Walter Benjamin (che qualcuno definì un “imbucato” della filosofia) propose di aggiungere al “valore d’uso” e al “valore di scambio” della merce quello di “esposizione”. Nei Passages codifica la regola secondo cui una merce acquista valore aggiunto per il semplice fatto di essere esposta.
E’ un principio altamente riconosciuto, sotto altre vesti, in molti campi differenti; anche in architettura, ad esempio. Prendi il principio basilare del Restauro Architettonico moderno, che prevede che l’opera non sia soltanto tutelata, ma resa fruibile e visibile, anche quando questo implica un parziale, inevitabile, deterioramento della stessa. Che diventa sostenibile nel momento in cui permette all’opera di esplicitare un valore che altrimenti è solo potenziale.
Il succo di un discorso lungo, che rimanda al dualismo tra visibilità e cognizione, ben sintetizzato dalla frase “ciò che non si vede (–> di cui non si ha cognizione), non esiste”.
Lo stesso si applica per i dipinti: tempo fa Sgarbi, spiegò che i quadri, soprattutto antichi, assumevano un maggior valore economico se erano piacevoli da esporre in salotto ( e avevano la giusta forma e dimensione per poterlo fare). Spiegò che per questa ragione riuscì ad acquistare un dipinto di un atista importantissimo ( mi pare Tiziano) solo perchè rappresentava il ritratto di un vecchio orbo e quindi costava -relativamente- meno.
A dire il vero ero un po’ incerta se rispondere o no. Da un lato ho paura di fare la maestrina con la piuma sul cappello, ma dall’altro non mi piace che si possa pensare che trascuro il blog se credo che vi sia un’imperfezione logica.
Premesso che la frase di Benjamin mi suggeriva tutt’altro (il modo che tutti noi, nessuno escluso, abbiamo di esporre le nostre cose, per il cui tramite esponiamo noi stessi agli altri, influenzandone il giudizio su di noi)mi sembra più che evidente che ci sia stato un fraintendimento di termini e che si sia parlato non del valore di esposizione (concetto non accreditato dall’economia), ma del valore d’uso e della funzione pratica.
Restaurare un edificio, poniamo ad esempio una chiesa, pur compromettendone i caratteri iniziali, in modo che sia di nuovo fruibile, significa non esporla al pubblico, ma ripristinarne la funzione pratica, cioè -in questo caso- accogliere i fedeli.
Diverso è l’esempio del quadro. Ma credo che Benjamin avesse in testa un altro tipo di idea, collegata al feticismo delle merci, degli oggetti, di cui il flaneur è succube e agente. Questo feticismo, chiamato sex-appeal dell’inorganico, si materializza nel mannequin, soglia tra umano e inumano, quasi un hybris.
Mi spiego. Non avevo dubbi che ci sarebbe stato il fraintendimento. C’è sempre il fraintendimento.
Mi aspettavo infatti che avresti considerato la mia affermazione come proveniente da un punto di vista che confonde il valore espositivo con quello dell’uso e della fruizione, e invece ti stai perdendo il nesso, evidentissimo, tra le due cose, e stai compiendo una superficiale sconnessione semantica relativamente alla parola “uso”, che poveretta deve avere una vita davvero difficile. Non è bastata la chiosa finale a rimettere ordine, ahimè. E’ proprio vero che la comunicazione è tutto, dovrò rivedere la mia.
Quanto alla tua personale interpretazione dell’idea di Benjamin, è interessante, ma resta, appunto, una tua personale interpretazione.
Beh, se te l’aspettavi avresti potuto far qualcosa perchè non accadesse.
Nella mia proposizione iniziale mi sono attenuta alla definizione di valore d’uso data dall’economia, che ha codificato questo termine, e cioè “l’obbiettivo che si raggiunge (o si pensa di poter raggiungere) tramite il possesso di un certo bene” (es. mi compro una coperta così non avrò freddo). Accanto ad esso ci sono altre forme di valore, come quello di scambio, l’assoluto, il marginale, che qui non ci interessano.
