“Painter of the night”, di Byeonduck. Volumi 1 e 2, videorecensione

La mia videorecensione sui primi due volumi di “Painter of the night”.

Contenuto disponibile solo per maggiori di età e disponibile solo sulla piattaforma youtube.

screenshot di una ricerca google

Se volete seguire l’autrice, qui c’è il suo account Instagram

https://www.instagram.com/byeonduck_/

“Sanctuary” di Shō Fumimura (Buronson) e Ryoichi Ikegami. Un inimitabile esito artistico del manga anni ’90

Sanctuary è un manga ormai dimenticato, adatto a un pubblico che ha un certo occhio e un approccio molto maturo al fumetto giapponese, quasi filologico o da collezionista, bibliografico.

Non nasconde gli anni che ha, ma in un modo che non è concesso ad altre opere: l’aderenza alla sua epoca, non un invecchiamento precoce o il non essere più valido poiché superato dal trascorrere del tempo.

La traccia raffinata e quasi sublime di Ikegami, sicuramente uno dei massimi disegnatori dell’epoca e probabilmente uno dei più eleganti della storia, rende il manga così graficamente sofisticato da estrometterlo dalle grazie dell’interesse delle next generation, aduse a un tratto grafico più rigido e omologato, anche qualora sia elaborato e complesso.

Ikegami è morbido, i volti dei protagonisti sono lineari e simmetrici, puliti, con qualche propensione alla fisionomia del miglior Elvis Presley di sempre, quello di King Creole. Forse è questo che agli occhi dei lettori contemporanei lo fa risultare un po’ “effemminato” e poco attuale, “persino kitsch” (ho letto anche questa opinione in rete).

La sua ben nota inclinazione verso le scene di violenza, sesso e sangue potrebbe apparire oggi quasi una forma compensatoria della eccezionale bellezza dei protagonisti, in realtà è una precisa scelta estetica che all’epoca era innovativa e fuori dall’ordinario. In Italia non eravamo infatti abituati a manga con personaggi dalla bellezza fine ed elegante, in cui fossero presenti scene di violenza. In questo Ikegami è stato sicuramente una novità assoluta per il pubblico italiano, che arrivò a coniare per il suo stile il termine “estetica della violenza”, ben prima che Tarantino divenisse un fenomeno cultuale.

Se all’epoca la violenza e il sesso presenti in Sanctuary potevano sembrare “tanto”, sono nulla confronto ai fumetti contemporanei, diretti spesso a un pubblico piuttosto giovane. Ciò che non sembra essere stato superato è l’avvincente dinamismo delle figure durante la lotta o le scene di azione. In Crying Freeman, il suo manga più famoso, Ikegami raggiunge il vertice della perfezione per quanto riguarda la disposizione delle scene in pagina, il movimento delle figure e il tratto veloce e preciso. In particolare il disegno dei piedi, spesso abbozzato ma perfettamente comprensibile, richiama i disegni a inchiostro delle antiche illustrazioni giapponesi.

L’ edizione italiana è purtroppo specchiata, cioè si sfoglia come un libro tradizionale. Oggi è persino fastidioso e controituitivo, tanto i manga sono capillarmente diffusi. Questo è uno degli elementi che hanno contribuito all’attribuzione della qualifica di “vintage” o “démodé” . Senza prezzo e di notevole valore di ricostruzione della storia sociale del manga in Italia, sono invece i commenti e le lettere alla redazione, a cui molte pubblicazioni dell’epoca lasciavano spazio. In quel periodo il manga non era diretto a un pubblico generalista o perfino distratto, come lo è oggi. Chi acquistava era un appassionato che si era contrabbandato videocassette, disegni e magazine in fotocopia. Avere un “libretto” in mano era per noi qualcosa che non ci faceva sentire né soli né strani nel godere delle nostre passioni. Avevamo finalmente una forma istituzionale di cultura a cui fare riferimento, scoprivamo insieme molte cose, e queste pubblicazioni sono state apripista per avere una migliore consapevolezza di quanto vasto e bello fosse il mondo del manga giapponese. Alcune lettere oggi sanno di una ingenuità tenera e commovente. Immagino che chi le abbia scritte abbia approfondito, sia ora un collezionista, abbia magari imparato il giapponese, e le conservi come un piccolo tesoro.

Sanctuary è una storia complessa, a volte può apparire poco credibile e inutilmente intricata, ma è sostanzialmente una riproposizione aggiornata agli anni Novanta, di quanto accadde in Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia non è solo una “storia di politica” o una “storia di yakuza”, sebbene questi due elementi siano presenti. Semmai la yakuza è un espediente per raccontare in modo più avvincente un reale problema politico che il Giappone sentiva in maniera allarmante durante gli anni Novanta, quando implose la bolla speculativa e l’intera società iniziò a riformulare le sue dinamiche sociali. Non viene occultata l’importante influenza sulle modifiche alla costituzione da parte degli Stati Uniti. Nel manga compare il presidente USA, con le fattezze di Bill Clinton (presidente nei Novanta, tra i vari Bush).

Basta dare una letta a wikipedia per trovare delle analogie fortissime alla storia politica del dopoguerra, le modifiche alla Costituzione e la dichiarazione di antimilitarismo del Giappone, pilotata dagli Stati Uniti d’America che avevano inginocchiato la nazione con due bombe atomiche. Perfino Isaoka, la “vecchia volpe” della politica, è ispirato a Shigeru Yoshida (a me ha ricordato molto fittamente Andreotti: ogni paese ha le sue icone di sciacallaggio), che fuse i partiti più potenti del tempo nel Partito Liberal Democratico, che ha tenuto le redini del Giappone per mezzo secolo, fino a un decennio addietro.

Nel disegnare Isaoka, Ryoichi Ikegami ha premuto forte sul pedale dell’acceleratore, esprimendo il massimo della sua capacità tecnica sul tratteggio e il chiaroscuro. Isaoka è in assoluto il personaggio su cui è stato speso più sforzo estetico. Fa paura davvero.

Il chiaroscuro è ai massimi livelli. La qualità del disegno è illustrazione tout court.
Qui ha usato matita morbida, probabilmente una B4 o B5. Sono cose di fronte alle quali il mio cuore trema.

Chiaki Asami e Akira Hojo sono due faccie della stessa medaglia. Hanno affidato l’uno la vita nelle mani dell’altro da ragazzini, in un campo di prigionia in Cambogia. Darebbero la vita l’uno per l’altro ( e si può dire che Chiaki sia morto al posto di Akira) e vogliono ottenere un risultato, un risultato epocale e quasi mistico, religioso: rendere il Giappone il loro santuario. O meglio, far tornare il Giappone ad essere un santuario, un paese degno e non corrotto. Per farlo si dividono i compiti, uno diverrà un uomo politico e l’altro un boss della yakuza. Qui capiamo benissimo che Buronson ci dice con grande chiarezza che il potere governativo è legato a doppio filo con la criminalità, che -come in ogni stato capitalista- non è indipendente né autonoma, ma prende ordini dal governo. Anche in Italia è così, se qualcuno pensa che la ‘ndrangheta o la camorra non siano al servizio dello Stato Italiano si beva un caffè.

