La frana a Siderno Superiore conquistata dal terzo paesaggio

A distanza di sei mesi dalla frana su via Panoramica a Siderno Superiore, il comune di Siderno rende noto di non essere intervenuto per rimuovere i detriti solo perché c’è in corso uno studio sulla vegetazione spontanea al quale prende parte il mio amico Gilles, il quale emetterà il verdetto sulla frana: se supererà l’esame “terzo paesaggio”, la frana rimarrà esattamente dove si trova, altrimenti rimarrà esattamente dove si trova.
La cittadinanza è in attesa del fatidico responso.

The perfumier and the stinkhorn. Il taccuino del naturalista

TACCUINO NATURALISTA COPERTINAMi chiedo perchè Richard Mabey sia così maltrattato dalla casa editrice che -pur lodevolmente- lo traduce in Italia, Ponte alle Grazie.
I titoli dei suoi libri, stupefacenti, un po’ nonsense, understatement, un po’ referenziali, filosofici e poetici, vengono regolarmente stirati in una versione digeribile per l’italiano dotato di medie conoscenze sull’argomento, dando adito a delle travisazioni non da poco.
The perfumier and the stinkhorn , il profumiere e il satirione, questo è il titolo originale del librettino che Ponte alle Grazie vende, cartonato, alla modesta cifra di 11 euro, con una copertina illustrata da Fabian Negrin.
Per 11 euro avremmo preferito una copertina paperback, più maneggevole su un formato così piccolo, e un’illustrazione più bella, anche se quella di Negrin non è deplorevole, magari con un inserto illustrato all’interno.
Ma per come si sono messe le cose nell’editoria italiana già bisogna ringraziare che questi libri vengano tradotti.

Mabey è un naturalista d’approccio romantico, come lui stesso dichiara, un tipo sensibile, afflitto da una depressione ondivaga e da frequenti attacchi di panico. Un osservatore che ben volentieri si scioglierebbe in una pozza d’acqua sulla terra, solo per il desiderio di abbandonare questa “tropo solida, solida carne” e penetrare il misterioso dialogo tra l’acqua, la terra, le foglie, gli animali, le rocce, le nuvole.
Un sognatore che si perderebbe in tutto questo, a cui la vita umana non basta, che non mette l’uomo al centro della sua visione naturalistica.

Tutto l’opposto di Clément, gigione tra i giardinieri, imbucato della filosofia, egomaniaco allo spasimo.
Le conoscenze naturalistiche di Mabey sono di una caratura e di uno spessore ben superiore a quello dell’ultra-famoso Gilles, grafomane d’oltralpe, che è riuscito a impadronirsi di una fetta di “filosofia del giardinaggio” e non molla la presa sull’aureo filone editoriale trovato (Quodlibet in questi giorni pubblica un altro suo volumetto).

L’inerzia editoriale e l’inconsistenza delle conoscenze naturalistiche da parte del pubblico, conducono inevitabilmente ad emulare e citare il famoso Clément, a scapito di un Mabey che quando scrive inchioda sulla pagina dei sentimenti, non come Clément, volatile come i pappi di un soffione.

La lettura di questo piccolo libro, un cahier di ottanta pagine, è come abbandonare la terra e farsi trascinare da una melodia arcaica. Seguire i percorsi di Mabey è come rivivere l’infanzia, vedere le Fate, rimanere soli sulla Terra.
E’ un’esperienza.
La sua scrittura dolce eppur icastica, i suoi racconti autentici, sinceri, il suo saltar di palo in frasca, tirando dietro di sè un lettore sempre più incuriosito e sempre più ammirato, per me fanno di Mabey il più valido naturalista tradotto in Italia, e i suoi libri delle squisistezze da non perdere.
Se ne vorrebbe ancora ed ancora, perchè Mabey fa vibrare le corde del cuore. Al contempo ci si rende conto che “ancora e ancora” lo trasformerebbe in un melenso fanfarone letterario, e che un libro l’anno, sia pur di ottanta pagine scarse, va bene.
Quelle ottanta pagine portano nel mondo delle meraviglie.

Il taccuino del naturalista_RichardMabey_The perfumier and the stinkhorn

Seconda edizione per “Elogio delle vagabonde” di Gilles Clément

Seconda edizione DeriveApprodi, collana habitus
Seconda edizione DeriveApprodi, collana habitus
Ripubblicato, per i tipi DeriveApprodi, la seconda edizione di Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, del notissimo giardiniere e archi-star Gilles Clément, nonchè mio personale amico.