Sull’uso sono stati scritti molti libri, è un po’ come la chemioterapia e la poesia: senti dieci persone e ti diranno dieci cose diverse, la battaglia infuria a livelli ben più alti del nostro. Il “fraintendimento” è prassi. Perciò ci tengo ad utilizzare i termini con il significato che per loro hanno codificato discipline centenarie. Ho letto l’anno scorso un bel libro a tal proposito: “La vita delle cose” di Remo Bodei, che sfata alcuni miti e che secondo me è una bella risposta a volumi postmoderni, come “Il sistema degli oggetti” di Baudrillard.
Il nesso tra l’uso e la fruizione mi è chiarissimo: l’arte si configura anche come “oggetto” sensibile, tramite il quale l’artista opera una modificazione della struttura dell’arte come si presenta in quel dato momento della sua evoluzione in quel dato luogo. Senza un “oggetto” sensibile, quindi visibile, o meglio “esperibile”, l’intervento semantico sulla struttura dell’arte e sul processo evolutivo non ci può essere, e su questo sono perfettamente d’accordo con te nel “berkleysmo” finale della tuo primo intervento.
Ci tenevo a puntualizzare qualcosa che mi sembrava leggermente fuori posto, non volevo dare adito ad una polemica.
Ora ho capito meglio quello che volevi dire, grazie.
Leggere libri, poi, serve anche a farsi venire delle idee proprie, per quanto personali…sembra che la cultura ne tragga giovamento e che la cosa non sia ancora sanzionata dal codice civile. Lasciamo Berlusconi al governo per qualche altro anno e certamente lo sarà.
Accade sempre, purtroppo, qualunque sia il modo. O l’interlocutore. Tramite un mezzo così parziale e lacunoso,poi, mi parrebbe impossibile se fosse diversamente. Ameno che non si sia massimamente empatici, ma non è certo il nostro caso.
Io spero che tu faccia emergere sempre più idee tue proprie, perchécome ho avuto modo di dirti in altra sede il loro confronto mi è molto utile, però rileggi il contenuto del tuo post e spiegami con quale ragionamento doppiotorto e carpiato si sarebbe potuti arrivare a intuire che stavi pensando quelle parole nel momento in cui potessero suggerirti “il modo che tutti noi, nessuno escluso, abbiamo di esporre le nostre cose, per il cui tramite esponiamo noi stessi agli altri, influenzandone il giudizio su di noi”.
Pensiero verso il quale ribadisco il mio personale interesse, ma ritengo che ci sia una sostanziale differenza, nell’esporre, tra l’essere soggetto esponente o oggetto esposto, come mi pare di intendere dal post iniziale: dalla cui osservazione si può desumere che l’attribuzione di valore non è funzione né dell’intenzionalità del soggetto esponente, né intrinseca dell’oggetto esposto, ma derivante da una condizione “modale” che non è sostanziale né nel soggetto né nell’oggetto.
Maddai, non è che mi aspettassi che qualcuno afferrasse al volo ciò che io ho intuito riguardo ad un concetto espresso da un altro (in questo caso Benjamin), era uno spunto che davo a me stessa e agli altri, nell’ideologia del “comunismo dei consigli” di Guy Deborde (psiù psiù).
Tu ci hai costruito sopra un bel pensiero, che peraltro condivido, ma secondo me hai usato una terminologia sbagliata (confusione tra valore d’uso e funzione pratica). Tutto qui, accidenti ti colgano, non volevo mica aprire un papiro del Mar Morto!
Ho puntualizzato nella maniera tignosa e fastidiosa che ben mi conosci e di cui sei anche tu perfettamente capace, tanto perchè far finta di litigare con te è una delle cose che mi diverte di più (in realtà sono sempre dalla tua tua parte, ma tu non lo sai perchè sei un cretino).
Riguardo poi all’ultima frase della tuo commento, hai perfettamente ragione, e -porca vacca- mi confermi i giardini poveri e tutta la possibile “irregolarità” del giardinaggio!