Una modifica della Costituzione sembra essere il nocciolo della questione sollevata da Buronson. Il Giappone è infatti in uno stato di contraddizione, avendo su carta rinunciato al militarismo. Asami fa notare che però -come tutte le altre nazioni- anche il Giappone ha un esercito per la difesa interna. Propone diverse soluzioni per raggiungere una coerenza che non sia lesiva ma neanche autolesionista. In questo -io credo- Buronson abbia voluto rimarcare che il Giappone ha bisogno di emanciparsi da una legislazione vecchia e che ha diritto all’autodifesa, senza ricorrere a mezzucci o alla vastissima rete della criminalità.

Akira e Chiaki padroneggiano il loro territorio con grande sicurezza. In particolare Akira Hojo, il boss yakuza, sembra imbattibile. In questo Sanctuary pare anticipare quel tipo di videogioco a livelli crescenti di difficoltà, in cui i personaggi non cedono di fronte a fertite gravi e ostacoli impensabili, anzi, riescono ad aggirarli o superarli. Akira Hojo acquisisce la leadeship di buona parte della yakuza giapponese e Chiaki Asami riesce a portare dalla sua parte i membri chiave della politica, personaggi con uno spirito di ribellione e senso di giustizia non ancora sedati. Non mancano figure come il contabile e il banchiere, che all’occhio occidentale rimandano agli Intoccabili. Dopo aver portato a sé buona parte dei gruppi yakuza, Akira intende fare patti con la mafia russa e quella cinese, un sistema di criminalità transnazionale tra superpotenze che oggi appare più che mai saldo e longevo. Su questi legami Ikegami e Buronson si soffermeranno nuovamente nel poco noto Strain, che parte come vicenda umana e si conclude come azione politica, e che disgraziatamente non ha visto un seguito. Pur rimanendo al di sopra della maggior parte della produzione di manga contemporanei, Strain ha però un calo visibile di qualità rispetto a Sanctuary, che assieme a Heat rimane l’opera più bella di Ikegami.

Con gli occhiali tondi nella migliore tradizione dei banchieri che compulsano colonne fitte di numeri di quotazioni, ha l’abitudine di mandar giù mentine.

Nell’amicizia di Akira e Chiaki c’è ovviamente un accenno non troppo velato all’omosessualità e a quello che oggi chiamiamo BL o yaoi, le storie di amore romantico tra uomini. È fin troppo chiaro che tra i due protagonisti ci sia del sentimento non solo fraterno, anche se vediamo entrambi con delle donne. La personaggia che si lega ad Akira, la commissaria Kyoko Hishihara, è davvero futile e mal descritta proprio perché meramente funzionale a dichiarare Akira come eterosessuale. La compagna di Chiaki è un’apparizione fugace e quindi più simpatica e gradevole.

Akira ha un volto bellissimo, quasi quanto quello di Yo Hinomura di Crying Freeman, mentre Chiaki è descritto in modo più realistico, con il vezzo di aggiustarsi gli occhiali sul naso: un gesto ormai tipico di moltissimi personaggi dei manga e soprattutto degli anime (in cui ovviamente riesce più interessante grazie al movimento). È anche uno stilema ormai consolidato nel BL, come in Yuri!!! on Ice o Free! (Rei Ryūgazaki lo fa in continuazione). Akira riesce a uscire da uno stato quasi comatoso stringendo la mano di Chiaki (con l’aggiunta dell’elemento femminile dato da Kyoko che in questo frangente appare quanto mai superflua).

Tutti gli yakuza sono fraterni tra loro e la reciproca dedizione va oltre la verosimiglianza. Buronson affida a Tokai il compito di affrancare tutti i maschi presenti nel manga dall’ipotesi di omosessualità, facendogli violentare una donna ogni tanto, così, giusto per gradire. Lo stupro è quasi una regola nel manga e nell’anime giapponese, ma in questo caso non appare né hard-core né particolarmente stimolante, quanto “obbligato”. Tokai è il personaggio più importante e interessante dopo Hojo e Asami, e i suoi stupri occasionali lo caratterizzano in modo abbastanza inequivocabile, tuttavia non in modo unico e individuale. Risultano quindi gratuiti e strettamente funzionali all’indicazione di un orientamento straight. Questo fa perdere un po’ di freschezza al personaggio, che risulta invece molto più avvincente nelle sue manifestazioni di insolito e contraddittorio affetto per Akira Hojo o nelle spietate azioni da killer. Tokai è anche il personaggio che si muove di più, il più violento e lo yakuza più aderente all’immaginario.

Il dinamismo delle figure è straordinario. Al contrario del manga contemporaneo di azione, in cui i corpi (umani, di mostri, animali o altre figure) riescono a volte confusi e “impastati”, qui sono perfettamente separabili e comprensibili all’occhio, grazie anche a una retinatura pulita e attenta. Personalmente anche nei manga più celebrati,non ho più ritrovato questo stile elegante e dinamico.

Anche gli altri personaggi vengono descritti con bellissimi tratti, ognuno in modo molto individuale. Di sicuro il pubblico femminile troverà almeno uno su cui perdere gli occhi.

Un discorso quasi marginale è quello dei comportamenti sessuali di Akira Hojo e Chiaki Asami. In Crying Freeman la componente sessuale era di primaria importanza, Yo Hinomura s’è fatto anche i sassi della spiaggia. Ma si trattava sempre di rapporti etero, per quanto hard. Qui si vedono pochi accenni, specie su Asami, e la personaggia affiancata a Hojo è abbastanza noiosa, narrativamente inutile. Eppure è molto carina e ben descritta (graficamente), con un taglio corto piuttosto in voga qualche anno prima. Gli incontri tra i due sono sempre molto delicati e romantici, totalmente diversi da Crying Freeman.

Prima di stare con Kyoko, Akira ci viene mostrato come un ragazzo che si gode la compagnia femminile, anche in modo “domestico”. Il bacio sulla fronte che lei gli scocca mentre si alza per rispondere a una chiamata internazionale è familiarissimo: chi non l’ha mai fatto mentre si spostava nel letto?
Ikegami non disegna faccine e personaggi deformati, il suo stile è sempre verosimile. I personaggi vengono disegnati in modo appena buffo solo all’inizio, per attrarre il pubblico. Akira Hojo che mastica in modo poco elegante non si vedrà più.

