Mantenere lo status quo?

Seriamente, nel 2009 mi aspettavo che qualcosa sarebbe cambiato nel giardino italiano, e oggi posso aggiungere internazionale.
Mi aspettavo mille cose, credo in maniera ottimistica. Mi aspettavo che in Italia si sarebbe creata una discussione attorno al giardino, che ci si sarebbe liberati dall’insostenibile totem della brodura, che si sarebbe ripreso il filo del discorso del giardino come forma d’arte, credevo che avremmo avuto molti più parchi pubblici, molti più giovani architetti e paesaggisti veramente capaci e originali, che nascesse una facoltà indipendente di Paesaggismo o che i corsi di studi vincolati a Ingegneria e Architettura si rendessero autonomi. Credevo che -nel bene o nel male- anche per i piccoli centri come il mio paesello, avere giardini pubblici e alberature mature, particolari e ben curate potesse essere motivo d’orgoglio e diventare una pubblicità. Credevo che si sarebbe creata una sottile competizione tra i vicini per il giardino più bello, credevo che la manualistica stupida sarebbe diminuita e aumentata quella intelligente, credevo che la saggistica sul giardino potesse proporre delle riflessioni consistenti.
Tutto questo non s’è avverato, non è successo niente. Lo scossone più violento sono stati gli onopordi di Clèment, provenienti da oltralpe, e anche lì, poi, che questo abbia prodotto un minimo cambiamento non direi.

Le cose sono davvero cambiate nel mondo alimentare, e quella che liquidai come “la moda degli orti” sta assumendo connotazioni sempre più solide e autentiche: forse un reale punto di partenza. Ma l’orto è l’orto, il giardino è il giardino.

Gli eventi si sono susseguiti con una certa rapidità che non mi attendevo. La nascita dei blog, la moda dell’orto in terrazza (quella sì, era solo una moda), un enorme consolidamento di posizione delle graminacee e di tutto il mondo botanico oudolfiano, giardini pubblici dei grandi architetti del paesaggio fatti col moplen, l’appiattirsi delle fiere specializzate, un’editoria totalmente piegata al consumo, la fotografia che s’è mangiata i giardini fino all’osso, i video che hanno spazzato via anche le ossa, i social che hanno reso anonimo anche il più bello tra i giardini e Facebook pietra tombale di ogni speranza.

Con questo deprimente abbassamento del livello critico e di riflessione sulla pratica legata al giardino, necessariamente risale ciò che è slegato dall’idea e invece legato alla manualità (che qui viene definita “pratica hobbistica del giardinaggio”, a differenza della creazione di un giardino, denominata “kepoiesi”). Naturalmente la struttura giardinicola più legata alla manualità colturale è la brodura nelle sue infinite, ripetitive, declinazioni.

E quando un sistema di produzione artistica si ferma all’elaborato pratico, è sostanzialmente perché manca una spinta verso un cambiamento o perché le spinte esistenti sono inefficaci/insufficienti o non hanno una forza in grado di opporsi allo status quo. Sappiamo tutti che la spinta economica è la più forte, una pur piccola variazione nell’assetto economico internazionale condurrebbe a enormi modifiche nell’ambito giardinicolo: sta succedendo esattamente questo in campo agricolo, dove poteri fortissimi stanno combattendo su numerosi fronti ognuno con interessi diversi ma sovrapponibili, e cosa succede? In formato locale, localissimo, i finanziamenti per manifestazioni e attività legate all’agricoltura, ci sono, per quelle legate al giardino, molto meno.
Lo status quo interessa e viene mantenuto da chi ne trae beneficio, soprattutto ai venditori di merce. Sì, merce. Piante, oggetti d’arte, antichità, esemplari unici di *qualsiasicosa* sono “merce”.
Non sto parlando dei piccoli vivai specializzati, possano riposare gli indici dei miei detrattori.
Parliamo soprattutto di venditori internazionali, che assieme alla “merce-pianta”, vendono la “merce-vaso”, la “merce-insetticida che ammazza qualsiasi cosa si appoggi sulla tua rosa”, la “merce-cultura (che mi permette di venderti quel che produco)”.
L’industria culturale non è costituita solo da intellettuali organici al sistema, ma anche da altri pensatori a cui comunque il sistema sta bene così, vuoi perché l’hanno studiato tanto a fondo da non riuscire a concepirne altri, vuoi perché ci si sono ricavati un angoletto più o meno comodo e caldo. Quindi l’equilibrio del sistema è garantito non solo da intellettuali consapevoli, ma anche da altri, che si ritengono consapevoli ma che lo sono “fino alla curva”, come si dice da noi.
Ed è sull’illusione di consapevolezza che l’industria del mainstream culturale gioca moltissimo, su una consapevolezza falsa che è immune dalla sua stessa falsità.
È la vittoria del mediocre il risultato sociale di questo status quo, come mediocri e inemendabili sono le deprimenti esibizioni del giardino falso-borghese di cui accennavo. Giardini inconsapevolmente frutto di una ideologia culturale che esiste al preciso scopo di cancellare ogni traccia di contraddizione estetica (ed etica).