Chapeau per l’esposizione, monsieur, se io sapessi tutto quello che sa lei, sarei ricca e famosa…
E’ un principio altamente riconosciuto, sotto altre vesti, in molti campi differenti; anche in architettura, ad esempio. Prendi il principio basilare del Restauro Architettonico moderno, che prevede che l’opera non sia soltanto tutelata, ma resa fruibile e visibile, anche quando questo implica un parziale, inevitabile, deterioramento della stessa. Che diventa sostenibile nel momento in cui permette all’opera di esplicitare un valore che altrimenti è solo potenziale.
Il succo di un discorso lungo, che rimanda al dualismo tra visibilità e cognizione, ben sintetizzato dalla frase “ciò che non si vede (–> di cui non si ha cognizione), non esiste”.
Lo stesso si applica per i dipinti: tempo fa Sgarbi, spiegò che i quadri, soprattutto antichi, assumevano un maggior valore economico se erano piacevoli da esporre in salotto ( e avevano la giusta forma e dimensione per poterlo fare). Spiegò che per questa ragione riuscì ad acquistare un dipinto di un atista importantissimo ( mi pare Tiziano) solo perchè rappresentava il ritratto di un vecchio orbo e quindi costava -relativamente- meno.
A dire il vero ero un po’ incerta se rispondere o no. Da un lato ho paura di fare la maestrina con la piuma sul cappello, ma dall’altro non mi piace che si possa pensare che trascuro il blog se credo che vi sia un’imperfezione logica.
Premesso che la frase di Benjamin mi suggeriva tutt’altro (il modo che tutti noi, nessuno escluso, abbiamo di esporre le nostre cose, per il cui tramite esponiamo noi stessi agli altri, influenzandone il giudizio su di noi)mi sembra più che evidente che ci sia stato un fraintendimento di termini e che si sia parlato non del valore di esposizione (concetto non accreditato dall’economia), ma del valore d’uso e della funzione pratica.
Restaurare un edificio, poniamo ad esempio una chiesa, pur compromettendone i caratteri iniziali, in modo che sia di nuovo fruibile, significa non esporla al pubblico, ma ripristinarne la funzione pratica, cioè -in questo caso- accogliere i fedeli.
Diverso è l’esempio del quadro. Ma credo che Benjamin avesse in testa un altro tipo di idea, collegata al feticismo delle merci, degli oggetti, di cui il flaneur è succube e agente. Questo feticismo, chiamato sex-appeal dell’inorganico, si materializza nel mannequin, soglia tra umano e inumano, quasi un hybris.
Non avevo dubbi.
Mi spiego. Non avevo dubbi che ci sarebbe stato il fraintendimento. C’è sempre il fraintendimento.
Mi aspettavo infatti che avresti considerato la mia affermazione come proveniente da un punto di vista che confonde il valore espositivo con quello dell’uso e della fruizione, e invece ti stai perdendo il nesso, evidentissimo, tra le due cose, e stai compiendo una superficiale sconnessione semantica relativamente alla parola “uso”, che poveretta deve avere una vita davvero difficile. Non è bastata la chiosa finale a rimettere ordine, ahimè. E’ proprio vero che la comunicazione è tutto, dovrò rivedere la mia.
Quanto alla tua personale interpretazione dell’idea di Benjamin, è interessante, ma resta, appunto, una tua personale interpretazione.
Beh, se te l’aspettavi avresti potuto far qualcosa perchè non accadesse.
Nella mia proposizione iniziale mi sono attenuta alla definizione di valore d’uso data dall’economia, che ha codificato questo termine, e cioè “l’obbiettivo che si raggiunge (o si pensa di poter raggiungere) tramite il possesso di un certo bene” (es. mi compro una coperta così non avrò freddo). Accanto ad esso ci sono altre forme di valore, come quello di scambio, l’assoluto, il marginale, che qui non ci interessano.