Un altro soggetto di grande interesse è Ozaki, l’assistente di Kyoko Hishihara, di cui è innamorato. Ozaki stima Hojo ma è allo stesso tempo un poliziotto ligio e di valore morale. Posto davanti alla complessa scelta tra il suo dovere e l’affetto per il suo capo, il rispetto per un uomo che ritiene nel giusto, Ozaki sceglie la sua coscienza e non il suo distintivo. L’accenno di Tokai al “bacetto” non è davvero casuale. Ikegami e Buronson descrivono un mondo maschile in cui anche i rapporti sentimentali più forti vi risiedono profondamente.

Ma l’elemento che forse caratterizza Sanctuary più fortemente di ogni altro è la descrizione dei personaggi. Ognuno di loro ha una fisionomia perfettamente riconoscibile, delle “smorfie” individuali, tratti personalissimi e totalmente verosimili, aderenti alla fisionomia nipponica. I personaggi non si confondono mai tra loro, nè come personalità né come tratti. Hanno un’autonomia distinguibile, sorprendentemente vicina alla cinematografia. Siamo ad anni luce di distanza dalle opere contemporanee, in cui i personaggi dei manga hanno visi molto simili tra loro, che cambiano in rapporto ad abiti e capigliatura. Non sono quindi stereotipi, e neanche macchiette, ma personaggi veri e propri presi quasi di peso dalla realtà quotidiana.

Questo vale per gli yakuza, per i politici e per gli avversari. Diventa facilissimo per lettori e lettrici empatizzare con uno o con l’altro, prendersi a cuore una vicenda o l’altra. In questo senso non ho mai letto un manga che possa neanche lontanamente competere con Sanctuary.

Questa è una delle mie scene preferite, in cui uno spietato yakuza ricorda il calore e l’affetto delle mani della madre, irruvidite dal lavoro

Non c’è l’ombra della caricatura neanche nel personaggio apparentemente più buffo. Le ambientazioni esterne e interne sono rese con grande cura, in particolare l’abbigliamento tradizionale maschile, lo yukata e gli abiti da ufficio, giacche e pantaloni occidentali, che comunque Ikegami disegna sempre morbidi, in modo da mettere in risalto le gambe, sia nelle scene d’azione che in quelle statiche.

Sulle gambe e i piedi c’è un discorso particolare da fare quando si tratta di disegno giapponese. Se per noi occidentali la parte superiore del busto è molto importante, al punto che abbiamo inventato il ritratto a mezzo busto, per l’arte giapponese sono molto più importanti le gambe, che spesso sono chiuse al ginocchio. Lo abbiamo visto in molti manga shojo, come Il grande sogno di Maya (in cui peraltro la parte superiore del tronco pare disegnata con la zappa, mentre le gambe sono di una bellezza inarrivabile). La diversa interpretazione della bellezza delle forme corporee è una cosa che apprezzo e mi diverte moltissimo, perché ogni volta ci vedo in trasparenza un vaffanculo grande così a William Hogarth a Burke e Bacon.

All’occhio occidentale è una graziosità se il corpo è femminile, ma una stranezza se il corpo è maschile. Ikegami forse se n’è fregato di cosa pensiamo noi occidentali, forse non lo sapeva neanche, o forse ha preferito rimanere più aderente a un tratto nipponico, senza l’obiettivo di piacere anche al pubblico estero. Non saprei. Ma il risultato è che spesso i personaggi maschili hanno pose delle gambe delicate e mobide che li fa apparire “effemminati” al nostro occhio. In realtà per i giapponesi sono semplicemente belli e basta.

Breve nota su Laurel Stevenson, da “I Langolieri”, di Stephen King

A Laurel Stevenson è toccata una sorte non comune nella sua vita di personaggia inventata, ma una iella piuttosto diffusa nell’elaborazione narrativa.

Laurel è una delle due protagoniste del racconto I Langolieri di Stephen King, Anno Domini 1990. L’edizione che ho io è quella pubblicata da Sperling nel ’91, in due volumi (Quattro dopo mezzanotte) .

Sembra un millennio fa, e forse lo era. Nel 1990 scoppia la guerra in Kuwait, parte l’operazione Desert Storm, inizia la guerra in Jugoslavia, Germania Est e Ovest si riuniscono. Nel 1990 l’OMS cancella l’omosessualità dal registro delle malattie, mentre occorrono ancora sei anni -sei- perché in Italia lo stupro diventi un reato contro la persona e non contro la “morale pubblica”.

A Mosca apre il primo McDonald’s e Kasparov batte Karpov, la notte di capodanno.

In questo clima non stupisce che la povera Laurel sia stata ritratta come una pescelessa, perfino da Stephen King, che ha sempre avuto una certa attenzione alle acquirenti femminili, anche se pruderie, turgori qui e lì, scenette da due spiccioli e grattatine varie, non mancano mai nei suoi romanzi e racconti.

Non è che ci sarebbe molto da considerare: Laurel Stevenson è la tipica personaggia di sponda, che viene sempre vista attraverso l’occhio maschile. Se Dinah, la bimba cieca, appare come il carattere femminile più rilevante, e perfino la quasi-comparsa, Bethany, ha maggiore autonomia descrittiva, Laurel rimane pescelessa dal primo all’ultimo momento. Percepita dapprima attraverso le sensazioni di Dinah, e immediatamente dopo da quelle di Nick e Brian (i due protagonisti del racconto), racconta sé stessa poche volte, e solo riguardo alla sua scarsissima attività sessuale. Grazie mille.

Darren, ti siamo vicini

Zio Stevie la smerdacchia sin da subito, facendoci sapere che sta mentendo sulle ragioni del suo viaggio, e che la menzogna serve a coprire -mio dio!- un appuntamento al buio con possibile scopata finale. Laurel, quando Zio Stevie fa così, non c’è rimedio, sei spacciata!

Ed è un vero peccato, perché non è Dinah il carattere femminile più di rilevo, ma proprio la nostra cara Laurel, che attraversa il racconto in modo sempre più intenso e presente, mentre Dinah è il classico personaggio-chiave, la bambina veggente nelle cui sensazioni tutto è riposto, in cui è la soluzione del problema e in cui risiede la salvezza per il gruppo. Dinah non esce dal solco classico in cui King pone i personaggi che ricoprono il ruolo di motore narrativo, né potrebbe farlo in una dimensione molto ridotta, quella del breve romanzo (I Langolieri è lungo circa 250 pagine, che per King significa davvero “breve”). In questa lunghezza lo Zio Stevie non è in grado di compiere mirabili sintesi, come tanti altri autori o autrici, e a maggior ragione non lo era nel 1990. Si assapora infatti una certa ruvidezza stilistica, un grezzo ancora non polito, tipico dei suoi racconti più vecchi. Era la fase in cui migrava verso uno stile più maturo e liscio, lavorato, forse meno fresco, ma più consapevole e attento – e per me certamente migliore.

