Il giardino è come una pizza

Il giardino è diventato ormai come una pizza: ce n’é per tutti i gusti, basta sceglierla su un menu che per noi è stato predisposto allo scopo. A questo proposito cito (sempre volentieri ma con una punta di delusione) Giudo Giubbini, direttore scientifico del periodico «Rosanova», che nel parlare di ciò apre un suo articolo proprio in questo modo:

Il giardiniere, come i giardini, possono essere catalogati secondo le più diverse tipologie e tendenze: fautori dell’intervento umano o di quello della natura, formali e informali, monomaniaci e polimorfi, storicisti o innovatori, cultori delle essenze locali o di quelle esotiche, botanici, estetizzanti, minimalisti o barocchi, policromi o monocromi, collezionisti e no, simbolisti, espressionisti, razionalisti, esoterici, nativi, pittorici, architettonici, ambientalisti […]

E’ evidente che l’autore sottende una cultura e una meditazione profonde soggiacenti a questi tipi di giardini, le cui grazie fanno sognare solo nella semplice descrizione.
Ma i giardini di questo genere, partiti come avventure di semplici appassionati (certo, denarosi), senza troppe conoscenze e senza troppe aspettative, un po’ come ha fatto la stessa Lavinia Taverna, hanno da tempo trovato lucore nelle riviste di genere e nelle associazioni ad essi dedicate, e si sono chiusi in una competizione interna che taglia tutto il resto del mondo fuori. Rare, molto rare, sono le eccezioni.

Ma il mondo della massa dei giardinieri, anche di quelli che vanno ogni domenica a comprare la piantina al garden, non sa neanche cosa sia un’aiuola monocolore o un giardino esoterico. Tutto quello che chiedono è “un bel giardino”, senza sapere che tipo di giardino è. Come l’analfabeta che punta il dito sul menu e dice “Voglio questo”.
Le riviste passano sempre meno discretamente dei “menu” ai loro lettori e anche degli indirizzi dove possono comprarsi la pizza già fatta. Jardin à la carte.

Attualmente possiamo individuare degli orientamenti certi nel mondo dei giardinieri globalizzati, orientamenti decisamente diversi, anche se in parte sovrapponibili a quelli descritti da Giubbini.

Lo mangia subito o lo porta via?

1) L’amante delle rose. Per lui o lei le rose sono tutto. Sono il punto di partenza e il punto d’arrivo, lo Yin e lo Yang, gli opposti che si incontrano, l’epifania della bellezza. Ma ecco che appena dico una cosa mi sconfesso subito: in realtà questo non è sempre vero, a volte il rosaista è un rosaista osculatorio, tangente, per così dire, perché non conosce altre piante. Se ha uno spazio sotto un pino, dove fa più buio della tana del lupo, lui vuole metterci una rosa. Se ha un angolo scuro nel sottoscala, lui vuole ravvivarlo con una rosa. Ha una siepe asfittica di fotinie? Le vuole sostituire con belle rose “fiorite tutto l’anno, profumate e molto colorate, che si intonino con l’intonaco di casa mia”. Se per Natale gli hanno regalato una minirosa alla Lidl, lui si preoccupa subito di non farle prendere corrente, mettendola al chiuso, non troppo vicino al termosifone, in posizione molto luminosa e annaffiandola ogni mattina che Iddio manda sulla terra. Dopo si strappa i capelli e chiede aiuto, evocando su di sé maledizioni fino alla settima generazione (passata), non riuscendo a capacitarsi di come la sua rosellina stia per esalare l’ultimo respiro.
Potremmo dire che l’amante delle rose è il modello-basic dell’acquirente di piante, potrebbero proporlo come cordless senza segreteria, come lap-top senza blue tooth o magari per un format televisivo.

2) L’ortaiolo bio-chic. Per l’ortaiolo bio-chic, le piante da fiore sono una sottocategoria del regno vegetale e sono apprezzabili solo quando sono commestibili. L’ortaiolo bio-chic non si preoccupa tanto di avere una resa che gli garantisca una autonomia alimentare, ma piuttosto che il suo orto sia alla moda e assolutamente “bio”. Poco male se poi le verdure saranno rovinate dai parassiti o se i pomodori non fruttificheranno affatto: si può sempre fare un salto dal fruttivendolo. Per quanto nelle sue possibilità l’ortaiolo bio-chic cercherà di utilizzare contenitori di riciclo dalla forma sorprendente e inusuale, sulla scia dei “Guerriglieri Verdi”. Declamerà ai suoi amici i prodigi delle sue tecniche orticole che gli consentono di prendere un’abbronzatura uniforme e mantenere sode le natiche. Tra gli ortaggi colorati saranno falsamente ingenuamente distribuiti dei fiorellini, che sono i soggetti preferiti delle fotografie scattate con il macro e collezionate nei vari siti di photo –sharing.
L’ortaiolo bio-chic non si accontenta del cordless senza segreteria e “chi è”. Vuole il collegamento wireless e la scheda video dedicata.