È con molta amarezza che mi rendo conto che la maggior parte dei giardinieri non considera neanche questo genere di riflessione, e che gli basta avere piante fiorite senza insetti, affogare i prati in estate, sapere che fungo è per scagliargli addosso tutti i volumi di chimica del Silvestroni.
Anche qui siamo molto distanti da una cura rasserenante dello spirito o di una ricerca di una ispiratrice comunione con la Natura, a riprova che è un luogo comune che “chi ama il giardino ha uno spirito gentile”.
Ed è con altrettanta amarezza che mi rendo conto che chi avrebbe la possibilità di opporre resistenza allo status quo, vi si adagia per comodità, indifferenza o incapacità.

http://marcoeula.tripod.com/id3.html
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Mi chiedo: dall’inizio di una più facile circolazione di piante, cioè dagli anni Novanta (e sono 25 anni), ancora in Italia mancano le capacità? Be’, che cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Solo passato il lucidante foliare?

E in questo mondo giardinicolo in cui i giardinieri -come tutti- si piantano coltellate nella schiena e si fermano all’inutile brodura, io mi sento sempre più sola (in giardino. Altrove ancora sembra che il pensiero critico non sia del tutto morto).

Perché la bordura mista non è una tappa obbligata

mixed border_flickr_ riutilizzo non commercialeTanto per sottolineare l’ovvio a chi non ha orecchie per intendere, le riflessioni che sto mettendo in campo in questo periodo sono frutto di pensieri rimasti quiescenti a lungo. Quiescenti, ma sempre presenti, come un rumore di fondo, il ronzio di di una batteria, il tic tac di un orologio.

Non sia una sorpresa se riprendo un vecchio articolo del 2011, incentrato sulla bordura mista. Se vi va di capire perché la considero la mia nemesi, leggetelo.
Ma adesso mi voglio soffermare su un concetto espresso più volte nell’ambito di appassionati e anche di critica, cioè che la bordura mista sia una tappa obbligata del giardinaggio (Guido Giubbini, Rosanova n°24, aprile 2001).
L’affermazione è palesemente scorretta, e dovrebbe forse muovere un sussulto di diasappunto che provenga da un critico del giardino. In realtà non mi stupisce più di tanto.
Avendo un approccio storicista non posso che considerare l’affermazione di Giubbini frutto di una ideologia volta al mantenimento dello status quo giardinicolo.

Perché la bordura mista sarebbe una tappa obbligata del giardinaggio? Per la difficoltà di manutenzione e la complessità di pianificazione (non maggiore di altri stili, a pensarci). Tutto questo direbbe che un giardiniere è tanto più “bravo” quanto è maggiore la sua capacità di curare le piante, risolvendo il giardino (in quanto struttura estetica) nella pratica di mantenimento orticolo, cioè nel giardinaggio.
Un errore clamoroso, insomma, che viene non solo da una visione ideologica monca e parziale, ma anche dalla immaturità della discussione sul giardino in Italia, tale che -detto ciò- nessuno se n’è accorto. Nessun critico d’arte confonderebbe l’opera con la tecnica pittorica, ma nel giardino questo accade di continuo.

In verità mi chiedo cosa ne penserebbero Leon Battista Alberti, di questa cosa, o André Le Nôtre, o Capability Brown. “Ommioddio! -direbbero- E adesso che facciamo? Le scuole serali, paghiamo la multa, ci arrestano?”.