Rendere Laurel più apprezzabile senza ledere la posizione narrativa di Brian e Nick è qualcosa decisamente alla portata di King. Diciamolo: Zio Steve ha svaccato mille e mille volte, ma nessuno come lui riesce a rendere i personaggi tridimensionali e amichevoli, veri. Il Vecchio riesce sempre a infilarti una frasetta che dipinge quel personaggio, una frasetta che torni a rileggere dieci volte, di cui conosci esattamente la posizione in quei dannati libroni, quella frasetta che sai ritrovare nella peste delle sue trame dispersive, “quella frase” che in qualche modo racchiude tutta l’esperienza di lettura. Sì, forse nessuno come Stephen King, oggi, sa fare bene questa cosa qui. Potete gettargli addosso il fango che volete, ma datevi pace: lui lo sa fare.

Perché non lo ha fatto per Laurel? Semplice, perché Laurel non gli interessava. Classica rappresentazione della femmina da narrazione di pessimo livello: il personaggio che serve solo a rendere più interessanti i maschi. È infatti attraverso Laurel che il Fedele Lettore inizia ad assaporare la parte più tenera di Nick, ed è attraverso Laurel che Nick diventa coprotagonista assieme a Brian. L’essere trottolata da un maschio all’altro non fa bene a Laurel, ma soprattutto non fa bene al racconto.

Con Laurel lo Zio si è preso troppe libertà rispetto alla sua consuetudine. Non solo la appiattisce come una sogliola sul fondale, ma compie un errore fatale: la fa pensare in modo assurdo e inverosimile, in cui una lettrice anche disattenta non può né riconoscersi né ravvisare un minimo di credibilità, e che un lettore maschio sarà invece portato a ignorare o rimuovere. Chiedete a qualsiasi buon kinghiano chi è Laurel dei Langolieri: non se lo ricorderà. E questo, questo è infamante, Zio!

Di sicuro c’è chi ha considerato il reato più grave del racconto dell’orrore, la comicità involontaria. Io l’ho considerata, nella scena che segue.

Incoerenza logica e narrativa: se un personaggio perde la testa, non è consapevole di averla persa. Se la perde consapevolmente o è pazzo o delinquente. Laurel qui sragiona continuando a ragionare. E tu vuoi che io, fedele lettrice, me la beva? Zio, valla a vende a qualcun altro!

Dopo un po’ lo Zio ha smesso di fare così, rendendo autonomi anche i personaggi minori, e perfino le occasionali apparizioni hanno a volte un qualcosa di indimenticabile. Laurel è rimasta invischiata altro che in una frattura spazio-temporale, è rimasta invischiata in una transizione stilistica e contenutistica di uno degli autori più noti e venduti degli ultimi cinquantt’anni.

Che rogna. A confronto i langolieri stessi sembrano un niente.

Natale Torre-I giardini del sole, di Gaetano Zoccali, Officina Naturalis 2021

Ero piccolina quando vidi per la prima volta Anastasia con Ingrid Bergman.

Avrò avuto circa dieci anni: quell’età in cui alcune cose ci sembrano inspiegabili finché non arrivano mamma o papà a dirci perché e percome, e dopo appaiono perfino scontate.

Mi rimase impresso il passaggio in cui Ingrid Bergman raccontava di una giovane suora che al manicomio le portava qualcosa di delizioso da mangiare: “Un’arancia o dell’uva”.

Come poteva un’arancia essere mai un “regalo”, una “delizia”? Un’arancia, nella mia testa di bambina, era un umile frutto che allagava le nostre campagne invernali di color arancione e riempiva gli alberi fino a farli scoppiare.

“Come sarebbe che le portava un’arancia in regalo, papà?”.

Devo dire che mio padre, forse preso dal film, forse dal viso dolce e severo di Ingrid Bergman, non iniziò una delle sue solite tiritere che partivano dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente e finivano a Emilio Sereni e al capitalismo marxista. Mi disse semplicemente: “Loro non le hanno, l’albero di arance non cresce al freddo. Un’arancia era considerata un dono prezioso. Non ne parliamo un limone, sarebbe stato un regalo da regina!”.

Fu forse la prima nozione di climatologia della mia vita.

Ritrovai, dopo decenni, la descrizione della preziosità degli agrumi nel libro di Kazimiera Alberti L’anima della Calabria, nel quale i limoni diventano quasi frutto magico: il limone che curava tutti i malanni, che disifettava, che proteggeva case e bambini, che si trasformava in essenza divina, in stille benedette dagli dei.

La stessa atmosfera di meraviglia e di infantile stupore si respira nel libro di Gaetano Zoccali (presentazioni non necessarie) I giardini del Sole, recentemente edito da Officina Naturalis. Un libro che nasce da una conversazione con Natale Torre sui frutti esotici acclimatabili in Italia. Non parliamo di agrumi, quindi, di limoni o mandarini particolari, se non occasionalmente, ma di quella che abbiamo sempre chiamato “frutta esotica”, con un termine che includeva e impastava tutto in modo improprio, come il packaging di un brick di bevande con noci di cocco, ananas, soia e carote.

Oltre a fiori e piante ornamentali da clima caldo, il discorso con Torre si sposta velocemente sulla frutta: guava, pomo dei caffri, lichi, passiflora, avocado, mango, annona, papaya, banani, carambola, pitaya, macadamia, pecan, white e black sapote, e innumerevoli altri.

Solo a nominarli il cervello inizia a mulinare in divagazioni poetiche e pensieri di mondi esotici in cui cibi deliziosi si spiccano delle fronde degli alberi o addirittura piovono dal cielo. Ad ogni passaggio del libro, si può dire a ogni riga, si rimane sorpresi, affascinati, trascinati, verso un mondo ricco, opulento, carico di profumi e di squisitezze da far concorrenza all’idea di un paradiso in terra, in cui basta allungare la mano e raccogliere un frutto dal sapore delizioso. La mente scivola senza freni in un vortice di pensieri apparentemente incoerenti, sovrappone volti e storie raccontate da romanzi e film, da saggi su grandi navigatori e cacciatori di piante, traccia su planisferi immaginari rotte ideali per congiungere una pianta all’altra, srotola date e rincorre a spron battuto la sequenza dei nomi botanici, che sembrano custodire tutte queste vicende, pur senza narrarle.

Un nome, da solo, può contenere infinite storie.

