosione della cultura “verde” e dei giardini.
Ma attenzione: oggi il giardino non si fa più per un senso di godimento quanto per assolversi dal peccato industriale, con tutto quello che ne deriva, il più delle volte mediocri risultati frutto di incompetenza, raffazzonaggine, consumismo inconsapevole, o per contro manie di grandezza, pretenziosità, consumo vistoso.
Il giardino domestico, familiare, soprattutto se è di nuovo impianto, ha sempre queste caratteristiche. L’ampliarsi del bacino di utenza di chi è interessato al giardino non ha portato un innalzamento di livello delle competenze, anzi, l’esatto contrario. E qui troviamo un periodo che è la discriminante, cioè la fine degli anni ’90 e l’inizio del primo decennio del 2000, in cui il livello qualitativo dei giardini ha visto un buon incremento anche in Italia, seguito da un’ampliamento delle disponibilità di piante e beni ad esse correlati, quindi un appiattimento dell’estetica borghese.
Il giardino della borghesia ricca o finto-nobile ha invece altri scopi. Ricordo con precisione di avere letto su Gardenia del restauro di una bellissima villa in Liguria, che è stata poi adibita ad albergo esclusivo. Tra gli investitori c’era il direttore di Striscia la Notizia, quindi immagino che il target fosse composto da personaggi dell’establishment televisivo dotati di un portafoglio ben gonfio.
Il giardino assolve in questo caso ad un’altra funzione, quella di produrre reddito. Reddito molto materiale, immediato: dai-prendo. La villa in questione, di cui non ricordo il nome, è diventata fonte di reddito immediato nell’arco di pochi anni.
Non parliamo quindi della redditività che sappiamo benissimo si genera in tempi lunghi, a volte lunghissimi da un’operazione culturale. Partire con un restauro di un antico giardino nel 2013, terminarlo nel 2023, quando sarà visitato da un bambino che diventerà un grande architetto di giardini, portando lustro al suo paese per decenni a venire e influenzando a sua volta generazioni di giardinieri.
Non questo genere di redditività, dunque.
Al giardino si chiede di essere ecologico, etico, storicizzato, moderno, produttivo, low-cost, recuperato, giovane, iper-tecnologico, curativo, redditizio, ricco di glamour e almeno un pochettino famoso o pubblicizzato.
Va da sè che alcune di queste cose sono incompatibili tra loro, il risultato delle aspirazioni di inserirle tutte nel progetto di un giardino non potrà che essere deludente.
Non ci sono un modo e un come e neanche un cosa riguardo ai giardini. I giardini, in quanto espressione artistica, sono frutto di una società o di una porzione di essa. Ma quello che si tende a dimenticare è che i giardini sono frutto di un giardiniere, di un artista.
Lo scopo di un artista non è avere piante belle, sane e ben curate, e neanche quello di avere un insieme armonico e affascinante (tantissimi giardini “di livello” che conosco si fermano disgraziatamente a questo secondo stadio, quello artigianale, del “lavoro fatto bene”), ma quello di universalizzare.
E questo vale per qualsiasi forma d’arte. Quelle più belle e che consideriamo “classiche” o “immortali”, hanno questo immenso potere di suggerire, hanno un lato nascosto, che è visibile solo a chi osserva (ecco perchè l’opera d’arte è letteralmente costruita dal pubblico e anche perchè noi capiamo poco l’arte moderna, perchè è poco storicizzata).
Ciò che suggerisce varia di volta in volta, a seconda di chi osserva (e di chi esprime il proprio giudizio di osservatore: non giudicare è ciò che di peggio può accadere ad un’opera d’arte), del come del quando e del perchè. Più cose suggerisce, più l’opera d’arte sarà apprezzata e per un tempo maggiore. Perchè sarà il pubblico, nel tempo, a rimpire “il suggerimento”, con questioni sue personali o legate alla società.
Questo è universalizzare: far riconoscere l’osservatore nell’opera d’arte, farlo sentire in possesso della sua anima, nella casa che non sapeva di avere. Quando hai fatto questo, sei davvero un artista.
Da un punto di vista estetico è per questo che rigetto la brodura all’inglese, tanto perfetta, piena straripante e ipertrofica, da non lasciare posto a nessun “suggerimento”. Poi esistono altre motivazioni sociali ed economiche.
E sempre per tal motivo non mi piacciono le vecchie illustrazioni fatte con l’aerografo, o l’iper-realismo ad acrilico.
