L’albero perfetto

Voglio un albero che sia colorato e appariscente, che non sporchi, non perda foglie in continuazione, lasci passare la luce in inverno e faccia una bella ombra d’estate.
Voglio che non si sciupi col vento e la salsedine, che non richieda annaffiature, che non cresca troppo ma non sia neanche piccolo, che non ingombri e che non sia necessario potarlo, e soprattutto che costi poco.

Con 10 euro lo prendi alla Lidl del colore abbinato alle tue petunie.

Fahrenheit Radio3 l’ha cannata sul giardinaggio (come al solito)

Seguo Fahrenheit solo occasionalmente e sempre un po’ a smozzichi, tra una commissione in farmacia e una corsa in redazione. Non ne sono entuasiasta, ma quando lo trovo, lo ascolto volentieri. A volte è molto interessante, altre si adagia su una cultura superficiale e un tantinello commerciale.
Oggi veniva presentato un libro: La ladra di piante di Daniela Amenta, un’occasione per parlare di giardini e giardinaggio, che tirano sempre da aprile a settembre, per cadere nel profondo oblio mediatico in autunno e in inverno (quando il vero giardiniere lavora davvero).
Mi cade l’orecchio su una frase: “Le piante sono inanimate”.
Credo di essere sobbalzata sul sedile dell’auto e di aver per errore azionato i tergicristalli.

Se per “inanimato” vogliamo intendere “privo di autocoscienza, di intelletto, di ragione, di autodeterminazione e di organizzazione sociale”, in breve “esseri non senzienti”, posso anche essere d’accordo. Ma le piante sono ben lontane dall’esssere inanimate se con il termine “anima” si intende l’antico concetto greco, cioè “anemos”, spirito vitale, vento, movimento.
L’anemometro è lo strumento che usiamo per misurare la velocità del vento, e i “cartoni animati” sono tali perché si muovono. Gli animali vengono detti tali poiché ritenuti istintivi, in grado solo di muovere il corpo, spostarsi, quasi senza volontà.
Ovviamente anche un ragazzino appassionato di biologia sa che le piante si muovono, attraverso viticci, rami, semi e propaggini, proprio come se camminassero con i loro stessi piedi, non diversamente da quanto sono in grado di fare gli Ent di Tolkien.
kudzu+15
Pueraria lobata o Kudzu, tanto per fare un esempio.

Le piante possiedono una quantità incredibile di modi per reagire e interpretare i segnali esterni, sono in grado di esercitare una sorta di comunicazione tra loro, attraverso segnali biochimici. Non sono senzienti, ma sono esseri viventi. La parola “inanimato” non calza affatto e non voglio neanche provare a capire come possa venire in testa quando si parla di piante, di Natura.
Il fatto è che le piante si muovono più lentamente degli Esseri Umani, e qui “il deficit di attenzione del mondo moderno” colpisce ancora, facendo pronunciare a Lipperini questa frase rivelatrice di una superficialità esplosiva.

Andiamo avanti. A ridosso delle piante inanimate mi tocca sentire la SOLITASOLFA della botanica.
Il giardinaggio e la botanica sono due cose completamente differenti: basta il dizionario, vi assicuro.
Il giardinaggio è la pratica della coltivazione delle piante e di disporle secondo uno schema gradevole.
La botanica è una scienza finalizzata alla classificazione delle piante in famiglie, generi, specie, ecc.
Personalmente non mi è mai arrivata notizia che Linneo fosse un abile giardiniere, per contro John Bartram, che aveva scarse o nulle conoscenze di botanica, era un coltivatore formidabile.
Solo chi non conosce le immense sfide del giardinaggio, e quelle ancora più complesse della creazione di un giardino, può immaginare di nobilitarlo chiamandolo “botanica”, poiché il giardinaggio contiene la botanica, ma non viceversa.
Non posso addentrarmi nella distinzione tra giardinaggio e kepopoiesi per non stancare il lettore.