Il volto del capitano Blight, quello di Mel Gibson, i riccioli bruni di Lord Banks, i suoi soldi, le sue doti amatorie, lo scolo, la febbre gialla, il fiore di protea in copertina sul libro La confraternita dei giardinieri, la guerra dell’oppio, Gian Lupo Osti che si inerpica sulle montagne della Cina, i romanzi di Conrad, Indiana Jones, i miei avocado tanto odiati dai vicini, arrivati qui in Calabria grazie al narcotraffico.

Tutto questo e altro ancora si attorciglia in testa nel passaggio da occhi a cervello, e la lettura diventa trascinante, costellata da personalissimi ricordi. Ogni pagina sarà sorprendente sia per la quantità di informazioni, sia per le implicazioni che queste comportano.

“Un libro difficile” lo descrive Zoccali. Sì, soprattutto per un certo tipo di pubblico, quello poco avvezzo alle piante subtropicali acclimatate. Se nella testa di chi pratica giardinaggio in clima caldo, al Sud, si forma immediatamente una mappa della “posizione” di dove si potrebbe coltivare questo o quello, è esattamente l’opposto per il pubblico standard dei libri di giardinaggio, molto più nordico e milanocentrico.

Senza contare la numerosa fascia media di lettori e lettrici, per la quale la maggior parte di queste piante sono delle perfette sconosciute. Non in molti pensano che ciò che si trova sui banchi dell’ortofrutta al supermarket o nell’INCI dei prodotti cosmetici, si possa coltivare anche nel proprio Paese. Eppure l’esperienza del kiwi qualcosa dovrebbe avercela insegnata, ed è su questo punto che batte Natale Torre: la coltivazione di frutta esotica da reddito in Italia. Più stazioni d’acclimatazione, più a Nord possibile, in modo da saggiare la resistenza delle piante. Frutti che oggi paghiamo a due euro al pezzo potrebbero veder scendere il loro prezzo fino a essere non proprio economici, ma almeno più abbordabili. Questo arricchirebbe non solo le tavole e la cucina, ma soprattutto le tasche di molti piccoli e medi coltivatori, aziende di trasformazione, conservazione, distribuzione e in generale tutto il comparto alimentare-frutticolo, sia fresco che conservato, sia di piccola produzione che di grande distribuzione.

In questo la visione di Natale Torre è molto precisa e poco incline a favoleggiamenti di zecchini d’oro e campi dei miracoli, ed è perfettamente raccolta dalla penna di Zoccali, che lavora di ascia, martello e cesello per far emergere la personalità dinamica di Torre, senza lasciarsi prendere in un tornado cognitivo, lasciando intatto l’enorme patrimonio informativo contenuto nel libro.

Si parte dal vivaio di Torre, ormai gestito dai figli, e dal suo giardino privato, per il quale si prova quella sorta di “invidia rassegnata” di chi può solo godere della descrizione. Il viaggio si conclude all’Orto Botanico di Palermo. Il giardino privato di Torre conta moltissime piante acclimatate, una rotazione di frutta esotica e “tradizionale” tale da consentire raccolti quotidiani: piante da fiore e da frutto di diversi decenni che testimoniano la sua pionieristica capacità di coltivazione ma soprattutto la sua lungimiranza nell’intravedere nella frutticoltura d’acclimatazione una consistente possibilità economica per il Meridione.

Molte di queste piante sono usate non solo a scopo alimentare, ma anche cosmetico, farmacopeico, in profumeria, altre potrebbero esserlo come biomassa combustibile. La ricchezza del mondo delle piante delle zone calde del globo è tanto vasta da lasciare senza fiato.

Tra i molti libri letti sulle qualità delle piante questo mi ha lasciato dei segni profondi, e lo confesso, ora come ora è difficile che un libro di giardini o di piante m’impressioni più di un catalogo BonPrix, perché oggi i libri sul giardino o sulle piante sono non solo insopportabilmente lagnosi, tristemente privi di ironia, ma perché sono ormai divenuti diaristici e banalotti.

Per me, qui l’esperienza di lettura è diventata l’opposto: c’è così tanto in questo pur piccolo libro che si potrebbe discutere del contenuto per mesi, e la lettura di ogni singola pagina ha corrisposto a una serie di coltellate in pancia.

Coltellate in pancia? Perché?

Primo: mai in un libro sulle piante o i giardini ho letto tante volte la parola “Calabria”. Sapete, è un po’ come questa storia dei neri negli Stati Uniti: se parli di me in un film, seppure come “minoranza”, mi identifico nel personaggio tal dei tali, e pagherò l’abbonamento a Disney+ per poter vedere la serie televisiva. Se invece non parli di me, vedrò la serie piratata da torrent oppure non la vedrò affatto.

La Calabria non compare quasi mai nei libri di giardinaggio italiano, e di certo con colpa, se non con dolo.

Due: perché questo libro non parla solo di piante, di come si coltivano e di quanto sono belle e ammalianti. Né parla delle vecchie storie sulle piante, di anneddotica o di come furono scoperte e messe in coltivazione.

Questo libro parla del FUTURO delle piante, o almeno di uno dei futuri possibili. E assieme a questo, anche di uno dei possibili futuri della Calabria.

Sì, Natale Torre ha un vivaio in Sicilia, non in Calabria. A Messina. Messina-Reggio è quasi una conurbazione geografica, sebbene ci siano sempre state rivalità tra le due città. Moltissime zone della Sicilia sono climaticamente apparentabili e vicine ad alcune della Calabria, specie a quella dove vivo io, tra Riace e Melito, dove le Plumeria hanno forma arborea e la Pachira aquatica vive bene anche nella sala d’attesa del mio veterinario, senza un filo di riscaldamento neanche nelle notti invernali.

Per chi ha una naturale familiarità con le piante citate nel libro (anche solo per il fatto di ipotizzarne l’acquisto o di essersi informati tramite amici che vivono in climi analoghi, su resistenza e necessità idrica), non è quindi affatto difficile, anzi, persino implicito, immaginare a occhi aperti le piante descritte, collocate con una certa precisione geografica, magari in sostituzione di colture abbondanti come gli agrumi, ma non più redditizie.

Un “possibile futuro orticolo” per la Calabria che significherebbe se non la fine dell’immiserimento verso il quale viaggia la mia regione, almeno una barriera d’argine piuttosto alta. Ne verrebbe fuori un romanzo di fanta-orticoltura. Eh sì, perché la verità che in pochi ammettono, pur conoscendola benissimo, è che alla Calabria non verrebbe mai consentito di crearsi una minima stabilità economica. Nulla verrebbe e verrà mai concesso alla Calabria, nulla che non sia all’interno di una pianificazione molto precisa sulla finanza nazionale.