3) I Brambilla. I Brambilla sono la famiglia-tipo italiana, quelli che fanno la gita fuori porta a Ferragosto, Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. I Brambilla si ritrovano sul davanti della casa un piccolo appezzamento di terreno e non gli viene migliore idea che farci un prato all’inglese, forse perché nella loro mente plagiata dai vecchi film americani, il green è il sine qua non dell’eleganza.
I sentieri dei Brambilla sono larghi e piastrellati, puliti come appena usciti dalla fabbrica. I Brambilla non usano molte piante, e non certo le rose, che loro sanno benissimo essere destinate al giardiniere-modello-base. Semmai ci sono azalee, e se la signora Brambilla fa l’avvocato o ha velleità politiche, ci sarà una mimosa. Naturalmente non mancano cycas, palmizi assortiti e il solito defilé di piante annuali in grosse ciotole: petunie striate, fresie, eliotropi, dimorfoteca. Qui e lì faranno la loro comparsa piante appariscenti ed esotiche, come strelitzie, dature e grevillee.
Tutto è pulito e in ordine, come se ogni foglia fosse stata spazzolata e lavata con sapone. Eppure non li vedi mai fuori in giardino.
I Brambilla tagliano il prato ogni tre giorni ma non annaffiano mai: si limitano a azionare il pulsante del sistema automatico di irrigazione e con tre ore di quello annaffiano non solo il prato ma tutto il loro giardino, il marciapiede e i gatti di passaggio. Magari proprio all’ora in cui uno si fa la doccia.

4) Il tropicalista. Il tropicalista per sua natura disprezza le piante dai fiori “normali”, cioè quelli a forma di rosetta, di fiorellino dei campi, di stellina, di coroncina. Si tengono a debita distanza dalle persone che praticano giardinaggio basando le loro scelte solo sui fiori: non gli interessano le rose e le erbacee perenni, gli accostamenti di colore, le successioni delle fioriture. Al più si interessano marginalmente agli abbinamenti fra colori dei fogliami, purché siano di piante esotiche, naturalmente. Non è che i tropicalisti non amino i fiori,ma li considerano del tutto incidentali e li preferiscono alieni e stravaganti, se non inquietanti (tanto che molte di queste specie vengono usate nelle scenografie di Star Trek). Quando viaggiano si fanno fotografare sorridenti vicino alla pianta più rivoltante del mondo col pollice alzato in segno di vittoria. Poi caricano la foto su Facebook e si scatena la lotta all’identificazione e il bottone “mi piace” schizza verso l’alto.
La delicatezza della pianta è la loro sfida più grande, come un Annapurna orticolo. Anche la rarità e l’ibridazione fanno parte del gioco, perché il tropicalista non è assente da pensieri strettamente botanici, che invece non sfiorano neanche le menti dei Brambilla o degli ortaioli-bio-chic.

5) I lussuosi. Ai lussuosi appartiene quel genere di giardiniere che con le piante vuole avere a che fare il meno possibile, eppure, vivendo in ampie ville monofamiliari, si rende conto che di fronte alla società e ali propri ospiti, avere un giardino che esprima il decoro del proprietario sia un fattore indispensabile per aumentare il suo prestigio. Il lussuoso tratta piante , vasi, illuminazione, arredi, sotto un’unica voce: “spese”. Si mette d’accordo con uno dei tanti “professionisti del settore” che nel suo slogan promette “giardini di qualità” da un anno a piacere prima del 1800, e acquista un pacchetto, come una sorta di kit-giardino. Qui la lampada zen, lì il pergolato per le rose (rosse, rifiorenti e da taglio) e lì il giardino roccioso con cactus e sassi del tipo “spugna aliena”, senza il quale il giardino non poterebbe dirsi completo.
Naturalmente il posto d’onore toccherà all’olivo millenario capitozzato e posto sopra un rialzo circolare di mattoni in finto tufo, come una sorta di monumento alla schiavitù. Il lussuoso non usa il prato…tzé. Il prato sottrarrebbe spazio per parcheggiare e fare manovra all’auto sportiva del figlio, alla monovolume della figlia, al Suv della moglie e alla sua berlina di classe. L’unico prato sarà quello ai piedi dell’olivo capitozzato.

Quindi nel mondo del giardino italiano contemporaneo si è sviluppata questa dicotomia, che sarebbe sciocco negare e che stando in una posizione super partes di chi il giardino non l’ha, si vede tutta. Da un lato sofisticate signore intrattengono una esclusiva rete di rapporti sociali tra altri giardinieri e giornalisti, dall’altro la gran massa della gente comune che non compra riviste di giardinaggio e per le quali questo mondo, sofisticato, esclusivo e chic, non esiste affatto.

Riviste e le aziende di progetti del verde hanno un menu fisso pronto praticamente per ogni occasione e ogni tendenza. Ti spiegano il progetto, ti elencano le piante, e nel caso di vivai, te le piantano pure, senza che tu faccia null’altro sforzo che quello di staccare un assegno. Ovviamente i giardini che ne nascono non hanno un briciolo dell’eclettismo descritto da Giubbini, ma sono piatti, standardizzati, secondo modelli logori fino alla paranoia.