Immutato il testo, con una prefazione di Andrea di Salvo, di cui compaiono le recensioni su Vìride-Alias, leggermente compattato il formato, forse per essere reso più tascabile.

Mi duole eccepire sulle copertine. La prima, avvantaggiata dal formato slanciato, era molto più semplice ed elegante, anche se non originale; la seconda appare come una bustina di semi di nigella con qualità da cellullare (nel senso di ammanettamento e trasporto in galera per il grafico, di cui non faccio il nome, Andrea Whor).
E’ mai possibile, mi chiedo, con gli strumenti fotografici e di composizione grafica oggi in dotazione anche ai pc domestici, produrre delle copertine così anonime e mal fatte?
Evidentemente sì, e non è un merito.

Invece è interessante l’inserimento nela collana habitus. Sul termine “habitus” i filosofi hanno discusso in maniera approfondita e una interessante riprova è il volume di Venturi Ferriolo Percepire paesaggi. “Habitus” è dunque non solo il comportamento, ma il luogo che determina tale comportamento. Comportamento, luogo, nicchia ecologica (habitat) e paesaggio che funge da grande scatola contenitore, si fondono insieme in una riflessione non solo giardinesca o botanica, ma anche sociale e biologica.
elogio delle vagabonde_erba delle pampas
Clément ha letteralmente sconvolto l’establishment del giardinaggio mondiale con il suo “Manifesto” e i suoi paesaggi planetari. Mi chiedo cosa ne diranno tra due o tre secoli i giardinieri del futuro e come ne saranno influenzati.
Ormai non si può prescindere dalle sue idee: e come si potrebbe? Clément rappresenta per il giardinaggio ciò che per l’economia sono stati Rifkin e Klein. In un mondo che tende alla globalizzazione non si può ignorarare che questo avviene anche per le piante, gli animali, i parassiti, le avversità, le malattie (e non parlo solo di quelle delle piante, basti pensare alle influenze pandemiche).

Clément è stato il primo giardiniere a porre un forte accento su questo aspetto, e a sfruttarlo, esteticamente ed eticamente nei suoi giardini. Sottolineo “eticamente” perchè il giardinaggio di Clément non vuole essere solo un “bel lavoro, gradevole e ben fatto”, ma un buon lavoro, che gratifichi chi lo compie e chi lo osserva non solo con il senso del gusto estetico impermanente, ma anche con quello più profondo del gusto estetico rafforzato dalla bontà etica.

Se mi è consetito, è proprio in questo la vera rivoluzione di Clément, che al di là della piacevolezza alla vista, propone dei giardini che rappresentino anche un atteggiamento etico e morale nei confronti della Terra e dei suoi abitanti, che siano uomini, cani, insetti o microrganismi.

Insomma una riunione di ciò che il Postmodernismo aveva conclamatamente disgiunto: il buono col bello (il vero essendo uscito dalla scena molto tempo addietro. Cfr. I Trascendentali traditi, di Claudio Sottocornola).

Giardini sì, dunque, ma non con la sprezzante superbia di un Russel Page o la spocchia di una Vita Sackville-West, giardini per tutti e giardini che potenzialmente possono trasformarsi in tutto, grazie alla quantità di biodiversità che li costituisce. Non giardini immoti, come quelli mummificati dell’ Ottocento inglese o del Barocco francese, da ammirare e su cui costruire splendide analisi critiche, ma giardini che rappresentino non tanto una aleatoria ontologica giardinità – se ci è consentito usare temini platoneschi- ma le potenzialità della terra e della Terra.

Confesso che dopo l’infatuazione iniziale con il celbre “Manifesto” ho avuto per Clément sentimenti contrastanti, anche per via degli accesi dibattiti che abbiamo costruito assieme, ma i suoi libri sono imperdibili. E se avete lisciato la vecchia edizione di Elogio delle vagabonde, non perdete questa.
Nonostante la copertina.

Prima edizione, più lunga e stretta, in uno stile cahier
Prima edizione, più lunga e stretta, in uno stile cahier

Un consiglio per te, Gilles

Un consiglio amichevole per Gilles.
Brevettati i brand “giardino planetraio” e giardino in movimento”. Qualcuno poterebbe pure rubarteli. Magari meglio se ci fai mettere il copyright sopra, così di fai un tot al mese solo di diritti. Ti ci compri la foresta amazzonica o un’isola tutta per te.

