“Forse se ci* iniziassiamo a prendere cura dell’inanimato, per esempio le piante” – questa la frase di Daniela Amenta, botanica(?), su Fahrenheit del 23 scorso

*(sic)
Minuto 10:50

Riascoltando il podcast di Fahernheit Radio3 del 23 luglio 2015, è vero quanto sostenuto da Lipperini nei commenti al post precedente: non è lei ad aver detto che le piante sono inanimate, ma Daniela Amenta, ospite della trasmissione, botanica e autrice del libro La ladra di piante (Baldini&Castoldi).
Lipperini, probabilmente presa da altri pensieri o dalla formulazione della domanda successiva (o colta da un attimo di rigor mortis) non l’ha neanche sentita. E su questo le credo.
Ma dire che le piante sono inanimate è una cosa così enorme, che anche un bambino sarebbe potuto intervenire. Non è assolutamente vero che non si contraddicono gli intervistati, forse Lipperini non lo fa, ma non è una giustificazione.

Sapere che questa frase proviene da una persona che ha studiato botanica mi lascia ancora più incredula, poiché non più frutto di disinformazione, ma della mancata comprensione dell’oggetto dei propri studi.

Roba da brividi.

Come scegliere le rose (su Houzz)

Il mio articolo su Houzz su come scegliere le rose

Giardini in ombra (su Houzz)

L’etica dell’informazione giardinicola

Esiste un’etica nell’informazione giardinicola? Secondo alcuni sì. Si tratterebbe di rinunciare ad ogni commento nella stesura delle informazioni orticolturali che riguardano le piante. Un po’ come accadeva prima degli anni ’30 negli Stati Uniti, quando si richiedeva ai giornalisti la precisione e l’asetticità delle informazioni: “Tanti piselli un tanto al sacchetto” era il motto dell’imparzialità giornalistica.
Ai commenti si darebbe spazio nelle riviste, non nelle enciclopedie. Ha una sua logica, bisogna dire, purché nelle riviste l’informazione non si riduca al puro commento, come spesso accade.
Il commento è nè più nè meno che l’esternazione della personalità dell’autore, del suo gusto, della sua esperienza (o mancanza di esperienza), dell’ambiente sociale e culturale dal quale proviene,del suo sesso, età, cultura, preferenze botaniche, principi estetici, etici e morali, persino del suo essere a conoscenza del target a cui punta.

Molti si lagnano che la Garzantina di Pizzetti non sia un’enciclopedia, ma una sorta di ibrido tra un pamphlet, un diario personale e un libro sui fiori.
Il valore delle Garzantine è sempre stato quello propedeutico ad altre letture più specializzate, pur mantenendo un’imparzialità informativa di base che le ha da sempre rese strumento importante di consultazione scientifica per studenti e studiosi.
In questo senso dovremmo ammettere che Pizzetti tradisce ben volentieri questo principio, non limitandosi -giornalisticamente parlando- allo straight reporting, ma allo interpretative reporting che -ad oggi- è il modello di tutti i più importanti giornalisti professionisti.

Quindi la Garzantina dei Fiori si pone in maniera anomala rispetto alle altre garzantine, e io credo che non potesse essere differentemente visto il personaggio che l’ha realizzata e il tipo di materia analizzata, così subdolamente al confine tra la scienza esatta e l’arte più volatile.
Che Pizzetti non riuscisse a dire “tanti piselli, un tanto al sacchetto” senza infilarci più o meno di straforo un suo commento, era un dato inevitabile. Pizzetti era un artista, oltre che un giardiniere, anzi, forse era più un artista-giornalista che un giardiniere. Un po’ come Vita Sackville-West, di cui si dice che fosse il suo giardiniere a tenerle in piedi il giardino e che i suoi gusti non fossero poi così raffinati. Ma gli articoli! Oh, gli articoli! Quelli sì che sono dei capolavori, forse ancor più del suo giardino stesso. E pensare che lei li disprezzava chiamandoli: “Quella robetta che mi pubblicano sull’Observer“.

E allora? Cosa dire agli amici che cercano informazioni “assolute” su piante e fiori? Io personalmente direi che esistono altre enciclopedie molto buone e del tutto imparziali a cui attingere, e poi c’è l’esperienza diretta. L’errore in cui si cade è “divinizzare” un opposto o l’altro. Il filosofare senza fare (di cui a qualche coglione sembra che io sia paladina solo perché mi mancano i soldi per comprarmi le piante) e il fare ottuso, privo di qualsiasi connotazione estetica o emotiva, di qualsiasi interpretazione, domanda o riflessione.