In tempi in cui la brodura mista era ancora nella mente di Satana, la pianificazione dello spazio-giardino non era meno complessa e direi che non sortisse effetti sgradevoli. La capacità di cura delle singole piante era invece perfino più elevata, perché se perdevi una camelia oggi, non andavi domani a comprarne un’altra al garden dietro casa, ma dovevi mandare qualche esploratore a Cipango o in Cocincina. Le piante erano pregiate, anche quelle che appaiono banali e comuni, considerate individui più botanici che non materia compositiva, ma le conoscenze dei giardinieri erano impressionanti. Basti pensare a Philip Miller, che pur ostinando un rifiuto alla nomenclatura binomiale, era considerato autorità assoluta in materia di giardinaggio, e i suoi dizionari delle bibbie per gli appassionati.

La bordura nasce dal campo da tennis e dai cataloghi di vendita per posta e non è l’acme del giardinaggio, è un episodio della storia del giardino, come le siepi di bosso e di tasso, le “stanze”, i labirinti, i parterre, le catenarie d’acqua.
Ma se siamo pronti a dar ragione a Quest-Ritson nel suo rimprovero a Capability Brown che avrebbe cancellato i giardini Tudor (???), siamo restii a non vedere quanto la bordura mista sia ormai una copia fotostatica sbiadita, e quanto sia indulgente verso il narcisismo giardinicolo.

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Mixed border excusatio non petita

A parte qualche raro numero, “Rosanova” mi dà sempre intensi spunti di intensa riflessione.
Questo in particolare (n°24, aprile 2011) sembra una excusatio non petita del mixed border, o bordura mista, nota su questi schermi con l’epiteto di brodura mista.
Perchè mai le alte sfere si preoccupano di tirare fuori la brodura mista dagli impicci in cui inevitabilmente, per la sua conformazione strutturale, si sarebbe prima o poi cacciata?
Il giardinaggio è lento a muoversi, le mode si succedono in modo dilatato per via della materia con cui son fatti i giardini: le piante, che s’accrescono con lentezza e possono essere sostituite da altre più alla moda a prezzo di grandi esborsi di danaro. Senza contare che dietro al giardino vien quasi sempre una casa o un edificio, come dietro ad una palla viene sempre un bambino. Mettersi a spostare i muri è un’attività costosa.
Insomma, un giardino è “per sempre”, come un diamante, un condono edilizio e la cellulite? Può darsi. I vecchi giardini dimostrano marcatamente questo carattere, come accettano più disinvoltura le sovrapposizioni stilistiche (Villa d’Este è l’esempio classico che si porta in questi casi: vai a fare i baffi ad un quadro meno vecchio della Gioconda…).
E’ anche per questo che i nuovi paesaggisti si muovono su linee completamente diverse: progetti preferibilmente “pronto-effetto” (o se non pronto, almeno rapido), stilismi individualizzati che evidenziano una “firma” personale (le graminacee per Oudolf, le curve concentriche per Jencks, il fogliame spadiforme e i colori squillanti per Lloyd …), che rendano quella realizzazione perfettamente riconoscibile anche al mezzo-profano, che vi appiccica il suffisso iano (oudolfiano, jencksiano, clémentiano, lloydiano, blanchiano, e alla via così).
Il suffisso iano rende contenti tutti:1) l’architetto che si fa riconoscere e che si mette al riparo da eventuali copie o tramite il quale imprintizza eventuali epigoni o sinopisti 2) l’amministrazione o il comune o l’ente che ha pagato i soldi per quella realizzazione, poichè quel iano ai suoi occhi è sinonimo di “qualità” e c’è una folta schiera di pubblico votante attento alla “qualità” 3)il pubblico stesso, a cui è garantito, a mezzo firma, di star passeggiando attraverso se non un’opera d’arte, almeno a qualcosa che vi si avvicini 4)i giornalisti, che a quel iano s’attaccano come ad una mammella per spremerla fin quanto è possibile, costruendoci sopra articoli di costume, infographics, newslines, indirizzando l’opinione pubblica e cercare di mettersi alla testa del lungo corteo degli ecologisti 4)la critica, che del iano fa oggetto di riflessione estetica e lo storicizza all’interno del percorso artistico in cui si è evoluto.