Comunque, vorrei avvisarti che all’incirca dal 1800 (periodo in cui fu coniato il termine “biologia”), la scienza chiama “vita sulla terra” quello che tu chiami “giardino planetario”.

E ora che ci sono con i consigli, smetti di scrivere libri di giardinaggio, ti prego, non è il tuo genere. Datti ai racconti di viaggio e ai travelogues. Quelli ti escono bene. E non pubblicare un libro l’anno, stai diventando come Bruno Vespa. Isomma, datti una calmata. E non farci passare come oro colato quello che in realtà è acqua di fontana.

Ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa

Mi capita sempre più spesso, sia girellando per il mio paese che guardando immagini in internet, ma anche sentendo o leggendo i discorsi degli altri, di intravedere una precisa tendenza dell’ architettura contemporanea che include edifici e giardini, e in particola modo quell’architettura volta a creare parchi pubblici o zone verdi attorno ad edifici, uffici, quartieri popolari o eleganti.
Questa tendenza mi sembra nascere con l’inizio della globalizzazione, della “tonnellata umana”, della costruzione di architetture in paesi in via di sviluppo, come alcuni del Sudamerica, che più facilmente di altri hanno accolto e raccolto le possibilità dei nuovi materiali, del pensiero architettonico contemporaneo, dell’audacia delle forme.

Le foto che vi propongo, tratte da Vulgare.net , vengono da Copenaghen, una città che da anni si pone come modello di efficienza, libertà, ampiezza di vedute, unite ad una magistrale capacità di conservare il passato.

The City Dune, SEB Bank
Vulgare.net non è mai prolisso nelle descrizioni (quando ci sono), per cui qui è da dedurre che la zona attrezzata esterna agli edifici (non oso chiamarlo “spazio verde”) è una sorta di punto di accoglienza per chi transita o per chi deve rimanere nei pressi degli edifici che ospitano la banca.
Calcestruzzo in pendenza, conchette per gli alberi

Per sedersi c'è il muretto. Panchine no.

Buono per fare un po' di skate

A prima vista il progetto mi è sembrato buono e ben fatto, ben integrato nella città, con spazi polimorfi e invitanti…ma un sottile senso di freddezza mi ha pervasa.
Sono state le conchette degli alberi a darmi da pensare. Voi alberi -vogliono dire quelle conchette- dovete stare qui. E’ stabilito che stiate qui e non potete essere spostati neanche se ce ne fosse la necessità. Se uno di voi dovesse ammalarsi, verrebbe sostituito con un altro identico. Siete come dei pezzi di plastica dei Lego, o come gli alberelli dei modellisti, morto un pioppo se ne fa un altro.
E lo stesso vale per chi vi sosta, chi fa lo skateboard. Se non sei tu con lo skate, sarà un bambino uguale a te.
Come fossimo oggetti da prendere e collocare nel presepio di lusso della banca che vuole fare l’ecologista.
Ho due sospetti: il primo è che questi mini-parchi attorno ad uffici pubblici o privati siano solo uno specchietto per le allodole, ma che in realtà siano progettati esattamente con scopi dissuasori nei confronti di alcuni tipi di persone o classi sociali (nel nostro caso la City Dune è impraticabile per anziani e portatori di handicap).
Il secondo è che i moderni paesaggisti urbani non sappiano in realtà cosa fanno. In questo caso mille volte benvenuta la spocchia e l’autocelebrazione di Gilles Clément, che almeno utilizza delle piante che sembrano vere, non degli alberi che hanno la parvenza di plastica. Una progettazione come quella della City Dune è ben fatta, leccata, fantasiosa eppur e semplice, ma non è un punto di aggregazione, nè un luogo in cui si possa dire che si sente l’odore inconfondibile della bellezza.
I moderndi disegnatori urbani progettano a tutta forza impianti, parchi, piste pedonali e ciclabili che in fin dei conti allontanano la gente dalla città. Tutti sono alla ricerca della purezza bauhausiana e lecorbusieriana, sulla carta il loro progetto è molto bello, accattivante, moderno. Ma in fin dei conti spesso sono stilismi vuoti e fini a se stessi, virtuosismi professionali che tanto piacciono alle pubbliche amministrazioni, ma incapaci di arricchire veramente una città.
La società ha bisogno di rimescolarsi, di abbattere le differenze, i parchi urbani devono essere il cuore di questo processo.