Proseguiamo oltre: se la botanica si insegna alle università, il giardinaggio non c’è scuola che lo insegni.
Gli istituti di agronomia e le Facoltà universitarie sfornano tecnici che considerano i vegetali come una merce: pomodori in scatola e fiori recisi. I pochi corsi di tecniche a scopo ornamentale sono del tutto insufficienti, al di sotto di qualsiasi manuale corrente. Ne consegue che i dottori in Agronomia sono in genere ignoranti su ogni cosa che riguarda il giardino ornamentale, ma avendo appeso al muro un titolo universitario, si comportano con arroganza e disprezzo. I pochi agronomi dotati di capacità creativa ed estetica, l’avevano anche prima di mettere piede nelle aule universitarie.

I corsi di paesaggismo e architettura del paesaggio sono praticamente ridicoli e comunque vincolati alle Facoltà di Architettura e Ingegneria.

In Italia un bravo giardiniere s’è fatto sempre e comunque da sé, attraverso lo studio continuo e la pratica indefessa e MAI attraverso un solo ed esclusivo percorso scolastico. MAI.

Concludendo: questa gran confusione tra giardinaggio, creazione di un giardino, botanica e agronomia è tipica dell’Italia ignorante in ogni cosa che riguardi la natura e la biologia.

Se uno confondesse il greco col latino, cosa pensereste?

Io penserei che s’è giocato ogni credibilità.

Giardini da incubo. Mai titolo fu più azzeccato di questo

Andrea+Lo+Cicero1Credo di essere precipitata nella puntata più brutta di “Giardini da incubo”, la recente trasmissione in onda su Cielo alle sei di ogni sabato pomeriggio.
Non avevo avuto modo di vederla finora e prima di farmi un’opinione ho voluto aspettare di averne visto almeno un episodio.

Non siamo nuovi a questo tipo di trasmissione sui giardini, né ai programmi in stile “tutorial” o “do it yourself” (DIY per i più trendy). Il digitale ha portato con sè centinaia di serie, in genere di valore prossimo alla zero termico (Fratelli compresi), preformattate, bancomattate, disinnescate, cartongessate, in cui ogni episodio è identico al precedente e al successivo.
Se questi show hanno un successo è unicamente per merito dei conduttori, che riescono ad animarle e a dargli carattere.
Quindi diciamolo subito: non c’è niente che si possa salvare da questa trasmissione. Niente.
Lo Cicero, che a guardarlo bene sembra un gran simpaticone e un vero amante del giardinaggio, sembra un palo della porta dello sport in cui eccelle: il rugby.
Gli ospiti di oggi mi hanno fatto venire la pelle d’oca: totalmente incapaci di un minimo di naturalezza, artefatti e finti.

Ma veniamo al giardino. Un appezzamento incolto di circa 150 metri quadri, di fronte ad una vileltta a schiera.
Un giardino che più anonimo non si potrebbe. Il compito più difficile per chiunque. In fondo un po’ tutti siamo buoni a ingentilire un bosco o a recuperare vecchi ruderi, ma un quadrato d’erbacce davanti casa è una missione per chi si è masticato John Brookes a colazione Christopher Lloyd a cena.

Mi spiace col cuore doverlo dire, perchè sono certa che è animato da buone intenzioni, ma la sciatteria e l’incompetenza dimostrate mi hanno lasciata letteralmente senza fiato.
Un neofita, fresco di 101 Cose da sapere avrebbe fatto di certo meglio.
Le piante non sono chiaramente neanche state scelte, ma offerte dagli sponsor della trasmissione (Gardena, Unopiù e Husqvarna, una sorta di Triade Cinese, di 666, di Tana delle Tigri del giardinaggio) e disposte in maniera quasi casuale lungo il perimetro del muro.
Era meglio prima, sul serio.