Ma il trucco qual è? Riviste e grossi vivaisti si danno la mano e mentre sulle riviste compaiono articoli che “tirano” piante e arredamenti, i vivaisti e i garden centre li propongono tal quali, magari à la carte.

Lo scopo è uno solo: far spendere soldi agli acquirenti, e fare in modo che il giardino che ne risulti li dimostri tutti questi soldi, perché se non hai soldi in questo mondo non sei nessuno.
Chi ne rimane escluso? Chi fa ricerca da solo, al di fuori delle logiche del mercato, per il suo semplice diletto. In genere si tratta di piccole aziende che pur non impoverendosi non arricchiscono, non hanno la velleità di fare landscape design, ma un lavoro più semplice e più alla loro portata, e che spesso contribuiscono più sinceramente e fattivamente alla conoscenza delle piante e dei giardini che non le riviste –anche quelle più blasonate.

Il lusso è un diritto

Qualcuno tra gli astanti, gentili signore e signorine, gentili signori e signorini, avrebbe il buon cuore di spiegarmi il senso di questo spot?

Su una cosa non sono d’accordo: l’ostentazione non è affatto morta, è più in forma di Lady Gaga.

In effetti quella pianta rappresenta milioni di euro e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di avere fatto una scelta fuori dalle proposte della moda, quindi tu hai in giardino una pianta che è stata selezionata per te dalle persone lì presenti, in mezzo a un mare d’erbacce

Il Diavolo veste Prada

La forbice

Se avete conservato “Sette” della scorsa settimana prendetelo e dateci un’occhiata, magari vi è sfuggito l’articolo di Sara Gandolfi “Lusso di serie”, a pagina 70.
Sottotitolo:

Archi-star sulle sponde del Lago di Garda, sette ville “firmate” Meier, Chipperfield, Thun e Eutebach. Un club “trasparente” e nove penthouse. Benvenuti nel villaggio paradiso dei super-ricchi. Chiavi in mano e impatto (quasi) zero

Confesso di essere rimasta scossa dalla lettura dell’articolo. Riassumendo si tratta di questo: René Benko, fondatore della immobiliare Signa, divenuto ricco e famoso per aver acquistato i sottotetti di Vienna per farci penthouse per i facoltosi, ha in cantiere un super progetto che sarà completo nel 2013, denominato “Villa Eden”. I lotti di 78.000 mq complessivi, si trovano alle spalle di Gardone Riviera e hanno una magnifica vista sul Lago di Garda. Saranno costruiti otto edifici, di cui cinque abitazioni, firmate “da un pezzetto di Gotha dell’architettura contemporanea”, lussuosissime, con infinity pool, garage a 90 posti, esclusivo ristorante, centro benessere, biblioteca, cigar-room, impianto d’allarme, camino aperto e altre cose che non so neanche immaginare.

Piscina

Il genius loci, assicurano gli architetti, sarà rispettato, anzi, esaltato. Gli edifici diventeranno dei landmark-buildings, con il loro aspetto inconfondibile conferitogli dalle firme più importanti dell’architettura contemporanea. Meier bianchissimo come al solito e Chipperfield rinnoverà la tradizione della limonaia. Tutte le case saranno “green”, il più ecologiche possibile, con impianti a riscaldamento geotermico e vetrate doppie per una minore dispersione del calore.
Inoltre, a fronte del pagamento di un forfait annuale, saranno garantiti servizi extra come giardiniere, baby sitter, golf cart, lavanderia, catering, concierge, oltre all’uso del Club House e di un giardino comune firmato Renzo Ene (a proposito, io non lo conosco: chi è?).
Il gruppo immobiliare Signa si difende da accuse di voler costruire edifici solo per ricchissimi, dicendo che il progetto “Villa Eden” ha evitato che i lotti fossero destinati ad un progetto speculativo non in linea con il paesaggio.
Tutto sarà completo nel 2013: deve essere tutto finito nello stesso momento, non è ammissibile che un proprietario arrivi ad abitare e di fianco a casa sua ci sia un cantiere ancora aperto.
La clientela sembra sarà tedesca o austriaca, ma dicono gli impresari che non gli dispiacerebbe “rafforzare” la loro presenza in Italia.


René Benko presenta Villa Eden
Cosa possiamo concluderne? Forse avrò una visione troppo pessimistica, ma credo che quelle case siano pagate da questa gente e che prima o poi toccherà anche a noi.

Be, di che ti lamenti? non hai anche tu la tua piscinetta?