Infine il proverbiale “un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto” diventa “un posto per ogni persona, ogni persona al suo posto” (che è esattamente quello che vuole l’amministrazione) e ritorna ad essere “un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto”, perchè entrando in parchi del genere noi cessiamo di essere individui autocoscienti e diveniamo “massa”, cose, cose che accidentalmente si muovono, hanno due braccia e due gambe e magari si portano uno skate da casa. Non abbiamo più individualità.
Ecco, questa è la definizione di non-luogo data da un altro spocchioso come Marc Augè.
Per me questo parco funzionerebbe meglio come cimitero delle anime.

In uno scenario urbano, l’artificio è il giardino

Sto leggendo Elogio delle vagabonde del solito Gilles Clément.
Clément mi disturba un po’ con la sua spocchia da grande esploratore, con la sua aura di viaggiatore “estremo” e la sua autoproclamazione di sovrano dei “giardinieri planetari”.
Tra l’altro sembra che la parola “elogio” vada un sacco di moda, oggi: oltre le tradizionali follia e imperfezione, si va dalla pigrizia alla pizza, dai gatti, ai cani, dal calcio al frammento fino al nulla più totale. In IBS troverete 16 pagine con la ricerca “elogio”. Leggasi sedici.

Però ho detto mi disturba solo un po’ , e lo penso. Il caro Gilles è “uno che si sente”, eh, per carità, non è uno che va a vangare la terra dell’Amazzonia e poi non ne scrive sopra un libro, ne fa un e-book, un reportage fotografico, un servizio su un magazine importante. Insomma, è uno di quelli a cui piace stare sotto i riflettori.
Ma nonostante quel sottile senso di orticaria che pervade la lettura, non si può non riconoscere che scrive veramente bene. Una scrittura familiare, ma non domestica, lontanissima dai miserevoli impiastri di san Carletto Pagani, buoni appena per il volantino domenicale della diocesi, e dall’aneddotica romanzata di Paolo Pejrone, veleggiante su un mare di superficialità come una barchetta di carta in una pozzanghera.
E’ uno stile limpido, scorrevole, arguto, informativo, che non lascia margini all’incertezza, che dice quel che vuol dire e lo fa con chiarezza e precisione. Stile da cui noi italiani siamo lontanissimi, e per la verità anche Gilles è un eccezione tra i francesi, che di solito si abbandonano a vagheggiamenti poetici sull’onda di Rousseau. In tal senso credo che Gilles abbia letto molto in inglese e forse anche in tedesco, lingue fortemente concise. Comunque si evince la sua natura letteraria poliglotta.

Bene, nel capitolo Cardo asinino ci sono due frasi che hanno attirato la mia attenzione, la prima è questa:

L’onopordo figura tra le piante “ornamentali”[…]. Sospettoso riguardo a tutto ciò che si nasconde dietro all”ornamento” –visto che respingo in una botta sola le specie che si fregiano di tale posizione– non faccio uso di questo vocabolario.

Riguardo a ciò, esattamente come Gilles è sospettoso della parola “ornamento” , io sono sospettosa dei progettisti di giardini che sostengono di non usare il vocabolario delle piante ornamentali.
Sarei curiosa di sapere che aggettivo attribuisce alle piante, che l’amministrazione pubblica di Parigi gli ha fatto pervenire, regolarmente acquistate presso vivai (di piante ornamentali), che ha usato nei giardini della Défense o nel Parc Citroen.
Visto che lui respinge in “una botta sola tutte le piante che si fregiano di tale posizione” forse avrebbe fatto meglio a creare un deserto di sabbia rossa o a comprarsi un nuovo dizionario.
In un mondo in cui i tropicalisti vanno alla ricerca dell’ultimissima novità tra le specie finora sconosciute, in cui anche le rose che non fanno fiori sono considerate “da collezione”, in cui i maniaci della prateria hanno riportato in auge le “erbacce”, in cui gli ecologisti attribuiscono funzione biodiversitale anche alla pianta più raccapricciante, mi spieghi il signor Clément cosa non è oggi ornamentale.
Mi permetto l’azzardo -non poi tanto azzardato- di spiegare questo passaggio. Credo che Gilles volesse dire più propriamente che rifiuta tutte le piante nel momento in cui il loro status ornamentale è dichiarato.
Ciò non cambia però la riflessione riguardo ai suoi giardini e al perchè -data questa premessa- lui preferisca fare giardini (la cui ornamentalità è storicamente nota) e non parcheggi, sul cui lato estetico effettivamente poche parole sono spese.