Sull’uso sono stati scritti molti libri, è un po’ come la chemioterapia e la poesia: senti dieci persone e ti diranno dieci cose diverse, la battaglia infuria a livelli ben più alti del nostro. Il “fraintendimento” è prassi. Perciò ci tengo ad utilizzare i termini con il significato che per loro hanno codificato discipline centenarie. Ho letto l’anno scorso un bel libro a tal proposito: “La vita delle cose” di Remo Bodei, che sfata alcuni miti e che secondo me è una bella risposta a volumi postmoderni, come “Il sistema degli oggetti” di Baudrillard.
Il nesso tra l’uso e la fruizione mi è chiarissimo: l’arte si configura anche come “oggetto” sensibile, tramite il quale l’artista opera una modificazione della struttura dell’arte come si presenta in quel dato momento della sua evoluzione in quel dato luogo. Senza un “oggetto” sensibile, quindi visibile, o meglio “esperibile”, l’intervento semantico sulla struttura dell’arte e sul processo evolutivo non ci può essere, e su questo sono perfettamente d’accordo con te nel “berkleysmo” finale della tuo primo intervento.
Ci tenevo a puntualizzare qualcosa che mi sembrava leggermente fuori posto, non volevo dare adito ad una polemica.
Ora ho capito meglio quello che volevi dire, grazie.
Leggere libri, poi, serve anche a farsi venire delle idee proprie, per quanto personali…sembra che la cultura ne tragga giovamento e che la cosa non sia ancora sanzionata dal codice civile. Lasciamo Berlusconi al governo per qualche altro anno e certamente lo sarà.
Accade sempre, purtroppo, qualunque sia il modo. O l’interlocutore. Tramite un mezzo così parziale e lacunoso,poi, mi parrebbe impossibile se fosse diversamente. Ameno che non si sia massimamente empatici, ma non è certo il nostro caso.
Io spero che tu faccia emergere sempre più idee tue proprie, perchécome ho avuto modo di dirti in altra sede il loro confronto mi è molto utile, però rileggi il contenuto del tuo post e spiegami con quale ragionamento doppiotorto e carpiato si sarebbe potuti arrivare a intuire che stavi pensando quelle parole nel momento in cui potessero suggerirti “il modo che tutti noi, nessuno escluso, abbiamo di esporre le nostre cose, per il cui tramite esponiamo noi stessi agli altri, influenzandone il giudizio su di noi”.
Pensiero verso il quale ribadisco il mio personale interesse, ma ritengo che ci sia una sostanziale differenza, nell’esporre, tra l’essere soggetto esponente o oggetto esposto, come mi pare di intendere dal post iniziale: dalla cui osservazione si può desumere che l’attribuzione di valore non è funzione né dell’intenzionalità del soggetto esponente, né intrinseca dell’oggetto esposto, ma derivante da una condizione “modale” che non è sostanziale né nel soggetto né nell’oggetto.
Maddai, non è che mi aspettassi che qualcuno afferrasse al volo ciò che io ho intuito riguardo ad un concetto espresso da un altro (in questo caso Benjamin), era uno spunto che davo a me stessa e agli altri, nell’ideologia del “comunismo dei consigli” di Guy Deborde (psiù psiù).
Tu ci hai costruito sopra un bel pensiero, che peraltro condivido, ma secondo me hai usato una terminologia sbagliata (confusione tra valore d’uso e funzione pratica). Tutto qui, accidenti ti colgano, non volevo mica aprire un papiro del Mar Morto!
Ho puntualizzato nella maniera tignosa e fastidiosa che ben mi conosci e di cui sei anche tu perfettamente capace, tanto perchè far finta di litigare con te è una delle cose che mi diverte di più (in realtà sono sempre dalla tua tua parte, ma tu non lo sai perchè sei un cretino).
Riguardo poi all’ultima frase della tuo commento, hai perfettamente ragione, e -porca vacca- mi confermi i giardini poveri e tutta la possibile “irregolarità” del giardinaggio!
Chapeau per l’esposizione, monsieur, se io sapessi tutto quello che sa lei, sarei ricca e famosa…
..e poi mi tiri su l’audience…