Mixed border excusatio non petita

A parte qualche raro numero, “Rosanova” mi dà sempre intensi spunti di intensa riflessione.
Questo in particolare (n°24, aprile 2011) sembra una excusatio non petita del mixed border, o bordura mista, nota su questi schermi con l’epiteto di brodura mista.
Perchè mai le alte sfere si preoccupano di tirare fuori la brodura mista dagli impicci in cui inevitabilmente, per la sua conformazione strutturale, si sarebbe prima o poi cacciata?
Il giardinaggio è lento a muoversi, le mode si succedono in modo dilatato per via della materia con cui son fatti i giardini: le piante, che s’accrescono con lentezza e possono essere sostituite da altre più alla moda a prezzo di grandi esborsi di danaro. Senza contare che dietro al giardino vien quasi sempre una casa o un edificio, come dietro ad una palla viene sempre un bambino. Mettersi a spostare i muri è un’attività costosa.
Insomma, un giardino è “per sempre”, come un diamante, un condono edilizio e la cellulite? Può darsi. I vecchi giardini dimostrano marcatamente questo carattere, come accettano più disinvoltura le sovrapposizioni stilistiche (Villa d’Este è l’esempio classico che si porta in questi casi: vai a fare i baffi ad un quadro meno vecchio della Gioconda…).
E’ anche per questo che i nuovi paesaggisti si muovono su linee completamente diverse: progetti preferibilmente “pronto-effetto” (o se non pronto, almeno rapido), stilismi individualizzati che evidenziano una “firma” personale (le graminacee per Oudolf, le curve concentriche per Jencks, il fogliame spadiforme e i colori squillanti per Lloyd …), che rendano quella realizzazione perfettamente riconoscibile anche al mezzo-profano, che vi appiccica il suffisso iano (oudolfiano, jencksiano, clémentiano, lloydiano, blanchiano, e alla via così).
Il suffisso iano rende contenti tutti:1) l’architetto che si fa riconoscere e che si mette al riparo da eventuali copie o tramite il quale imprintizza eventuali epigoni o sinopisti 2) l’amministrazione o il comune o l’ente che ha pagato i soldi per quella realizzazione, poichè quel iano ai suoi occhi è sinonimo di “qualità” e c’è una folta schiera di pubblico votante attento alla “qualità” 3)il pubblico stesso, a cui è garantito, a mezzo firma, di star passeggiando attraverso se non un’opera d’arte, almeno a qualcosa che vi si avvicini 4)i giornalisti, che a quel iano s’attaccano come ad una mammella per spremerla fin quanto è possibile, costruendoci sopra articoli di costume, infographics, newslines, indirizzando l’opinione pubblica e cercare di mettersi alla testa del lungo corteo degli ecologisti 4)la critica, che del iano fa oggetto di riflessione estetica e lo storicizza all’interno del percorso artistico in cui si è evoluto.

L’articolo “Un’inarrestabile creatività” pubblicato a pag.25 a firma dell’abituale Giubbini, con un corredo fotografico dubbio (sulle cui mancanze già l’autore del pezzo si scusa, a parer mio non adeguatamente), e che non fa certo onore alle grazie del giardino, parte proprio con un lead storico per inquadrare l’arrivo della bordura mista in Italia. Gli articoli di Pizzetti, i pochi vivaisti specializzati, le traduzioni dei grandi testi inglesi, le fiere di giardinaggio.
Sia ben chiaro che la domanda di piante in Italia non nasce dagli articoli di Ippolito Pizzetti, ma dall’entrata del mercato italiano nella rete di quello europeo e globale, di cui questi ed altri articoli non sono che una manifestazione sensibile.
Il resto lo conosciamo un po’ tutti, dalle raccolte a fascicoli, ai primi vivai anche in piccoli centri periferici, ai castighi meridiani e post-prandiali degli infliggimenti di consigli ecologici da parte di personaggi di dubbia sanità mentale, come Luca Sardella e Luigi Carcone.

“A questo punto mi aspetto le consuete obiezioni-dice Giubbini-Che senso ha copiare un modello, quello inglese, con cento e più anni di ritardo?Che senso ha trasferire un modello straniero in un ambiente e in un clima e con una storia così diversi? E non si tratta di un fenomeno elitario, di nicchia, che infatti sinora non è riuscito a smuovere la situazione del giardino italiano nel suo insieme, che rimane ancora oggi, a dir poco, miseranda?
Non credo che queste obiezioni abbiano un senso.”

Tuttavia per prevenirne altre, spiega:

“Il modello del giardino inglese, quale è stato elaborato da Robinson, dalla Jekyll e dalle Arts and Craft, non è soltanto il prodotto di un determinato momento storico-la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, cioè il liberty e il déco per intenderci-, ma un’acquisizione permanente della storia del giardino, allo stesso modo del giardino formale o del landscape garden. Si è trattato non solo di uno stile o gusto o moda del momento, ma di un nuovo corso del giardino moderno, con cui in ogni caso bisogna fare i conti. Inoltre, proprio perchè si è trattato di una nuova struttura linguistica (io avrei usato la parola “sintattica”) e non solo di uno stile o di una moda, il giardino inglese può applicarsi a qualsiasi situazione, anche la più diversa (climaticamente e storicamente) rispetto a quella originaria. Infine, il carattere ancora elitario della pratica del giardino, almeno da noi, è solo una tappa obbligata sulla via di una (ragionevolmente possibile e probabile) estensione ed elevazione del gusto.

Bravo, ci hai quasi convinti.