Insomma, signore e signore, diciamocelo: il caro Gilles sa benone che i giardinieri vogliono essere presi un po’ in giro e amano le frasi d’effetto. E d’altra parte, noi “blogger verdi”, se non ci fosse lui, di cosa parleremmo? Di Pejrone, di Mauro Corona? Meglio il suicidio mediatico.

Seconda frase:

L’onopordo si sposta e si mantiene in quell’area urbana dove trova uno spazio fatto su misura per lui, una compagnia vegetale in accordo con il mondo che esso rappresenta.

Da questa frase si evince prima d’ogni cosa un elemento che sta diventando sempre più caratterizzante delle metropoli moderne e dei giardini delle archi-garden-star: in una città totalmente disumana, artificiale, omogeneamente aliena e alienante, è paradossalmente il giardino, che dovrebbe essere l’elemento naturale, ad essere quello d’artificio. Il nostro elemento naturale sono i muri, i caseggiati, i cancelli, i portoni, gli ascensori, le impalcature, le vetrate. Un giardino diventa esotismo, trascendenza, innaturalità.
Ed è proprio su questa linea che si muovono le garden-archi-star. Gradiscono, anzi, bramano, che il loro giardino sia ficcato tra palazzoni e costruzioni così fitto come una zeppa nel culo. E’ il caso della High-Line a New York e del Millennium Park, tanto per dirne un paio.
Le garden-archi-star si sentono immediatamente gratificate se possono “riqualificare” una zona.

Torniamo all’Onopordum. Clément dice: “[…]uno spazio fatto su misura per lui, una compagnia vegetale in accordo con il mondo che esso rappresenta”.
Già, ma quale mondo rappresenta? L’Onopordum rappresenta un mondo in assoluto, o di volta in volta diverso? Io non l’ho capito e non so spiegarlo.
Questa frase potrebbe voler dire che l’Onopordum rappresenta il mondo naturale, in senso assoluto. Oppure che rappresenta quello delle specie selvatiche e ruderali, in assoluto. Oppure che rappresenta la natura sottratta agli scopi a cui è destinata dall’uomo, in assoluto. Oppure che rappresenta il mondo naturale all’interno della città, in assoluto.

Oppure potrebbe significare che rappresenta una di queste cose di volta in volta a seconda del caso, o che rappresenta quello che Gilles Clément vuole che rappresenti in quel momento.

Infine, signore e signori: occhi aperti e orecchie appizzate.

Il giardino in movimento, ed. Quodlibet

Ricevo dalla casa editrice Quodlibet la notizia che dal 23 marzo sarà disponibile in Italia un altro libro di Clément, autore abbastanza prolifico ma di cui scarseggiano le traduzioni in Italiano.
Il libro è intitolato Il giardino in movimento

Parco Citroen, Parigi
Il giardino in movimento racchiude in sé diversi gradi di leggibilità: è una guida per il giardiniere, è un trattato di filosofia della natura, è un resoconto letterario delle esperienze che Gilles Clément (paesaggista, ingegnere agronomo, botanico ed entomologo) ha fatto interagendo con la natura. E parte non secondaria dell’importanza di questo libro sta nell’imponente apparato di immagini che lo stesso autore ha raccolto a corredo del suo racconto.
Non un manuale o un prontuario, dunque, non si tratta di precetti o prescrizioni, ma un vero e proprio viatico, la scorta di provviste per il viaggio attraverso quello che Clément ama definire – nel quadro di una analisi che spesso mostra anche i limiti dei concetti tradizionali dell’ecologia – il giardino planetario.
Indispensabile, per il giardiniere (come Clément stesso ama farsi definire), è innanzi tutto un’educazione dello sguardo, allo scopo di acquisire la facoltà di rinvenire ciò che nel mondo vegetale è al contempo invisibile e fondamentale. E in tal senso questo libro fa da complemento al Manifesto del terzo paesaggio, pubblicato da Quodlibet nel 2005, integrandone e arricchendone le idee in forma
più estesa e narrativa.
Dall’altro lato vengono descritti e analizzati nel dettaglio una miriade di casi concreti per rendere trasparente cosa significhi dare corpo a un’idea paradossale come quella di «giardino in movimento», spazio in cui la natura non è assoggettata e soffocata dalle briglie di un progetto, di uno schema preconfezionato, e dove spesso è più prezioso sapere cosa non fare piuttosto che intervenire e aggredire. Si apprende l’arte di agevolare, favorire, incoraggiare, e mentre «il gioco delle trasformazioni sconvolge costantemente il disegno del giardino», tanto il giardiniere, ovvero il «guardiano dell’imprevedibile», che ogni eventuale visitatore, possono nutrirsi delle immancabili dosi di sorpresa che la natura riserva loro quando si esprime finalmente nella sua pienezza.