L’articolo “Un’inarrestabile creatività” pubblicato a pag.25 a firma dell’abituale Giubbini, con un corredo fotografico dubbio (sulle cui mancanze già l’autore del pezzo si scusa, a parer mio non adeguatamente), e che non fa certo onore alle grazie del giardino, parte proprio con un lead storico per inquadrare l’arrivo della bordura mista in Italia. Gli articoli di Pizzetti, i pochi vivaisti specializzati, le traduzioni dei grandi testi inglesi, le fiere di giardinaggio.
Sia ben chiaro che la domanda di piante in Italia non nasce dagli articoli di Ippolito Pizzetti, ma dall’entrata del mercato italiano nella rete di quello europeo e globale, di cui questi ed altri articoli non sono che una manifestazione sensibile.
Il resto lo conosciamo un po’ tutti, dalle raccolte a fascicoli, ai primi vivai anche in piccoli centri periferici, ai castighi meridiani e post-prandiali degli infliggimenti di consigli ecologici da parte di personaggi di dubbia sanità mentale, come Luca Sardella e Luigi Carcone.

“A questo punto mi aspetto le consuete obiezioni-dice Giubbini-Che senso ha copiare un modello, quello inglese, con cento e più anni di ritardo?Che senso ha trasferire un modello straniero in un ambiente e in un clima e con una storia così diversi? E non si tratta di un fenomeno elitario, di nicchia, che infatti sinora non è riuscito a smuovere la situazione del giardino italiano nel suo insieme, che rimane ancora oggi, a dir poco, miseranda?
Non credo che queste obiezioni abbiano un senso.”

Tuttavia per prevenirne altre, spiega:

“Il modello del giardino inglese, quale è stato elaborato da Robinson, dalla Jekyll e dalle Arts and Craft, non è soltanto il prodotto di un determinato momento storico-la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, cioè il liberty e il déco per intenderci-, ma un’acquisizione permanente della storia del giardino, allo stesso modo del giardino formale o del landscape garden. Si è trattato non solo di uno stile o gusto o moda del momento, ma di un nuovo corso del giardino moderno, con cui in ogni caso bisogna fare i conti. Inoltre, proprio perchè si è trattato di una nuova struttura linguistica (io avrei usato la parola “sintattica”) e non solo di uno stile o di una moda, il giardino inglese può applicarsi a qualsiasi situazione, anche la più diversa (climaticamente e storicamente) rispetto a quella originaria. Infine, il carattere ancora elitario della pratica del giardino, almeno da noi, è solo una tappa obbligata sulla via di una (ragionevolmente possibile e probabile) estensione ed elevazione del gusto.

Bravo, ci hai quasi convinti.

Personalmente dubito fortemente che il giardino inglese possa adattarsi a qualsiasi luogo (climaticamente magari sì, storicamente no). Questa è una balla grande quanto Nettuno. Ci sono luoghi che griderebbero disperati se sui loro suoli venisse realizzata anche la più sofisticata bordura inglese.

La bordura inglese ieri è stata un linguaggio dell’arte del giardino, e lo è ancor oggi in mano di pochi fortunati (pochi, molto pochi fortunati).
Se questo è vero-come è vero- non significa che essa sia la summa del giardinaggio e che oltre vi sia scritto Hic Sunt Leones. Che un giardino non sia tale per i suoi accostamenti di piante e giochi di colori. Come è finito il dinosauro, come è finito il comunismo, finirà la bordura inglese: come un episodio della storia, da studiare, archiviare e da cui imparare per procedere oltre, altrimenti non sarebbe forse “velato populismo” il voler tornare indietro o peggio restare dove siamo? Non bisogna chiedersi cosa è stata la bordura inglese per la storia del giardino, quello è il passato: bisogna guardare alla bordura oggi e a quello che di negativo comporta nell’intendere la pratica orticola e la filosofia del giardino. Il semplice fatto di non farlo è una quiescenza sospetta.