Non suggeriscono nulla, non “parlano”. E’ tutto lì, basta guardare e dire “ooooh”, dopodiché, chiuso.
Jan Mukarovsky la chiamava “inintenzionalità” dell’arte. E’ una componente che neanche l’artista sa di mettervi dentro (forse perchè è un artista?).
A me piace dire “la mia tovaglia è la tua tovaglia”. E’ una frase di On writing di Stephen King.
King in questo caso raccomandava agli aspiranti scrittori di non caricare troppo di dettagli. Nella scena del pic-nic, non descrivete la tovaglia se non è importante ai fini della storia, e anche in quel caso descrivete solo gli elementi sensibili, il resto lo deve mettere il lettore. Io devo suggerire l’idea di tovaglia, ma sarà il lettore a comporre in testa la sua tovaglia. In pratica, suggerendo l’idea di tovaglia, ho universalizzato il concetto di tovaglia, rendendolo plastico, adattabile a qualsiasi tovaglia che sta nella testa di qualunque abitante che usi tovaglie nel mondo intero.
Quanti giardini sanno far questo? Quanti giardini hanno la capacità di sussurrare pensieri mai pensati? Quanti giardini invece si mostrano tronfi e volgari nella loro riuscita? Anche giardini zen, minimali, o di indole geometrica, apparentemente solidi, “strutturati”, mancano completamente della voce? E non illudiamoci che la voce la possano mettere gli uccelli, il vento tra le fronde, o lo scroscio dell’acqua. Semmai sarebbe coprire un pesante silenzio.
Penso che stiamo chiedendo troppo all’arte, che ci appelliamo all’arte quale extrema ratio in questi tempi difficili: l’arte non dà risposte su come investire i bond, dà risposte su noi stessi, sulla nostra natura di esseri umani (se uno le sa trovare).
Al giardino, essendo fatto di terra e piante, di porzioni di paesaggio, si chiede ancor di più per evidenti motivi.
Non c’è comunicato che abbia pubblicato in questi ultimi tempi che non scriva da qualche parte “ecosostenibile” o qualcosa di analogo.
Iniziamo a trovare la Bellezza, il resto verrà.
L’essentíal est ínvísíble pour les yeuse
Antoine de Saint-Exupéry
Il cigno nero, l’arte come rinuncia a se stessi
Con questo benedetto decoder i collegamenti tra videoregistratore e lettore dvd sono saltati tutti.
Per vedersi un film tocca fare delle capriole alla Dimitri Sautin.
Ieri mia mamma ha insistito vivacemente di voler vedere Il cigno nero.
Era la seconda volta che lo vedevo e a me era piaciuto già la prima. Ieri invece l’ho visto in modo un po’ passivo.
Su questo film ho sentito molti pareri discordi e molte interpretazioni differenti. Io credo sia un bene. Quando di un film si danno diversi significati vuol dire che è andato al di là di quanto ci si aspettasse.
Quando un’opera può essere letta a molteplici livelli di interpretazione è lì che può nascere l’arte.
E qui entra in gioco il mio buon amico Jan Mukarovsky. L’in-intenzionalità è una delle caratteristiche dell’arte. Ciò che è precluso all’artista e che è invece peculiarità del caso, del tempo e -soprattutto- del pubblico.
Lo scultore dei Bronzi di Riace non poteva certo sapere che sarebbero finiti in acqua e le armi rubate. Ora quelle “pose plastiche” sembrano nascere da un semplice movimento, non da uno sforzo per sorreggere un giavellotto o uno scudo. E lo stesso vale per la Nike di Samotracia, il cui volto è il volto della bellezza e della potenza che ognuno di noi ha in mente, più o meno definito (ma alzi la mano chi ha in mente un volto ben definito della Nike di Samotracia!).
Perciò a volte non capiamo l’arte moderna, perchè è poco storicizzata. Gli Anni ’50, ad esempio, li abbiamo metabolizzati, ci vorrà ancora un po’ per gli Anni ’80.
Un’opera d’arte totalmente intenzionale non è “perfetta”, come si potrebbe pensare (tutti la guardano e pensano la stessa cosa), ma è del tutto Kitsch, cioè non lascia spazio libero all’immaginazione, non trova collocazione al di fuori di se stessa, non esiste neanche al di fuori di se stessa, non riesce a porsi in differenti piani di analisi e ad abbacciare funzioni diverse, seppure tangenti, come quella simbolica o magico-religiosa.