E allora? Tentiamo di affrontare un discorso critico su un qualcosa che non avrebbe diritto di essere neanche argomento di conversazione spicciola.
1) Con grande tristezza devo constatare che l’opinionismo è diventato la nostra sola cultura. La televisione ci impone di starle dietro.
2) Le dinamiche intrinseche del giardinaggio sono ancora del tutto sconosciute a chi mette sul mercato trasmissioni di questo genere (vale anche per Chris il mago dei giardini e L’erba del vicino). In poche parole: queste persone non ne capiscono una beneamatissima.
3) Il giardino di casa non è considerato da noi un luogo dove praticare il giardinaggio o esprimere una posizione estetica, ma solo uno spazio extra fuori casa, che si utilizza per rilassarsi. San Relax è il patrono dei giardinieri italiani.
4) gli show fai-da-te italiani sono clamorosamente fallimentari.

Da qualcuno sento nominare il programma di Carlo Pagani. Siamo non su un pianeta diverso, ma su un altro sistema solare. Eppure neanche quello mi appare granché. Pagani è illeggibile su “Gardenia” mentre è molto gradevole di persona. Ma è poco coinvolgente e l’accento è davvero troppo marcato. Personalmente non riesco a starlo a sentire oltre i tre minuti.
Le informazioni sono un po’ leggere e ripetitive e forse la scelta delle piante non è molto originale. Il tutto risulta statico e noioso. Il suo è tuttavia il miglior programma sul giardinaggio attualmente in corso sugli schermi italiani. Però a questo punto preferisco leggermi un manuale.

E con questo non ho altro da dire su quest’argomento. Purtroppo.

Wiki-commedia Shoshoni in un solo atto

Dramatis personae
Il Grande Capo Estiquatzi sciamano e capo della tribù, dotto in ogni cosa che riguarda il Cielo, la Terra e gli Spiriti
Squaw Pelle di Rana, giovane ragazza bruttina e un po’ ottusa
Veditore al mercato

Una bella mattina di giovedì il Grande Capo Estiquatzi e la sua fida discepola Squaw Pelle di Rana si recano al mercato per acquistare utensili, cibo ed erbe. Squaw Pelle di Rana si lascia distrarre dalle novità.

Venditore (richiamando il pubblico): Robbba bbbuona, robbba finaaaaa!
Squaw Pelle di Rana: Grande Capo, vieni a vedere che cosa strana c’è qui! Non avevo mai visto una cosa del genere, che cos’è?
Venditore: non lo so, l’ho comprata da un viaggiatore solitario con uno accento mai udito prima. Forse il tuo capo lo sa. Grande Capo, sai che cos’è questo oggetto?
Grande capo Estiquatzi: certo che lo so, è un computer portatile, un laptop. E’ strano che tu l’abbia, non sono stati ancora inventati. Chi te lo ha dato?
Venditore: mah! era uno straniero, aveva gli occhi azzurri, ha detto di chiamarsi Jimbo.
Grande Capo Estiquatzi: Jimbo? Jimbo Wales?
Venditore: esattamente Grande capo, sei proprio onniscente! Mi ha detto che tu lo avresti saputo e di cercare una cosa che si chiama uichi, uichi
Grande Capo Estiquatzi: Uichipedia? vuoi dire?
Venditore: precisamente Grande Capo, onore a te, che conosci tutto sopra la terra e su nel cielo. Mi ha anche detto che su questa uichi-cosa, avrei trovato il tuo nome.
Grande Capo Estiquatzi: ah, non lo dubito, Squaw Pelle di Rana, digita il mio nome sulla tastiera.
Squaw Pelle di Rana: cosa Grande Capo?
Grande Capo Estiquatzi: sulla tast…lascia, faccio io. leggi.
Squaw Pelle di Rana: Capo, non so come dirlo, ma il tuo nome è scritto in maniera errata. Qui c’è scritto Estiqaatsi, non Estiquatzi. Dice che sei uno zero e che sei un personaggio di Lillo e Greg. Ma che vuole mai dire?
Grande Capo Estiquatzi: lo so io che vuol dire: clicca su “modifica”
Squaw Pelle di Rana: qui, Capo?
Grande Capo Estiquatzi: esatto. Ora scrivi il mio nome corretto.
Squaw Pelle di Rana: non mi permette Grande Capo, mi dice che non sei un utente autorizzato e che non hai i permessi per effettuare lo spostamento di una pagina.
Grande Capo Estiquatzi: allora aggiungi che Lillo e Greg hanno copiato da me.
Squaw Pelle di Rana: mi dispiace Capo, mi dice che l’informazione è priva di una fonte attendibile e che devi seguire le linee guida del progetto di riferimento.
Grande Capo Estiquatzi: ma come, io non sarei una fonte attendibile su me stesso?
Squaw Pelle di Rana: così sembra.
Grande Capo Estiquatzi: apri una discussione Squaw Pelle di Rana, digli che sono io il Grande Capo Estiquatzi e che li mando a quel paese!
Squaw Pelle di Rana: Capo, mi chiedono di indicare quale paese scrivendo al portale di geografia.
Grande Capo Estiquatzi: ma vadano affanculo!
Squaw Pelle di Rana: mi scrivono di rivolgermi al portale di anatomia umana
Grande Capo Estiquatzi: ma sono pazzi?
Squaw Pelle di Rana: portale psicologia
Grande Capo Estiquatzi: per Duma Appah!
Squaw Pelle di Rana: portale religioni
Grande Capo Estiquatzi: spegni quel coso!
Squaw Pelle di Rana: portale tecnologia
Grande Capo Estiquatzi: argh!
Squaw Pelle di Rana: portale linguistica, sottosezione espressioni onomatopeiche. Capo, Grande Capo? A cosa ti serve quella mazza da baseball?
Grande Capo Estiquatzi: vai al portale giochi e sport e scoprilo!