Oggi la bordura inglese, nel migliore dei casi, non è altro che una tela prestampata con numerini per i colori, buona per ragazzine che non vogliono sbagliare.
Non è una tappa obbligata, tecnicamente, intendo. Se lo è per lo storico, non lo è affatto per il giardiniere. Non è affatto necessario imparare a dipingere copiando Poussin anzichè Michelangelo: si può imparare a disegnare anche imparando a copiare due bicchieri e una brocca, un albero, una casa, o il proprio gatto, o un vaso di fiori. L’importante è -di solito- avere un buon insegnante.
La bordura inglese non è una tappa da bruciare, non è neanche una tappa, come non lo sono il giardino formale o il landscape gardening.

La bordura inglese inoltre contiene al suo interno due marcate forme di antisocialità che io non ammetto in nessun grado:
la prima è l’esclusività, il mondo elitario nel quale dopo un po’ -quando si inizia a conoscere un buon numero di piante- volenti o nolenti, si inizia a veleggiare. Esclusività ed elitarietà veicolate dalle riviste che non fanno proprio nulla, ma ripeto nulla, per una sincera “elevazione del gusto”, anzi, mantengono questi giardini enclave riservati a pochi intimi, in genere facoltosi.

La seconda cosa che non ammetto della bordura inglese è il suo dimenare il didietro a seconda delle mode e alle piante più in auge del momento. Si può affermare con una certa sicurezza che questo polimorfismo sintattico, per parafrasare Giubbini, sia spinto dalle esigenze del mercato, che ci fanno apprezzare l’Oudolfiano quando vogliono venderci le graminacee, l’Austiniano, se vogliono che compriamo rose inglesi, il blanchiano se invece ci vogliono ad ogni costo irretire con quegli assurdi muri verdi.

Per non parlare delle reali brodure che combinano fatui giovani ritenendosi già saggi, che pur di non rinunciare alla piantina al vivaio fanno a meno dell’abbonamento per i giga (no, ho sbagliato esempio: diciamo che comprano una sottomarca di croccantini per i loro gatteeney).

La bordura inglese è insomma una caricatura di quello che è stata in passato, e come se ciò non bastasse non possiamo fare a meno di citare l’articolo, sempre di Giubbini, sul numero di Luglio 2009: Le jardin Plume (ancora sul concetto di copia) in cui il Nostro ci fa una testa così sulla copia e ci dice che quando dell’originale non si comprendono neanche più le strutture formali, entriamo nel campo del Kitsch (il che è vero, ma solo in parte).

La domanda tuttavia rimane irrisolta: perchè le alte sfere si muovono per difendere una struttura formale che nel tempo ha cacciato fuori tanti di quei difetti da essere ormai pronta per la demolizione e il passaggio ad un nuovo concetto di giardinaggio, meno improntato sull’esclusivismo, sull’individualismo, sull’effetto superficiale?

L’amara risposta, amici, è che si deve pur vivere.

Per una volta dalla parte della bordura inglese

La bordura mista, totem giardinicolo vecchio di oltre cent’anni, lo sapete, già da molti anni ha smesso di piacermi e di rappresentare per me l’acme delle potenzialità del giardinaggio.
Eppure ha un grandissimo merito artistico. Cioè quello di rappresentare la pienezza del rapporto di un’arte con il suo materiale precipuo.
Se ci pensate, non è davvero poco!

Omaggio.

Valore di esposizione

Walter Benjamin (che qualcuno definì un “imbucato” della filosofia) propose di aggiungere al “valore d’uso” e al “valore di scambio” della merce quello di “esposizione”. Nei Passages codifica la regola secondo cui una merce acquista valore aggiunto per il semplice fatto di essere esposta.

Il Kitsch: dal principio all’effetto

Il Kitsch è l’arte che segue delle regole stabilite, proprio in un’epoca in cui tutte le regole artistiche sono messe in dubbio da ogni artista
Harold Rosenberg
La tradizione del nuovo

Parlando di Kitsch è sempre necessaria una certa dose di circospezione.
E’ un fenomeno che riguarda le arti e le arti applicate che si è imposto con vivacità sempre crescente dagli anni ’50 in poi, fino ad avere proprie connotazioni formali di stile o genere, esattamente come le hanno guadagnate due stili affini e per certi versi sovrapponibili come il Trash e il Camp (cfr. a tal proposito l’articolo di Marco Salvati sul sito “L’attimo fuggente” Perchè non possiamo dirci Trash?.