La nostra terra ha uno scopo: essere povera per consentire ad altre regioni di essere ricche, e questa povertà forzosa ci viene imposta con uno degli strumenti sociali e finanziari più potenti che lo Stato Italiano utilizza e manovra: la mafia.

A noi la povertà, a noi la sorte di essere nati in catene, a noi il marchio, a noi l’onta. E di più: a noi rimane l’impossibilità di una vita dignitosa nella nostra stessa terra. Dilaniata, fatta a pezzi, sbranata dalla nazione da cui è posseduta per tributare forza-lavoro, criptosalariato, bacino di acquisto e offrire dimora mediatica alla mano che è strumento di tutto ciò, a esclusivo beneficio delle regioni dominanti, che godono della loro ricchezza come se realmente fosse meritata e non semplice risultato algebrico di sottrazione.

Ed è più che ovvio che ogni calabrese raziocinante si senta coltellate in pancia leggendo questo libro.

Gli altri sogneranno invece il paradiso in terra.

Per favore, siatene grati.

Vendo libri usati

Vendo alcuni libri, usati o come nuovi.
Dato che mi viene faticoso fare un elenco completo, ho fotografato i dorsi delle copertine. Alcuni sono introvabili e da collezione.
Di seguito inserisco i titoli di quelli che vendo in prima battuta, ma se siete interessati a qualcosa che avete visto in foto, non esistate a contattarmi.

Il paesaggio nella storia dell’arte – Nils Büttner – Jaca Book – cartonato, sovracoperta- 120 euro – come nuovo
scheda libro

Gli horti dei papi – Alberta Campitelli – Jaca book- cartonato, sovracoperta- 100 euro – come nuovo
scheda libro

La città gioiosa – Garzanti – Civitas Europaea – cartonato, sovracoperta, fuori catalogo – 25 euro- come nuovo
scheda libro

Giardini in verticale – Anna Lambertini – Verba Volant – Ed. cartonata con sovracoperta, fuori catalogo, da collezione – come nuovo 60 euro

A Garden of Eden. Masterpiece of botanical illustrations – H. Walter Lack- Taschen – cartonato, con sovracoperta, ed. 25° anniversario, da collezione, come nuovo, 40 euro
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Il libro delle peonie arboree – Gian Lupo Osti- Allemandi- Cartonato, con sovracoperta, letto ma in ottime condizioni, fuori catalogo, introvabile, 150 euro

Elementi di patologia vegetale – Giuseppe Belli- copertina flessibile- 40 euro- come nuovo
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Volume III dell’enciclopedia Utet “La cultura Italiana” – Casa, città, paesaggio – copertina rigida senza sovracoperta trasparente – 100 euro

Paradise of exiles. The anglo-american garden of Florence – Katie Campbell – copertina rigida con sovracoperta – 100 euro- come nuovo
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Storie di giardini – Guido Giubbini – voll 1 e 2- copertina rigida con sovracoperta, fuori catalogo, introvabili– 200 euro vol 1 – 150 vol 2- Come nuovi- Sconto disponibile se acquistati insieme.

L’architettura dei giardini d’occidente- Mosser, Teyssot- Electa – copertina flessibile, introvabile – 80 euro – usato con sottolineature

Il cipresso. Dalla leggenda al futuro – Panconesi – Ottime condizioni – 80 euro.

Se volete informazioni sullo stato dei libri, fotografie, informazioni su spese di spedizione, contattatemi attraverso il modulo.



La botanica de’ fiori dedicata al bel sesso – Olschki 2018

La botanica de’ fiori dedicata al bel sesso
a cura di Simona Verrazzo

Introduzione di Lucia Tongiorgi Tomasi e Luigi Zangheri
Premessa di Duccio Tongiorgi
Olschki Editore 2018


A dispetto del titolo, volutamente fatuo e amabile, definire questo libro è assai complicato.
Come spesso accade in libri poco letti o poco studiati, apparentemente riservati a un pubblico di amatori o di collezionisti, in questo volume si incrociano, come file di formiche indaffarate, numerosi fatti che abbracciano la storia delle scienze e della divulgazione scientifica, questioni sociali, femminismo e –non ultima- la storia dell’editoria specialistica preunitaria.
Argomenti che occupano intere biblioteche, se considerati singolarmente: ecco perché i libri che in qualche modo ne sono un distillato rivestono un così interesse così carico di spirito indagatore e la loro ripubblicazione in tempi moderni assume un’importanza tutt’altro che marginale.

Il testo è la “gradevole operetta” ben descritta dalla quarta di copertina: in sé è poco significativa e persino fuorviante da un punto di vista scientifico. Frutto di traduzioni dal francese e rimanipolazioni da parte del poligrafo Giuseppe Compagnoni, abilissimo divulgatore di materie scientifiche per un pubblico non specializzato, in particolar modo femminile, pubblicata da Sonzogno in tre parti attorno al 1828.
Ma questo è solo un aspetto della complessa situazione che il libro racchiude in neanche 100 pagine.
Abbiamo una tortuosa vicenda editoriale, sulla cui pista si è messa la giornalista Simona Verrazzo. Emerge chiaramente come l’editoria dell’epoca fosse tesa alla traduzione o trasposizione di libri stranieri, fatto ancora attualissimo in Italia, non solo per la narrativa, ma particolarmente insistente in settori del “fare” poco praticati, tra cui il giardino o il giardinaggio, che spesso in libreria finiscono sotto il cartellone “hobby e tempo libero” tra il decluttering e il manuale di cucina zodiacale. L’editoria italiana si affida a traduzioni di libri che hanno già riscosso un certo successo nella ristretta cerchia di appassionati di giardino piuttosto che rischiare su nuove voci o impegnare somme per sostenere studi a lungo termine, come quelli botanici o giardineschi.

Nel 1800, secolo in cui la scienza era divenuta una forma di intrattenimento per la classe borghese (cfr. L’invenzione delle nuvole, Richard Hamblyn, Rizzoli 2001), e periodo in cui il fiore era padrone di ogni decorazione, dall’abito all’ambiente domestico, il pubblico femminile veniva sempre più coinvolto nella materia del giardino. Iniziavano infatti a moltiplicarsi i vivai, grazie al forte decremento della tassa sul vetro e all’avanzamento industriale, che consentiva produzione di lastre più sottili e di maggiori dimensioni a prezzi competitivi. In concomitanza con l’arrivo in Europa di numerose specie esotiche, il mercato fu letteralmente inondato di piantine che i vivaisti non sapevano più come smerciare. Fu l’epoca dei parterre fioriti e dei “bedding” di annuali da fiore, la cui sistemazione era graziosamente lasciata alle donne, fino a quel momento quasi del tutto escluse dalla pratica orticola (cfr. Il giardino di Elizabeth, Elizabeth von Arnim, Fazi), specie se di classe agiata.