Eventualmente ti telefono o ci vediamo al bar piuttosto che in ufficio

dal sito dell’Accademia della Crusca

Uso di piuttosto che con valore disgiuntivo

Quesito:
Vari utenti, fra i quali Anita Raffaelli, Laura Cadel e Nicola Cucurachi, ci hanno chiesto delucidazioni sull’impiego sempre più frequente di piuttosto che con valore di disgiuntiva “o”. Allo stesso quesito, già posto in precedenza da Miriam Ianieri, ha dato risposta Ornella Castellani Pollidori nell’ultimo numero de La Crusca per Voi (n° 24, aprile 2002). Per facilitare i nostri lettori riproponiamo qui di seguito il testo completo.

Uso di piuttosto che con valore disgiuntivo

«La signora Miriam Ianieri, di Roma, nel sottolineare l’impiego sempre più diffuso (soprattutto nel linguaggio televisivo) di “piuttosto che” nel senso della disgiuntiva “o”, manifesta il dubbio che il fenomeno sia “finora sfuggito […] tanto ai lessicografi quanto ai grammatici agli storici della lingua”…

Il fenomeno segnalato dalla signora Miriam Ianieri, cioè l’impiego ormai dilagante di piuttosto che nel senso di o, non è affatto sfuggito, naturalmente, all’attenzione degli storici della lingua (per parte mia, tanto per fare un esempio, ne avevo già discusso in un seminario del circolo linguistico della Facoltà di Lettere di Padova un paio di anni fa; e l’argomento è stato da me riproposto, in seguito, nell’àmbito dei lavori del Centro linguistico per l’italiano contemporaneo [CLIC]).

Si tratta, come ha correttamente individuato la nostra lettrice, di una voga d’origine settentrionale, sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo (in tal senso è azzeccata l’allusione nel quesito a un uso invalso «tra le classi agiate del Settentrione»). Era fatale che tra i primi a intercettare golosamente l’infelice novità lessicale fossero i conduttori e i giornalisti televisivi, che insieme ai pubblicitari costituiscono le categorie che da qualche decennio – stante l’estrema pervasività e l’infinito potere di suggestione (non solo, si badi, sulle classi culturalmente più deboli) del “medium” per antonomasia – governano l’evolversi dell’italiano di consumo.