Continua a leggere “Il Kitsch: dal principio all’effetto”

Etica della bordura inglese

09/22/08
Etica della bordura inglese
Filed under: Giardinaggio e natura, Arte ed Estetica
Posted by: Lidia @ 2:44 pm

Nel tempo ho maturato un certo scetticismo nei confronti della bordura all’inglese, che anni fa sembrava anche a me il vertice ultimo delle aspirazioni giardinicole.
La bordura all’inglese, codificata così com’è oggi, trova le sue basi
culturali ed estetiche nell’Idealismo Romantico, periodo in cui sono
sedimentate le radici della moderna cultura Occidentale. Colin
Campbell fa risalire proprio al Romanticismo la nascita dell’ideologia
consumista, e se tanto mi dà tanto, posso tranquillamente spingermi abbastanza in là da dire che la bordura mista è l’incarnazione del consumismo sfrenato della società moderna, e che solo raramente riesce ad ottenere significativi livelli estetici.

La bordura mista è un po’ come una collezione di quadri, nella quale il collezionista si rispecchia e si ritrova, si autogratifica con la continua ricerca di qualcosa al quale tende ed a cui non può e non vuole giungere, mette una croce sulla pianta appena conquistata, per mirare direttamente alla successiva, nell’illusione che questo compensi la propria mortalità. In poche parole, crea il (falso) mito della “sua” personalità, tant’è che non sono rare le frasi del tipo:
“Difficilmente gli altri possono comprendere il mio modo di fare
giardinaggio”.
Questo produce un solipsismo estetico che non è né più né meno che il frutto della società moderna, basata sull’economia capitalista-liberista, in cui i valori comunitari sono completamente spazzati via. Il giardinaggio, come la vita, viene vissuto con un atteggiamento “distaccato”, isolato, che non vuole più chiedere né ricevere nulla dalla comunità.
Come ebbero a dire Pountain e Robins: “[…]la mentalità “distaccata” è incentrata principalmente sul consumo. Questo è il “cemento” che sana tale stupefacente contraddizione; essere “distaccati” è il modo di vivere con minori aspettative andando a fare shopping[…]. Il gusto personale viene elevato a vero e proprio ethos: sei quel che ti piace e che perciò compri.”

Ed è proprio a questo punto, alla parola “compri” che si inserisce la longa manus delle riviste di giardinaggio, a sua volta mezzo d’azione delle multinazionali del florovivaismo.