Pizzetti non è infallibile e a volte dà dei consigli su cui francamente si può sollevare più di un’obiezione. Molte sono le piante su cui si appunta il suo sdegno per come vengono usate, molte altre sono quelle sulla cui bellezza ironizza. Alcune sono quelle per cui prescrive situazioni estetiche particolari, ma in nessun caso mi è capitato di leggere un giudizio così severo come sui gladioli.
Il gladioli, secondo Pizzetti, sono appena accettabili in vaso, mai in giardino. È una affermazione non troppo ben spiegabile soprattutto perchè posta come un diktat.
Speriamo non molti ne tengano conto, immaginando che Pizzetti dovesse avere un suo motivo particolare per sconsigliare i gladioli in giardino.

I gladioli sono molto belli in giardino, invece, sia nella ormai indistruttibile brodura mista (apice della ottusità giardinicola italiana), sia in versione cottage che in variante “Lloydiana”-tropicaleggiante, dove il fogliame slanciato è apprezzato, sia in versione prairie, tra le graminacee, che ne smorzano l’effetto spadiforme che a molte signore chic non piace, tra fiori semplici che punteggino l’erba (anzi, a questo scopo Pizzetti consiglia di usare il G. byzantinus). Tra l’altro in mezzo all’erba alta, il gladiolo sarà sorretto e perderà quella brutta abitudine di piegarsi all’attaccatura del colletto, evitando il fastidio di sorreggerli con cannucce.
Ma molto meglio rendono in quei giardini dalla terra grossolana, al limitare tra campagna e città, lungo un muro esposto a sud, vicino ad altre bulbose come narcisi, anemoni, crochi, ecc. Un cutting garden all’italiana, insomma. Una macchia di gladioli in un vecchio giardino, tra un hibiscus e una vetusta magnolia, un po’ dietro il fogliame compatto degli asparagi, da raccoglierne qualcuno quando si passa col cappello di paglia in testa per proteggersi dal caldo. Un cespo fitto e non diviso di gladioli nella villetta di una vecchia stazioncina di provincia, dove fioriranno indisturbati da Trenitalia. Gladioli “mediterranei”, d’accordo, ma ogni pianta ha la sua vocazione in luoghi che hanno una vocazione. Se il luogo non ha vocazione, nessun fiore lo renderà bello.

Per finire come non citare il famoso Gladiolus psittacinus, accorsatissimo dai designer più estrosi, o il Gladiolus tristis, dalle sfumature crema-verdastre, amatissime per gli accostamenti più raffinati. O dei gladioli a fiori meno serrati e gola macchiata, come ‘Elvira’, ‘Ninph’, Prins Claus’ o il bellissimo G. papilio, dai curiosi fiori reclinati, anche questi macchiati di verde e porpora.

E per i gladioli in vaso? Io ritengo che il miglior modo di coltivarli sia piantarli in massa, cromaticamente omogenea o no, purchè il vaso ne sia completamente pieno e in estate trabocchi letteralmente.

A quel punto si potrà avvicinare a qualche altro vaso o lasciare isolato a seconda delle preferenze.

Flora Ferroviaria: comunicato

pista_ciclabile_siderno_2015 (17)

 

Ricordate il vecchio post sulla Flora ferroviaria? Ebbene il libro scritto da Ernesto Schick negli anni ’80 e poi ristampato dalla Florette è disponibile in Italia alla libreria Hoepli: ecco il comunicato inviatomi

Ora possiamo comunicare che abbiamo raggiunto un accordo con la Libreria Hoepli di Milano, che d’ora in poi sarà la nostra libreria di riferimento per l’Italia. Si potrà quindi trovare “Flora ferroviaria” in Via Hoepli 5 o inoltrare la sua richiesta a: Libreria internazionale Ulrico Hoepli – Milano att. signor Enrico Carraro e-mail: e. carraro@hoepli.it Grazie per il suo interesse, restiamo a disposizione per qualsiasi chiarimento. Cordiali saluti Nicoletta De Carli, Simonetta Candolfi edizioni Florette, Chiasso, Svizzera ndecarli@bluemail.ch simonettacandolfi@bluewin.ch

Io vi ricordo che la Hopli ha anche il suo sito http://www.hoepli.it Buona lettura!

Il Kitsch: dal principio all’effetto

Il Kitsch è l’arte che segue delle regole stabilite, proprio in un’epoca in cui tutte le regole artistiche sono messe in dubbio da ogni artista
Harold Rosenberg
La tradizione del nuovo

Parlando di Kitsch è sempre necessaria una certa dose di circospezione.
E’ un fenomeno che riguarda le arti e le arti applicate che si è imposto con vivacità sempre crescente dagli anni ’50 in poi, fino ad avere proprie connotazioni formali di stile o genere, esattamente come le hanno guadagnate due stili affini e per certi versi sovrapponibili come il Trash e il Camp (cfr. a tal proposito l’articolo di Marco Salvati sul sito “L’attimo fuggente” Perchè non possiamo dirci Trash?.

Continua a leggere “Il Kitsch: dal principio all’effetto”