Non c’è giorno che dall’audio della televisione non ci arrivino attestazioni del piuttosto che alla moda, spesso ammannito in serie a raffica: «… piuttosto che … piuttosto che … piuttosto che …», oppure «… piuttosto che … o … o … », e via con le altre combinazioni possibili. Dalla ribalta televisiva il nuovo modulo ha fatto presto a scendere sulle pagine dei giornali: ormai non c’è lettura di quotidiano o di rivista in cui non si abbia occasione d’incontrarlo. E purtroppo la discutibile voga ha cominciato a infiltrarsi anche in usi e scritture a priori insospettabili (d’altra parte, se ha prontamente contagiato gli studenti universitari, come pensare che i docenti, in particolare i meno anziani, ne restino indenni?).

Gli esempi raccolti nel parlato e nello scritto sono ormai innumerevoli e le schede dei sempre più scoraggiati raccoglitori (è il caso della sottoscritta) si ammucchiano inesorabilmente. Eppure non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio.

Mi limiterò qui a un paio d’esempi fra i tanti che potrei citare: dal settimanale L’Espresso, del 25.5.2001, incipit dell’articolo a p. 35 intit. Il cretino locale (sulla fuga dei cervelli dal nostro Paese): «È stupefacente riscontrare quanti italiani trentenni e quarantenni popolino le grandi università americane, piuttosto che gli istituti di ricerca e le industrie ad avanzata tecnologia nella Silicon Valley»; naturalmente questo piuttosto che pretende di surrogare la semplice disgiuntiva, ma il lettore non edotto è portato a chiedersi come mai i giovani studiosi italiani sbarcati negli Stati Uniti snobbino per l’appunto i prestigiosi centri di ricerca della Silicon Valley. E ancora: «… di questo passo, saranno gli omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari ad essere perseguitati»: frase pronunciata dal noto (e benemerito) dott. Gino Strada nel corso del Tg3 del 22.1.2002; in questo caso, la prospettiva d’una persecuzione concentrata protervamente sulla prima categoria avrà reso perplesso più di un ascoltatore…

Immaginiamoci poi che cosa potrà accadere con l’insediarsi dell’anomalo piuttosto che anche nei vari linguaggi scientifici e settoriali in genere, per i quali congruenza e univocità di lessico sono indispensabili.

Per quanto mi riguarda, non sono in grado di localizzare con sicurezza nello spazio e nel tempo l’insorgere della voga in questione. Mi risulta soltanto, sulla base di una testimonianza sicura, che tra i giovani del ceto medio-alto torinese il piuttosto che nel senso di o si registrava già nei primi anni Ottanta. È un fatto che questa formula è generalmente ritenuta di provenienza settentrionale (il che già contribuisce, presso molti, a darle un’aura di prestigio): «Un vezzo di origine lombarda, ma ormai molto diffuso, è quello di usare la parola “piuttosto” […] nel senso di “oppure”», osservava criticamente un paio d’anni fa, sulla rivista L’esperanto, anno 31, n° 3, 5 aprile 2000, il direttore Umberto Broccatelli (scrivendo però “piuttosto” in luogo di “piuttosto che”). Il lancio vero e proprio del nuovo malvezzo lessicale, avvenuto senza dubbio attraverso radiofonia e televisione (e inizialmente – è da presumere – ad opera di conduttori settentrionali), sembra potersi datare dalla metà degli anni Novanta. Resta da capire la meccanica del processo che ha portato un modulo dal senso perfettamente chiaro, e rimasto saldo per tanti secoli, come piuttosto che a virare – all’interno di un certo uso dapprima circoscritto e verosimilmente snobistico – fino al significato della comune disgiuntiva.