2 Responses to “Etica della bordura inglese”
1. Alessandro Says:
September 29th, 2008 at 4:14 pm e
Povera Bordura inglese verrebbe da dire. Lidia non ti viene mai in mente, che anche la povera Bordura inglese sia caduta nel tranello del consumismo e della moda di oggi? Che sia caduta anche lei nell’inganno e ora si ritrova ad essere da te così giudicata? Può essere che la causa in fondo sia da cercare in questo periodo consumistico del nostro mondo occidentale, che ha finito per snaturare la geniale idea della bordura inglese? In fondo anche il Giardino alla “giapponese” ha questo rischio. O perlomeno l’elaborazione di questo, che sempre più spesso vediamo nei sempre più piccoli giardini delle sempre più piccole case di oggi. Basta un acero rosso e della ghiaia bianca con qualche ciottolo più scuro e si ottiene un’esecuzione assai accattivante, per chi vuole farsi un giardino diverso dalla trita e ritrita bordura. Non trovi? E quali motivazioni ci vedi in questo, se non ancora una volta il consumo e la conferma della propria persona attraverso di esso. E allora giudicheresti negativamente anche il giardino giapponese? Che allora si debba puntare il dito su questo periodo e sia invece da riconsiderare tutti gli “stili” in base alla loro forza reale, isolandoli dal consumo che se ne fa di questi? Forse si. In fondo ci saranno dei buoni esempi di sana e buona Bordura inglese.
2. Lidia Says:
September 30th, 2008 at 12:17 pm e
Domanda che richiede una lunga risposta: sì, certo che mi è venuto in mente che la bordura all’inglese sia vittima del moderno consumismo. E’ nata così proprio perchè i suoi canoni stilistici sono stati coniati proprio nel periodo in cui si affermavano le basi del consumismo moderno. E’ anche lei frutto del suo tempo. Ma io leggo il giardinaggio come qualcosa che -al pari di tutte le altre arti- si porta dietro delle implicazioni morali, etiche, sociali, anche politiche, se vogliamo. Detesto la società consumistica di matrice neo-liberista che ha portato allo smantellamento della comunità sociale protezionista e protettiva, che ha distrutto in poche parole, tutte le mie speranze e le mie illusioni. Detesto anche la gente che si chiude nel ridicolo mito di se stessa. Detesto gli ignoranti e i borghesi senza sensibilità artistica, che dileggiano chi ce l’ha e se la tiene ben stretta. Tutto questo trova la sua incarnazione nella bordura inglese, perchè è la bordura inglese ad essere privilegiata dalle riviste, proprio per la sua qualità consumistica. Non mi piace perchè sembra il vertice ultimo del raggiungimento della tecnica. Non mi piace perchè è basata quasi esclusivamente sulla tecnica, e solo alcuni progettisti, come Oudolf e Lloyd la usano con sinceri intendimenti artistici. Non mi piace perchè blocca il giardinaggio al problema tecnico, che è invece solo una parte del problema.
Riguardo al giardino giapponese: il giardino col sasso, la ghiaia e l’acero, fatto a Bergamo o a Novara, non può che essere solo una ingenua imitazione di uno stile nobilissimo ed elevatissimo, che gli occidentali non possiamo neanche sperare di comprendere pienamente. Si tratta semplicemente di una moda, e delle peggiori, che segue la scia della new age e della mania del buddismo e dello zen, che gli occidentali, ed in particolare gli Italiani, dotati di quasi zero cultura artistica, si limitano a copiare pedissequamente. E’ come paragonare un posacenere col Colosseo.

Il giardino come ornamento

09/20/08
Il giardino come ornamento
Filed under: Giardinaggio e natura, Arte ed Estetica
Posted by: Lidia @ 1:59 pm

Da Robinson in città di Ippolito Pizzetti, ed Archinto 2006:
“Andando sempre più avanti negli anni, sono riluttante, anzi non mi riesce più di pensare al giardino come ornamento. Bene, benissimo un giardino ricco di fiori e di colori; ma per me il giardino da una parte non è più, come spesso era considerato, il vestibolo dell’abitazione, l’introibo, ma il luogo dell’incontro col mondo vegetale e animale su cui si fonda il nostro rapporto con questi due mondi”.

Non aggiungo parola.

4 Responses to “Il giardino come ornamento”
1. Maria Acquaria Says:
September 20th, 2008 at 6:20 pm e
E’ una sensazione che avverto anch’io. Il fatto è che non riesco a decifrarla, a comprenderla come vorrei. Sento che c’è qualcosa che va oltre la semplice questione estetica, eppure non trovo mai non solo le parole giuste per spiegarlo, ma neanche il linguaggio attraverso il quale dirle, quelle parole. Forse non devono essere dette, però. Solo vibrate.
2. Lidia Says:
September 21st, 2008 at 12:30 pm e Molto probabilmente è vero quel che saggiamente dici, ma io ho sempre voluto, nel mio cervello, capire ogni dettaglio ed ogni perché dei miei pensieri e delle mie azioni. A livello maniacale.
3. Alessandro Says:
September 22nd, 2008 at 3:25 pm e
Avvertivo anch’io questa sensazione. Finché non mi è bastata, non ne ero più sicuro. Perché altrimenti non si spiega il mio bisogno di acquistare e possedere piante, come attività prettamente consumistica. E allora ho iniziato a chiedermi dove poter trovare altre spiegazioni. Io nei fatti mi fermo con il mio giardino, ma le mie domande sono cadute nel labirinto dell’espressione artistica. L’arte è una definizione e un prodotto umano, quindi il giardino è una manipolazione e allora ho il sospetto che ci sia anche della finzione nel voler confrontarsi con il mondo vegetale/animale in giardino. Leggendo
Ontologia e Teleologia del Giardino di Rosario Assunto si arriva alla teoria di Giardino come ornamento, il giardino come rappresentazione artistica del paesaggio, rappresentazione di bellezza e, in quanto tale, fonte di benessere per l’uomo. Assunto afferma dunque che il giardino è ornamento, luogo per cui l’uomo è spinto alla contemplazione, al ragionamento, successivamente alle attività che a piacere di fare in un luogo, che lo ben dispone. Tra cui cogliere la possibilità di rapportarsi con la natura, ora che è resa a propria misura. In un luogo naturale, ma inospitale, probabilmente non scaturiscono questi bisogni. Ecco, allora non rifiuterei il giardino come ornamento. Sarebbe un vero peccato.
4. Lidia Says:
September 24th, 2008 at 1:01 pm e
Già, ma perché fermarsi lì? C’è molto ancora, dopo.