Personalmente dubito fortemente che il giardino inglese possa adattarsi a qualsiasi luogo (climaticamente magari sì, storicamente no). Questa è una balla grande quanto Nettuno. Ci sono luoghi che griderebbero disperati se sui loro suoli venisse realizzata anche la più sofisticata bordura inglese.

La bordura inglese ieri è stata un linguaggio dell’arte del giardino, e lo è ancor oggi in mano di pochi fortunati (pochi, molto pochi fortunati).
Se questo è vero-come è vero- non significa che essa sia la summa del giardinaggio e che oltre vi sia scritto Hic Sunt Leones. Che un giardino non sia tale per i suoi accostamenti di piante e giochi di colori. Come è finito il dinosauro, come è finito il comunismo, finirà la bordura inglese: come un episodio della storia, da studiare, archiviare e da cui imparare per procedere oltre, altrimenti non sarebbe forse “velato populismo” il voler tornare indietro o peggio restare dove siamo? Non bisogna chiedersi cosa è stata la bordura inglese per la storia del giardino, quello è il passato: bisogna guardare alla bordura oggi e a quello che di negativo comporta nell’intendere la pratica orticola e la filosofia del giardino. Il semplice fatto di non farlo è una quiescenza sospetta.

Oggi la bordura inglese, nel migliore dei casi, non è altro che una tela prestampata con numerini per i colori, buona per ragazzine che non vogliono sbagliare.
Non è una tappa obbligata, tecnicamente, intendo. Se lo è per lo storico, non lo è affatto per il giardiniere. Non è affatto necessario imparare a dipingere copiando Poussin anzichè Michelangelo: si può imparare a disegnare anche imparando a copiare due bicchieri e una brocca, un albero, una casa, o il proprio gatto, o un vaso di fiori. L’importante è -di solito- avere un buon insegnante.
La bordura inglese non è una tappa da bruciare, non è neanche una tappa, come non lo sono il giardino formale o il landscape gardening.

La bordura inglese inoltre contiene al suo interno due marcate forme di antisocialità che io non ammetto in nessun grado:
la prima è l’esclusività, il mondo elitario nel quale dopo un po’ -quando si inizia a conoscere un buon numero di piante- volenti o nolenti, si inizia a veleggiare. Esclusività ed elitarietà veicolate dalle riviste che non fanno proprio nulla, ma ripeto nulla, per una sincera “elevazione del gusto”, anzi, mantengono questi giardini enclave riservati a pochi intimi, in genere facoltosi.

La seconda cosa che non ammetto della bordura inglese è il suo dimenare il didietro a seconda delle mode e alle piante più in auge del momento. Si può affermare con una certa sicurezza che questo polimorfismo sintattico, per parafrasare Giubbini, sia spinto dalle esigenze del mercato, che ci fanno apprezzare l’Oudolfiano quando vogliono venderci le graminacee, l’Austiniano, se vogliono che compriamo rose inglesi, il blanchiano se invece ci vogliono ad ogni costo irretire con quegli assurdi muri verdi.

Per non parlare delle reali brodure che combinano fatui giovani ritenendosi già saggi, che pur di non rinunciare alla piantina al vivaio fanno a meno dell’abbonamento per i giga (no, ho sbagliato esempio: diciamo che comprano una sottomarca di croccantini per i loro gatteeney).

La bordura inglese è insomma una caricatura di quello che è stata in passato, e come se ciò non bastasse non possiamo fare a meno di citare l’articolo, sempre di Giubbini, sul numero di Luglio 2009: Le jardin Plume (ancora sul concetto di copia) in cui il Nostro ci fa una testa così sulla copia e ci dice che quando dell’originale non si comprendono neanche più le strutture formali, entriamo nel campo del Kitsch (il che è vero, ma solo in parte).

La domanda tuttavia rimane irrisolta: perchè le alte sfere si muovono per difendere una struttura formale che nel tempo ha cacciato fuori tanti di quei difetti da essere ormai pronta per la demolizione e il passaggio ad un nuovo concetto di giardinaggio, meno improntato sull’esclusivismo, sull’individualismo, sull’effetto superficiale?

L’amara risposta, amici, è che si deve pur vivere.

I miei peccatucci masscult

Devo avere non solo un’anima pop, ma anche il cuore e il resto delle frattaglie.

Dichiarerò al mondo le mie colpe, cercando di non omettere nulla, scrivendo così come mi viene.