Gilles Clément
Il giardino in movimento
Con 128 tavole a colori fuori testo
Repertorio delle piante citate a cura di Enrico Scarici
Traduzione di Emanuela Borio
«Quaderni Quodlibet»(160×225 mm)
ISBN 978-88-7462-335-8
pp. 320 – euro 28,00
In libreria dal 23 marzo

Note biografiche:
Gilles Clément (1943), docente presso l’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles e scrittore, ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni (tra queste il Parc André Citroën e il Musée du quai Branly, entrambi a Parigi) un’intera generazione di paesaggisti europei. Ha pubblicato tra l’altro, Le jardin planétaire(catalogo della mostra alla Villette di Parigi, 1999), La sagesse du jardinier (2004), e due romanzi, Thomas et le voyageur (1997) e La dernière pierre (1999).
In italiano sono stati pubblicati l’antologia Il giardiniere planetario (22 Publishing, 2008) e Elogio delle vagabonde (DeriveApprodi 2010). Quodlibet ha già pubblicato Manifesto del Terzo paesaggio, a cura di Filippo De Pieri, nel 2005.

Quodlibet – via Santa Maria della Porta 43
62100 Macerata – telefono 0733 264965, fax 0733 267658
http://www.quodlibet.it – ufficio stampa: stampa@quodlibet.it

Ancora Gilles Clément

Gilles (gli do del tu) va molto di moda. L’establishment culturale giardinicolo va assolutamente pazzo per lui, lo trovano “divino”. Ne parlano, lo citano, lo accarezzano, lo blandiscono, ma non lo comprendono.

Neanche il servizio di Rosanova, seppur bellissimo (di gran lunga l’analisi più sensata del suo pensiero mai fatta nella nostra italietta giardinicola) riesce a far emergere le conseguenze  della enorme portata di quello che Clément ha scritto.

Dopo Clément il giardino  è come un personaggio di Italo Svevo o Pirandello: completamente dissolto, smaterializzato, annientato.

Cosa rimane? E’ anche la domanda che si fa Giubbini.

Rimangono la campagna e i giardini degli altri. La campagna (la foresta, gli incolti, i prati, ecc.) come “giardino planetario”; i giardini degli altri come “giardino sociale”.

Ma attenzione, Clément lascia ben viva un’altra opportunità, che non riesco a capire come non sia stata individuata:  se il minimo artificio è comunque fasullo, e l’assenza di artificio esiste solo in Natura, il massimo artificio (nel rispetto della biodinamicità e della biodiversità), non è toccato dalle tesi di Clément. La grande rappresentazione scenica rimane. L’aspetto ludico, di illusione cosciente, è più che ben desto.

Mangio sano, ma nessuno mi vieta di prendere un po’ di mescalina, ogni tanto. Una mescalina che guarda caso, non fa neanche male.

Il Mostro di Loch Ness non esiste

Era l’episodio Il Club dell’Orrore, di Dylan Dog, in cui i membri del Club si riunivano in una casa sulle sponde del lago per raccontare storie di paura sul mostro che lo abita.
Quando il presidente del Club viene invitato da Dylan Dog a raccontare la sua storia dell’orrore, lui semplicemente dice :”Il mostro di Loch Ness non esiste” ed è questo l’orrore più grande.

La verità su Gilles Clément
Senza farla troppo lunga, Gilles Clément è uno che si è un po’ rotto le palle del solito andazzo giardinicolo. Ci ha scritto sopra qualcosa, ma scrivendo quel che ha scritto, in pratica ha detto “il giardino non può più esistere, se volete il verde, dovete andare in campagna o accontentarvi di guardare i giardini degli altri”.
Bene, sono d’accordo.
Ora: sta di fatto che però che chi ama i giardini non può fare a meno di pensarli, farli e sognarli, e -soprattutto- che lui di lavoro fa proprio il progettista, e questo gli causa un piccolo conflitto di interessi con il suo se stesso scrittore.
Ma i turisti sono affamati di queste cose, gli dai in pasto un giardino di Gilles Clément e quelli se lo divorano. E lui lo sa.
Insomma, fermo restando che la totale coerenza è solo dei Santi, un po’ “ce fa”. Diciamocelo.