Perciò si può a buon diritto dire che l’opera d’arte è letteralmente costruita dal pubblico che la osserva, con le sue mille interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni (stratificazione del giudizio).
Ciò non significa che passare davanti ad un Moore e dire : “Che bella schifezza” contribuisca alla crescita della critica artistica, ma solo alla crescita dell’ignoranza crassa, supina e pluristratificata.
Rimannendo in campo artistico vorrei proporre la mia interpretazione di Il cigno nero. Fatto salvo che non conosco la storia del cinema e i suoi stili e che le mie recensioni sono tutte elaborazioni logiche o commenti di pancia, io la vedo così:
Nina ambisce alla perfezione. E’ il fil rouge di tutto il film. La perfezione, come ogni artista sa, non esiste. Se una cosa fosse perfetta (cioè, secondo il latino, perfecta, “conclusa”), sarebbe con tutta probabilità un classico intoccabile o un un’opera Kitsch. Il compito più grande dell’artista è avvicinarsi il più possibile alla perfezione evitando accuratamente di toccarla.
La perfezione è un bersaglio mobile. E’ proprio quando ti avvicini e miri per colpire, che ti sfugge. Ma nella mia esperienza di artista e critico d’arte è lo sguardo con la coda dell’occhio il più sensibile: non bisogna mirare al bersaglio, ma appena un po’ di lato.
Per come la vedo io Nina si trasforma da “cigno bianco” (una ottima danzatrice, ma senza quel carico di emozioni che un vero artista deve saper trasmettere. Se vogliamo è “perfetta” ma fredda), in “cigno nero”, una vera artista, che è totalmente in simbiosi con l’opera prodotta. L’opera viene da lei, lei dall’opera. E’ un binomio indissolubile che tutti gli artisti conoscono. Il creatore e il creato sono la medesima cosa/persona, è quanto di più vicino alla divinità posieda l’Uomo (checchè ne dicano le varie religioni).
Non si può spiegare, accade, è il “passo del leone”. E’ il passo della fede.
Nel film tutto ciò è rappresentato dalla metamorfosi fisica di Nina nella famosa scena in cui volteggiando le crescono le ali nere.
Per essere una vera artista Nina deve morire, a se stessa e al mondo. Non è un procedimento che si impara a scuola: è la vita, il più delle volte, che si incarica di sfuggirti,e l’Arte diventa-come suggeriva Montale- un “surrogato, un compenso, per chi realmente non vive”.
L’artista è morto a se stesso. E’ l’Autore/Creatore, non un “io”. Non può farne a meno.
E il modo che ha, il solo modo che ha, per cambiare la realtà è quella di raccontarla, farla vedere, non già com’è, ma come egli vorrebbe che fosse.
Perciò la morte finale di Nina, che molti hanno trovato pretestuosa e incoerente, io la trovo simbolica di una rinascita ideale come artista.
L’arte richiede il sacrificio della vita interiore (si dice che Flaubert avrebbe venduto sua madre per un buon verso), della vita interiore di chi ci sta vicini e di chi amiamo, a volte anche della nostra stessa fisicità.
Il giardiniere immaginativo
Esiste una fetta di giardinieri che io chiamo “immaginativi”. Sono giardinieri alle prime armi, completamente asciutti di qualsiasi nozione orticola, ma non sempre passivi, testardi e di cattiva volontà, come tanti che ne circolano intorno.
Ce n’è una sottospecie che è desiderosa di comprendere, molto curiosa delle questioni della natura, ma che non vuole impararle dai libri, quanto piuttosto scoprirle da sola. Vogliono avere il piacere della sorpresa, della scoperta, a volte dell’invenzione. Che poi questa sia equivalente all’acqua calda, non gl’importa, si gettano nell’esperimento, le tentano tutte, trovano mezzi cervellotici per arrivare a soluzioni che per altri sono banali e le raccontano come grandi prodezze. Quando poi si confrontano con qualcuno che un po’ ci capisce, non lo stanno neanche a sentire o accettano quelle indicazioni come una verità parziale.
Nel loro comportamento olistico, abbracciano le infinite possibilità del caso, e se qualcuno gli dice che i semi del Calonyction aculeatus vanno ammollati per una notte, loro lo incidono, invece, oppure lo mettono in un vaso senza buco di drenaggio, o altre cose che non so neanche immaginare.