Il cinquanta per cento del mercato, fino a quel momento emarginato, veniva reintegrato per ragioni finanziarie, e il viatico di questo rientro fu il fiore. In linea generale tutto ciò che era colorato, fiorito, transitorio o piccolo, facile da maneggiare o semplice da coltivare, veniva indirizzato alle donne.
Ho sentito o letto spesso frasi come “giardinaggio al femminile” o “non è una pianta per donne”, disgraziatamente anche a livello accademico o professionale, con la pretestuosità che le donne non siano intellettualmente interessate alla botanica scientifica o sufficientemente forti e resistenti da lavorare la terra e sollevare pesi. Evidentemente chi dice o scrive queste sciocchezze da webetismo qualunquista dimentica o peggio, nega, il fatto che la donna è sempre stata una potentissima forza-lavoro nel corso dei millenni, e che sollevare pesi anche notevoli o lavorare nei campi per vite intere non sono affatto romanticherie da fotografia in bianco e nero o da sceneggiati come La casa nella prateria, ma realtà di cui ogni nonna, italica o meno, potrebbe raccontare in prima persona, dalle gelsominaie calabresi alle mondine romagnole, alle sigaraie toscane (e habanere), alle portatrici di limoni nel sorrentino.
Fu quindi necessario proporre alle donne la disciplina botanica in modo gradevole e leggero, spiegando la morfologia dei fiori basata sulla sessualità già descritta da Linneo, cosa che terrorizzava gli editori, non già –forse- per timore che il pubblico femminile ne rimanesse scosso, quanto per le riserve sociali nel coinvolgere le donne in fatti che in qualche modo riguardassero la sessualità e la scienza.

L’opera in sé non ha scivoloni in metafore o leziosismi inutili, anzi, avanza spiegazioni dettagliate (per l’epoca) degli organi dei fiori, dei sistemi riproduttivi, della formazione dei semi e dei frutti, anche se spesso imprecise o confuse. Assieme a queste nozioni sono presenti piccoli aneddoti piuttosto diffusi nella letteratura floricola ottocentesca, aneddoti non sempre corrispondenti al vero, ma che per gli appassionati sono diventati delle piccole e gradevoli leggende metropol-giardinesche, come quella dei soldati napoleonici avvelenati da un capretto cotto con uno spiedo di oleandro. Purtroppo per i non specialisti questo corpus di aneddotica, tramandato fino a oggi, ha assunto le fattezze di verità storica, in particolare per piante curative o velenose, generando immotivate paure nei confronti delle piante ornamentali (emblematico il caso dell’oleandro).
Non essendo certi della ricezione del pubblico, gli editori Sonzogno hanno diviso la pubblicazione in tre volumetti, qui riportati integralmente. La casa editrice Olschki, in un recupero filologico complesso e molto stratificato, ha prestato particolare cura all’apparato iconografico, a partire dal disegno di copertina -che è stato variato più volte nel corso della vicenda editoriale di questi volumetti- e alle tavole interne, che raffigurano fiori o composizioni all’epoca realizzate con una tecnica chiamata “tampone colorato” che caratterizza fortemente i decori floreali ottocenteschi (tanto che è stata imitata in vari modi nel primo exploit del découpage).

Al termine compaiono delle belle tavole dedicate al cosiddetto “orologio di Flora”, una sorta di tabella di orari di fioritura delle piante.
Un volume che ameranno tutti coloro che prediligono andare direttamente alla fonte e non al riassunto, per comprendere come venivano veicolate alle donne discipline fino a quel momento egemonizzate dagli uomini o chi ama molto la bibliografia, che troverà questa raccolta interessantissima per la storia editoriale che racconta tra le righe, che ci rivela molto sull’editoria preunitaria e –paradossalmente- anche su quella contemporanea.

Scheda del libro sul sito Leo S. Olschki

Mater florum – Lorenzo Fabbri, Olschki Editore 2019

Mater Florum. Flora e il suo culto a Roma di Lorenzo Fabbri
Olschki Editore, Firenze 2019

Con questo volume Lorenzo Fabbri, storico delle religioni classiche e attento studioso dei legami tra culti antichi e botanica, aggiorna completamente le indagini finora compiute su Flora, una divinità considerata minore nella religione romana. Nessun libro era stato dedicato interamente allo studio di Flora, anche se il suo culto era stato più volte analizzato da eminenti studiosi e studiose, ma sempre nell’ambito di lavori più ampi, che consideravano gran parte del pantheon romano o alcuni aspetti di esso, come la numismatica o l’archeologia (cui nel volume si fa riferimento quali importanti fonti di informazioni).
È proprio il fatto che Flora sia sempre stata considerata una divinità minore ad averla collocata in posizione marginale negli studi sul mondo latino, ma da quanto emerge dalle prove materiali e dai reperti archeologici presi in esame, via via scopriamo una realtà molto meno semplicistica di quanto si possa immaginare. Flora era una divinità così importante, infatti, da dare il suo nome stesso alla città di Roma (che ne aveva ben tre, di cui uno era segreto, l’altro sacrale, ed era appunto “Flora”).
Fabbri ripercorre le vicende del culto della dea con meticolosa attenzione, fin da quando Varrone ne fa menzione, elencandola come divinità sabina. In realtà non è ben chiaro se Flora fosse o no una divinità sabina, più probabilmente era una dea adorata nella zona dell’Italia centrale prima della nascita di Roma, e a seconda delle popolazioni e dei luoghi, assumeva configurazioni leggermente differenti. L’analisi della frase del De lingua latina: “Et ara Sabinum linguam olent”, da cui originerebbe la sabinità della dea Flora, è di difficile interpretazione e potrebbe nascondere un’allusione al fatto che fu Tito Tazio, re sabino e poi re di Roma, a introdurre il culto di Flora. Il verbo “oleo” infatti è usato in modo ambiguo, e potrebbe indicare sia l’uso di bruciare oli e incensi, ma anche il fatto che molti culti –tra cui quello di Flora- furono promossi, introdotti o solidificati proprio dal re sabino Tito Tazio. Tuttavia non si può escludere che Flora fosse già da tempo venerata nell’Urbe, e che Tito Tazio abbia solo decretato la libertà di erigere templi e are votive. Tutto farebbe infatti pensare che Flora sia una divinità antica, non già una replica delle divinità elleniche, ma un culto autonomo, preesistente nell’Italia, con alcune varianti. Anche qui viene meno uno dei cliché sulle divinità femminili legate alla natura, come varie rivisitazioni o fotocopie, più o meno sbiadite, della Grande Madre originaria, legate indissolubilmente alla fertilità. A Flora non vengono attribuiti figli (se non i fiori stessi), e quindi assume dei paradigmi suoi propri che –a ben vedere- la rendono una divinità davvero unica nel pantheon romano.
Sembra quindi chiaro che divinità assimilabili alla Flora romana fossero celebrate da tempo da gran parte delle popolazione italiche. Osci, Vestini, Sanniti, avevano divinità analoghe o termini simili (“flos” è una radice comune alle lingue dell’Italia centrale).