1) Il più grave: ho visto un’intera edizione del Grande Fratello. Non so quale, era quella con Patrick. Seguivo anche le repliche e la puntata serale infrasettimanale.
2) Mi piace Alba Parietti e mi sono molto appassionata con “Il macellaio”
3) Ho letto qualche Harry Potter (forse anche due o tre) e l’intero volume I guardiani della notte di Sergej Luk’janenko
4) Una volta, nel 1992, volevo andare ad “Amici”, ho persino fatto il provino con Maria de Filippi.
5) Mi piace molto Star Trek. Ho visto tutte le puntate di Star Trek, dalla prima all’ultima serie almeno due o tre volte l’una, quelle di The Next Generation le conosco a memoria
6)Ho visto tutto Sailor Moon, esclusa l’ultima stagione
7)Mi piace la ‘Pierre de Ronsard’
8)Ho un blog
9)Colleziono immagini e libri di Holly Hobbie
10) Ho tutti i libri di Beatrix Potter e di Cicely Mary Baker, in compenso però detesto Anne Geddes, pur avendone un’agenda
11)Occasionalmente pratico il découpage
12) Mi piacciono i motivi vittoriani
13) Ho comprato tre volte 100 fiori ai ferri e all’uncinetto
14) Ho prenotato un copriteiera
15) Sono abbonata all’album di Patchwork Pottery e a quello di Andrea Joseph’s Sketchbook
16)Ascolto Madonna, i Pooh, i Duran Duran e le sigle dei cartoni animati giapponesi
17) Ho dai tre ai cinque Moleskine
18) Vado in delirio davanti ai dolcetti danesi e in genere a tutti i dolci anglo-americani, come muffin e scones
19) Lascio che i gatti dormano su letti, poltrone e divani, e che il cane dorma sul mio scendiletto
20) Ho letto credo una mezza dozzina di libri di Barbara Cartland
21) Ho tutte le cassette originali dei film Disney da Fantasia fino a Pocahontas, e le ho viste più di una volta
22) Ho seguito, e se mi capita qualche volta rivedo, le seguenti serie televisive: Tre cuori in affitto, Starsky e Hutch, Spazio 1999, Zaffiro e Acciaio, Doctor Who, Buck Rodgers, Il mio amico Alf, Love Boat, Mork e Mindy, Baretta, Colombo, Charlie’s Angels, Strega per amore, La signora in Giallo, Manimal, Casa Keaton, I Roper, George e Mildred, A-team, Vita da Strega, I Robinson, I ragazzi del computer (del cui protagonista ero innamorata), Mash,Saranno famosi (eccetto le ultime stagioni) La casa nella Prateria, La conquista del West, Arnold, Furia cavallo del west, Rin Tin Tin, Lottery, Mc Gyver, i Chips, Simon & Simon, Supercar, Hulk, Wonder Woman, L’uomo da sei milioni di dollari, La donna bionica, La banda dei cinque, Orzowei, Sandokan,L’albero delle mele, Giudice di notte (c’è una puntata con Brent Spiner-se a qualcuno interessasse), Happy days, Moonlighting, Cuore e batticuore, Remington Steele, Twilight zone (c’è una puntata con Brent Spiner – se a qualcuno interessasse), Alice, Gli Orsi, Automan, Street Hawke, Sulle Strade di San Francisco, La famiglia Bradford, La frontiera del Drago, Tre nipoti e un maggiordomo,Baby sitter, Due uomini e mezzo, Genitori in blue jeans, Hardcasle & McCormick, L’uomo di Atlantide, Babylon 5(per quello che ho potuto), Seaquest, La banda dei sette, 21 Jump Street, New York New York, T.J. Hooker e Adam 12…gli alti telefilm trasmessi li ho guardati solo di striscio.
23) Ho visto tutto Lost
24) Ho visto Quando si ama, Dallas e Capitol. Fatevi sotto, mi ricordo i nomi di tutti i personaggi
25) Ho visto, e avrei continuato a seguire, se non l’avessero interrotto, Una donna alla casa Bianca
26) Ho le stampe di Marjolein Bastin incorniciate nella stanza da letto
27) Seguo ogni pomeriggio “La strada per Avonlea”

“Non per fare una critica…”

Quante volte avete letto una frase di questo tipo, quante?

  • Non vorrei fare una critica, ma mi sembra che…
  • Non per essere critici, ma forse sarebbe meglio...
  • Non vorrei che si prendessero le mie parole come una critica, ma sinceramente non trovo giusto che…
  • Lungi da me fare una critica, però…
  • Guarda che hai capito male, non volevo criticarti, volevo solo precisare che…
  • E alla via così.

    E’ normale che attraverso la comunicazione non verbale tipica di oggi e del mondo di internet si tenda ad una prudente cortesia (c’è chi non lo fa, veramente. Sant’Antonio troppa grazia), ma in questo caso specifico c’è non solo un inutile eccesso di prudenza (in ogni caso la persona soggetta a “critica” la prenderà male, garantito. In certi casi il silenzio è d’oro), ma soprattutto un errore di fondo che affligge anche le comunicazioni verbali interpersonali vis à vis,il giornalismo, anche quello specializzato, le pubblicazioni d’ogni genere e in sintesi tutto il mondo della comunicazione professionale.

    In buona sostanza, un errore che coinvolge praticamente tutti, perlomeno in “Italia”.

    Ovviamente molti sanno che la parola “critica” non significa solo un’esternazione di un’opinione negativa, ma semplicemente e più solidamente una analisi di un qualcosa, fatto o azione, che non necessariamente conduce ad un rapporto di negatività o conflittualità con l’oggetto dell’analisi.