Non sono “stupidi”. Non è una questione di capacità e di formazione, ma un fatto squisitamente umano, un modo di prendere la vita. Sono persone che applicano fortemente la funzione magico-religiosa, come in genere fanno gli artisti.
Per loro la botanica, la biologia, sono suscettibili delle nostre azioni. Mettere una talea a testa in giù non è un errore, è una prova, una speranza che le radici possano crescere dalla testa.
Insomma, applicano al mondo della natura naturans l’attività emotiva ed empatica dell’uomo. Questa è in poche parole la funzione magico-religiosa, affine alla funzione estetica, nella quale si desidera cambiare la realtà non operando sulla realtà (funzione pratica)ma attraverso dei pensieri e dei simulacri di essa.
Uno di questi giardinieri immaginativi mi raccontò un episodio interessante e curioso. Aveva visto una rosa bellissima (per il giardiniere immaginativo una singola rosa è sempre bellissima) e voleva riprodurla, se ne fa dare un fiore e lo mette in un bicchiere di vetro. Nota che ovunque spostasse il bicchiere, il fiore rilasciava una sorta di semini scuri, diciamo simili a a quelli del papavero. Per il giardiniere magico-religioso, quelli sono semi di rosa, anche se il fiore non è appassito e non ha avuto ancora tempo di formarli ( e ovviamente, un fiore reciso difficilmente può portare a completamento la produzione di semi…).
E’ un po’ il whishfull thinking del barone di Munchhausen: liberarsi dalla palude tirandosi per il codino. Ed è anche uno degli aspetti che legano il giardiniere immaginativo al possessore di nanetti da giardino.
La funzione magico-religiosa è importante per l’artista, applicandoci l’arte, ne esce fuori qualcosa come La botanica parallela di Leo Lionni
Wendy, sono a casa amore!
23 a Imola
Acciaio inossidabile: Lightining Field
400 pali di acciaio inossidabile, appuntiti e conficcati nel terreno, che fungono da parafulmine. E’ Lightining Field, di Walter de Maria, artista concettuale ed esponente della Land Art.
Un’opera definita da molti “elettrizzante”.
Con l’aiuto di Mario Perniola possiamo dire che sin dall’antica Grecia abbiamo due tipi fondamentali di concetto di bellezza. Uno è pitagorico, fondato sull’armonia e sulle proporzioni. L’altro eracliteo, basato sulla compensazione e la dinamica degli opposti. Teoria che poi ritroviamo nello Strutturalismo novecentesco, ed anche in Jan Mukarovsky.
Secondo questa teoria, la bellezza è un potere, una forza effettuale, tonos, mantenimento degli opposti.
Si pone quindi l’idea della bellezza come qualcosa di potente e meraviglioso, ammagante, un evento imprevedibile e pericoloso, come un fulmine. Una cosa che spaventa.
Secondo André Breton: “La bellezza sarà convulsiva o non sarà”
Il mestiere di aspettare
Fare la fila e aspettare il proprio turno sono due veri e propri mestieri.
Bisogna essere pratici, non fare come fanno tutti, lì in piedi a guardare se la porta si apre o se chi è di turno ha finito.
Se si va a fare la fila con un libro, tutto magicamente si aggiusta, e il tempo perso non sembra più tanto perso: ed in effetti non lo è.
Per ora sto leggendo questo:
Una delle cose che può accadere quando si legge mentre si fa la fila, è che la mente sia più distratta e corra più facilmente verso altri pensieri. Improvvisamente, mentre leggevo, sollecitata da una parola, sono stata trafitta da un’idea: che fa la borghesia?
La borghesia, che sempre è stata fonte di rinnovamento politico, sociale, economico, morale, artistico, sembra essersi assopita, adagiata sul luogo comune, vendibile, o sul linguaggio accademico. Sembra aver perso il suo ruolo di innovatrice.
Se questo è vero per la politica e l’economia, è anche più vero per quanto riguarda il giardinaggio. L’élite intellettuale è quasi interamente di tipo accademico, a servizio presso il “principe” di turno (in questo caso il giardino “ricco”, da rivista, in tutte le sue declinazioni più o meno apprezzabili ).
Gli intellettuali innovatori sono soffocati da questo vecchio regime o annaspano alla ricerca di un posto a sedere in mezzo a coloro che sono al servizio del “principe”.
E tutti gli altri guardano…e intanto che guardano comprano.