La lettura, seppur trattata con linguaggio accademico e forbito, diventa quasi un giallo sulle tracce di una divinità che oggi immaginiamo carica di fronzoli e persino un po’ fatua, ma che inizialmente era inclusa nella sfera di Cerere, essendo il suo ruolo quello di presiedere alla fioritura delle piante eduli, principalmente del grano (o almeno delle graminacee commestibili in epoca romana) e in generale delle piante utili anche se non alimentari (tintorie, o per la realizzazione di utensili).
Anche il lettore non esperto non può che rimanere ammirato dalla lucidità dell’autore nell’interpretazione delle fonti, alcune delle quali scartate perché non più valide, altre in sospeso poiché inconcludenti o poco determinanti, altre messe sotto la lente di ingrandimento in quanto finora sottovalutate o trattate in maniera frettolosa, altre ancora riportate ma non affidabili, poiché frutto di invenzione poetica, come lo splendido dialogo tra Ovidio e la dea stessa che racconta la sua storia e la nascita di Marte. Rimangono questioni aperte, ovviamente, e di difficile soluzione, ma l’autore non tenta forzature di sorta, limitandosi a esporre fatti.
Si intuisce il lavoro di paziente ricerca e la capacità di focalizzare l’analisi sulle fonti corrette, senza dispersioni. Le argomentazioni sono cogenti e la lettura diventa appassionante –almeno per chi ama la saggistica- anche se non si è specialisti e il latino dei tempi del liceo è ormai traballante.
Viene meno, pagina dopo pagina, l’idea comune che Flora sia una dea più afferente alla sfera di Venere, nella quale viene collocata in periodo più tardo anche per via della licenziosità delle feste a lei dedicate, i Floralia. Flora fu infatti una divinità molto stigmatizzata dal cristianesimo, che la additava come meretrice, in particolare Tertulliano e Agostino. La mitezza dell’autore si modera nel definire “maligne” alcune osservazioni di apologeti cristiani che evidentemente miravano a degradare usi importanti delle religioni antiche.
I Floralia erano sì festività orgiastiche, come spesso accadeva nell’antica Roma, ma da molti elementi sembra che la componente mimica, teatrale, sia stata poco presa in considerazione. Non si sa quindi con certezza se fossero consumati atti sessuali (anche se lo si può presumere, almeno nel contorno sociale), ma nella celebrazione dei Floralia era molto importante l’aspetto della messa in scena, del godimento dei sensi, ludico, il divertimento anche un po’ godereccio e popolaresco. Di certo Flora era una divinità maggiormente adorata dai ceti sociali plebei. In definitiva si ricostruisce il ritratto di una dea allegra, giocosa, ma anche seduttiva. I suoi ruoli, oltre a quello principale di proteggere l’antesi dei fiori di piante utili e commestibili, erano numerosi: non ultimo quello finalizzato al lucro: Varrone consiglia infatti agli agricoltori di piantare anche fiori ornamentali da vendere sia come decorazione domestica, sia per i serti floreali, sia per adornare altari e giardini privati e pubblici. Flora era associata in modo indiretto alla produzione del miele e della cera (la cui tutela diretta era riservata a Mellona) poiché ella forniva alle api il nutrimento per produrre il miele, un alimento primario per i romani. In poche parole Flora è la divinità a cui ci si appella per ottenere tutto ciò che dai fiori si può ricavare, utile o ornamentale.
Fabbri dimostra la sua tesi attraverso una impressionante mole dei dati e una straordinaria conoscenza della materia, ripercorrendo i mutamenti dei culti a lei dedicati.

Inizialmente divinità che potremmo quasi definire parca, a cui ci si appellava perché le piante commestibili fiorissero nel momento giusto dell’anno, senza quindi che fiori subissero le ingiurie del clima e procedessero regolarmente alla fruttificazione, celebrata in anni di carestia o in periodi in cui gli alimenti scarseggiavano, sempre associata a Zefiro (che fa pensare all’impollinazione anemofila), progressivamente Flora assume anche il ruolo di protettrice dei fiori puramente ornamentali, delle ghirlande e delle corone, fatto assolutamente non secondario nella cultura romana, tanto che Claudio Saturnino dedicò ai serti un’opera purtroppo andata perduta, De coronis. Sappiamo comunque che l’uso delle corone floreali era riservato alle donne, con l’eccezione dei Salii, e che erano solitamente usate come omaggio votivo ai Lari e ai Mani, o come ornamento dei sepolcri. Il suo culto si fa via via più raffinato, ricco, e teso a imitare l’ellenismo: Flora si delinea quindi come una figura mutevole, non monolitica ma capace di assumere morfologie differenti sia a seconda dei popoli che l’hanno venerata, sia a seconda delle epoche storiche. Il suo culto era molto diffuso anche fuori dalla penisola, in Algeria, Libia, Croazia, e forse nella Germania Superiore.
Lo spostamento nella sfera di Venere è abbastanza chiaro da Lucrezio, finché il legame con Cerere sarà quasi del tutto compromesso, fino a portare Flora a essere indicata come magistra Veneris o ministra Veneris (sempre con accezione negativa) dagli apologeti cristiani.

L’analisi però non accenna al perché una dea così importante e il cui culto era molto diffuso, sia quasi scomparsa dalla memoria storica o non abbia subito il tipico processo di sincretismo che ha portato molte divinità pagane, latine o nordiche, a godere di festività calendariali nella religione cristiana. Flora rimane quasi un simulacro di sé stessa, celebrata dal Botticelli, da Poussin, Tiepolo, Waterhouse, sinonimo di bellezza femminile, ricchezza e abbondanza, ma la sua storia sembra affievolirsi come un piccolo fuoco alle prime piogge. Di certo un deterrente fu il diffondersi del cristianesimo e la persecuzione della Chiesa Cattolica nei confronti delle altre religioni, ma questo basta a spiegare la scomparsa di Flora, una dea così importante che presiedeva alla fioritura e quindi alla abbondanza alimentare? Probabilmente sì – e se così è- si deve fare i conti su quanto violento e distruttivo sia stato il cristianesimo-cattolicesimo nella storia dell’Europa.

Il volume di circa 270 pagine è corredato da un bell’apparato iconografico finale, su carta lucida, con riproduzioni delle monete, quadri, dipinti, statue e altri reperti presi in considerazione durante la disamina, e di una bibliografia ricchissima.