    Il caro vecchio Kant scrisse tre libri (nel mondo accademico si dice persino che siano importanti…): Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio.
    Con questi tre libri il caro vecchio Kant non voleva mica “criticare” la ragion pura, la ragion pratica e il giudizio, ma semplicemente analizzarne la condizione, lo stato, l’essenza metafisica. Non ce l’aveva mica su con la ragion pratica. Voleva semmai capirla.

    Ecco, se vogliamo darne una definizione potremmo dire che una critica è una serie di pensieri e riflessioni che sono necessari per comprendere una cosa, non per stroncarla.

    La stessa parola, Krisis, viene dal greco e significa “dividere, separare”. Nel linguaggio fisico-matematico è un termine assai usato, poichè definisce il momento preciso del passaggio di un sistema da uno stato ad un altro (ad esempio il limite di Chandrasekhar). Prendiamo l’espressione “massa critica”: viene utilizzata in astrofisica per determinare la massa necessaria affinchè un corpo celeste passi da uno stato ad un altro (es. dallo stato di protostella a stella, di pianeta a stella, ecc.). In poche parole, quando un insieme di elementi è stazionario e sopravviene un cambiamento.

    Il cambiamento in sè per sè è un evento normale della materia (anzi, per la scrivente è un evento costitutivo della materia) ed essere una nana bianca non è nè meglio nè peggio che essere una supernova. E’ solo differente.
    E’ a comprendere questa differenza, questa krisis, che serve una critica.
    Le critiche sono quindi necessarie per comprendere la realtà che ci circonda e la nostra posizione, come società e come singoli individui, all’interno di essa.

    Monna Lisa di caffèlatte
    La critica è poi il fondamento del processo di storicizzazione dell’opera d’arte. L’osservazione e il giudizio dell’osservatore entrano a tutti gli effetti a far parte dell’insieme noto come “opera d’arte“. Con una frase provocatoria ma veritiera dirò che un’opera d’arte senza un pubblico non è più tale.
    Chi si astiene dal giudicare perche “non sa” o peggio, perchè “non lo trova giusto” commette il danno più grande che si possa infliggere verso quella congerie di oggetti e azioni chiamati “Arte“. Chi nega che qualsiasi produttore d’arte lo faccia per un pubblico ideale è alla meglio un ingenuo o non ha in sè la benchè minima percezione di cosa sia produrre arte.

    E quindi? E quindi sono stufa, arcistufa delle frasette sul tipo qui sopra riportato. Che le persone prendano coscienza di ciò che dicono e ciò che fanno, se ne assumano piena responsabilità. Questa forma pseudo-evangelica di “non fare critiche” non è che supina quiescenza intellettuale mascherata da cortesia.

    Si potrà anche essere pazzi, ma c’è ancora chi sa distinguere un falco da una colomba.

    Le parole che abolirei

    Negli ultimi mesi ho maturato un’avversione verso alcune parole, frasi, espressioni o modi di dire che ritrovo periodicamente negli articoli di giornale, soprattutto in quelli che riguardano moda, arredamento, design e quindi anche giardini.
    Non che non abbia mai nutrito una sorta di insana passione per la purezza linguistica, e anche se non ho le competenze necessarie per essere una feticista della parola, diciamo che lo sono in maniera intuitiva ( anche se l’intuito in queste cose non è sufficiente).

    Oltre a non piacermi i titoletti coi giochini di parole (tipo “rotta di collusione”, “Milano conciata per le feste”, “orto? col cavolo!”) che ormai hanno veramente stancato e hanno l’originalità dei messaggini standard dei gestori telefonici, ci sono alcune parole inflazionatissime (anche “inflazionato” è un termine inflazionato, ma meno di prima: il nostro Silvio ha per fortuna cancellato l’inflazione facendo un paio di giochetti con l’aritmetica) e alcuni modi di dire che ormai non si possono più sentire.

    Usatissimi dai giornalisti di media qualità (qualche volta li ho dovuti usare anche io, perchè peggio dei giornalisti ci sono solo gli avvocati dei mafiosi), sono non meno spesso usati anche dagli accademici, che forse li hanno acquisiti dai produttori delle nuove parole (i giornalisti, appunto) e si sono infiltrati ovunque ci sia un livello medio di scrittura, il che comprende la stragrande maggioranza della produzione culturale contemporanea, cartacea o virtuale.

    Il primo modo di dire che mi fa venire il raccapriccio, e che gli architetti usano come una pioggia continua è: dialogano. Le colline e la sobria architettura dell’edificio dialogano in un paesaggio che sembra scolpito nella Natura. Tanto per dire. Oppure sembrano dialogare. La sobria architettura e lo scultoreo paesaggio collinare sembrano dialogare in una dialettica armoniosa.
    Ma che te devi da dialoga’?