Il collezionista di fiori

08/25/08
Il collezionista di fiori
Filed under: Arte ed Estetica
Posted by: Lidia @ 5:00 pm

Sono fortunata: mi piacciono quasi tutti i giardini. E questo perché a me non interessano i giardini di per loro, ma perché guardare un giardino è come entrare dalla porta principale dentro il cuore delle persone, delle cose, delle città.
Può essere la striscia d’erba mezza secca dello spartitraffico, o il prato pisciato dai cani, o il giardino di un vecchio pensionato. Tutto mi piace, purché racconti.
Ce l’ho invece con la bordura all’inglese, spaventoso golem del giardino contemporaneo, che invece non racconta niente, solo conformismo, conformismo, conformismo.
Specie fuori dall’Inghilterra, dove pure ha un senso logico e narrativo.
Questi ciuffoni di fiori perlopiù primaverili ed estivi, mescolati più o meno a casaccio (perché poi è sempre a casaccio, diciamoci la verità), mi hanno davvero rotto le scatole.
Non sono frutto di una scelta estetica ed artistica, ma solo del consumismo sfrenato della nostra società, che una volta che ha finito di consumare le cose, inizia a consumare anche le idee.
Vi riporto, tal quale, un passo tratto dal libro Il sistema dell’arte contemporanea, di Francesco Poli, che parla di collezionismo di quadri:

L’atteggiamento passionale verso l’arte soprattutto nei riguardi della propria collezione spiega, ad esempio, il fatto che quasi tutti i collezionisti si considerino come casi unici e non classificabili. Infatti essi tendono ad identificarsi con le opere in loro possesso, che per loro non rappresentano tanto valori estetici autonomi in se stessi, quanto piuttosto il frutto delle “proprie scelte” la dimostrazione della “propria” sensibilità artistica, e quindi, al limite, direttamente l’espressione del “proprio” valore. E’ chiaro, dunque, che l’amore per le proprie opere d’arte, essendo una forma di autogratificazione, è una passione che “difficilmente gli altri possono comprendere”.

Sostituite “giardinieri” a “collezionisti” e “piante” a “opere d’arte” ed avrete il teatrino completo.
La bordura all’inglese a me sembra l’incarnazione del più sfrenato consumismo delle idee e dell’estetica, e dietro ad ogni planting plan mi sembra si nasconda un gelido e serpeggiante “consiglio per gli acquisti”.

2 Responses to “Il collezionista di fiori”

1. Alessandro Says:
August 26th, 2008 at 9:15 am e
La bordura inglese proprio perché costituita essenzialmente da una miscela di fioriture, illude chi la realizza, perché può apparire una facile via per concretizzare il bisogno di creare il proprio giardino. Permette di raggiungere lo scopo, focalizza la spesa direttamente e quasi unicamente nella materia vegetale e il gioco gli sembra fatto. Si ottiene presto un giardino, riconoscibile ai più e collocabile ad un livello più alto della media dei giardini odierni nelle cittadine italiane. Probabilmente una dimostrazione del proprio status sotto copertura. Penso che lo scopo del consumo è giustificarsi una vita dal ritmo frenetico, zeppa di prove e risultati, che tolgono tempo a se stessi e che si tenta di recuperare col possesso di cose che ci collocano e ci riconoscono.

2. Lidia Says:
August 26th, 2008 at 4:29 pm e
Ciao Alessandro, grazie del tuo commento. “Dimostrazione del proprio status sotto copertura” è davvero una frase che mi piace.