    Secondi, a pari merito: sfondo, fondale, teatro, cornice, spazio scenico.
    Queste sono delle vere bestie assassine. Ammazzano qualsiasi descrizione, ma delle volte se ne deve fare ricorso perchè non c’è alternativa. Cornice, in particolare, è ormai evitata come la peste, è un termine che usano solo quelli che non leggono articoli. Nella splendida cornice è poi il trionfo del Kitsch linguistico e ormai si trova solo in qualche comunicato stampa redatto da commercialisti che fanno un secondo lavoro per arrotondare.
    Il suggestivo scenario è un po’ meno da torcibudella, ma certo che è pesante. Questo purtroppo credo di averlo usato anche io.
    Come alternative hai poco, ambientazione (una parola lunga, pesante, che suona male), spazio (generico, fastidioso) e i famigerati spazio scenico, teatro vegetale e altre amenità a buon mercato.

    Terzo: delizioso. Delizioso è diventato un aggettivo troppo usato, mette in ghingheri l’articolo, lo fa sembrare un cicisbeo puzzolente di orina e profumo da donna. E sì che Voltaire ne diede, nell’Enciclopedia, una descrizione appropriatissima.
    Delizioso scenario diventa poi una canzonetta alla Arbore, una presa in giro, una “ma ce sei o ce fai?”

    Quarto: protagonista. Questo è un aggettivo che io ho usato un paio di volte nel mio libro quando però ancora non era così diffuso. Quando ricapito su quelle frasi vorrei accartocciare la pagina. Se mi faranno la seconda ristampa chiederò un emendamento al protagonismo delle piante. Protagonista mi infastidisce anche perchè è sintomatico di questa società che mette l’individualismo cieco al di sopra di ogni solidarietà umana, che ci vuole tutti belli e palestrati, grandifratellizzati, griffati, capaci di tenere gli altri “al loro posto”, prima con rossetto e minigonne, poi strepiti, urla e schiaffi in tv, poi coltellate e menzogne in tribunale.

    Quinto: texture. Non dovrei avere in antipatia questo termine che è caro a tanta parte del design industriale italiano degli anni migliori. Eppure mi dà fastidio. Meglio tessitura, trama, portamento, aspetto del fogliame. E’ un termine che però i giornali di moda tendono a utilizzare in maniera insopportabilmente abbondante e a volte impropriamente. Non è da abolire ma da rivederne l’uso.

    Sesto: sinfonia. Anche questo l’ho usato ed è un termine praticamente insostituibile. Però sta diventando troppo diffuso. Il cielo era una sinfonia di azzurri che dialogavano col suggestivo scenario della splendida cornice del teatro naturale del delizioso paesaggio.

    E buonanotte popolo.

    Midcult

    Midcult abbronzante

    Come distinguere il masscult dal midcult? Semplice: se le professoresse di Lettere lo difendono ai club di lettura si può star sicuri che è midcult.

    La mia povera anima pop

    Ah! Quanto vorrei la penna di Cechov per descrivere una famigerata “ramaglia” della mia parentela! Chi altri potrebbe descrivere tutti i tic, i protagonismi, l’involontaria ridicolaggine di cui si rendono protagonisti nelle nostre conversazioni familiari?
    Di loro non si potrebbe certamente dire che sono poetici, ma che sono dei veri e propri poemi, o meglio, delle tragicommedie.
    Tra le altre manie e stronzismi ipertrofici, soffrono tutti di quella mi è stato spiegato chiamarsi sindrome del dottore, cioè di coloro che appena si laureano guardano gli altri da sotto in su (salvo poi farsela sotto quando incontrano un ordinario, un rettore, persino un assistente o un portaborse).
    Insomma, sono dei veri personaggi in cerca d’autore. Chi non ne ha almeno un paio in famiglia?

    Veniamo al dunque: quando pubblicai il mio libro mi fu sottolineato che avevo fatto male ad inserire una poesia di Pascoli. Cito a memoria: “Lidia, non acquista maggior valore quello che scrivi inserendo una poesia di un poeta famoso (il che voleva dire “famoso a torto”, ovvero “tutt’altro che valido” ), mi dispiace invece che tu ne abbia inserita solo una di tua mamma”.

    Già ma quale poeta è più pop di Pascoli? E per molti aspetti è pop il mio libro. Sono due stili che collimano, che corrono appaiati. E poi, diciamocelo, anche la poesia di mia mamma ha un’anima pop. Usare un poeta considerato ormai fuori moda, banale, trito, barboso, languido e melenso come Pascoli per me è stata una scelta ben ponderata, anche se sapevo che qualcuno l’avrebbe vista come una caduta di intelletto e di sofisticatezza. Non m’importa molto di come la pensano gli snob. Anzi, forse dovrei dire (magari senza forse), che oggi il top dello snob è usare Pascoli e non Cielo d’Alcamo.

    Come spiegarlo alle mie apparentate ramaglie? Impossibile. E poi sarebbe stata una cattiveria minare i capisaldi dell’universo di borghesismi in cui sono stati indotti a vivere.

    In effetti loro mi considerano una stupida. Ma senza un’oncia di falsità e autocelebrazione, anche se con un pizzico di revanchismo, posso dire che sono tanto intelligente da riuscire a passare per stupida, al solo scopo di non avere a che dibattere con loro.