Per azzardare una ricostruzione di quel processo proviamo a partire da una frase del genere: «Andremo a Vienna in treno o in aereo». In questo caso le due alternative semplicemente si bilanciano. Se variamo la frase rafforzando il semplice o con l’aggiunta dell’avverbio piuttosto: «Andremo a Vienna in treno o piuttosto in aereo», chi ci ascolta può cogliere una tendenziale inclinazione per la seconda delle due soluzioni, quella dell’aereo.
Sostituiamo a questo punto o piuttosto con piuttosto che: «Andremo a Vienna in treno piuttosto che in aereo»; qui risalta abbastanza nettamente – sempre attraverso la comparazione tra due opzioni – una preferenza per la prima rispetto alla seconda. Dall’analisi delle varianti contestualizzate nelle tre frasi, mi sembra si delinei una possibile spiegazione del piuttosto che semanticamente ‘deviato’ di cui ci stiamo occupando (e preoccupando): in sostanza, può essere il prodotto di una locale, progressiva banalizzazione portata fino alle estreme conseguenze, cioè fino al totale azzeramento della marca di preferenza che storicamente gli compete (e che nell’italiano corretto continuerà a competergli).
Basterà avere un po’ di pazienza: anche la voga di quest’imbarazzante piuttosto che finirà prima o poi col tramontare, come accade fatalmente con la suppellettile di riuso.

Segnalo intanto la significativa “variatio” che mi è capitato di cogliere al volo qualche giorno fa (precisamente, il 17 aprile 2002), nel corso di una trasmissione televisiva che si occupa di alimenti e di buona cucina: un’esperta di gastronomia, chiamata a giudicare tra piatti a base di pesce allestiti in gara da due cuochi, nel sottolineare quanto sia importante anche l’effetto estetico nella presentazione d’una vivanda ha fatto osservare come nei molluschi dalle valve variopinte utilizzati in una delle portate ci fosse «più colore rispetto a una triglia anziché a una sarda» (triglia e sarde essendo i pesci usati nella preparazione di altre due portate). In effetti, una volta appiattito semanticamente piuttosto che fino all’accezione del latino vel, non c’è ragione che non accada la stessa cosa ad anziché (e anche, di questo passo, a invece che, invece di) […]».

Ornella Castellani Pollidori

ottobre 2002

L’articolo di colore che mette tutto grigio su grigio

Vengo subito al punto: su La Lettura, supplemento del Corriere della Sera di due domeniche fa (14 ottobre), intravedo un lungo articolo sui giardini.
Campeggia una gran foto del giardino di Daniel Spoerri a Grosseto, con la statua “Continuo” di Roberto Barni.
Titolo dellla pagina: “Il dibattito delle idee”.
Occhiello: “Costume: La vita agreste è divenuta una fede. Per un mutamento non solo interiore”.
Titolo dell’articolo: Contro le aiuole benpensanti.
Sommario: “La rivoluzione ora si fa sul balcone o in campagna. E per chi non ha il pollice verde: teoria e rieducazione”.
Firma: Mariarosa Mancuso

Che dire, con questa tavola imbandita di delicatessen ci aspettavamo minimo minimo un trattatato di sociologia del paesaggio. Invece ci troviamo di fronte al solito artico “verde”, messo lì perchè il “verde” è di moda, ma fa anche architecture style, home, craft, way of life, interior design, outdoor…e aspetta che forse mi scappa una parola in italiano.

Dopo un cappello non tanto comprensibile sulla risibilità di filosofia e poesia, l’articolo si addentra nel suo compito: una carrellata dei libri di giardinaggio che hanno fatto più discutere negli ultimi anni (il mio non c’è, lo dico subito per toglierci il pensiero).
Si parte, ovviamente, con il libro novità già diventata culto, E il giardino creò l’uomo di Jorn de Précy.
Quanto deve essersi divertita Mariarosa a leggere la nostra discussione su CdG dalla quale ha potuto trarre ispirazione per il suo allegro articolo!
Non è gentile neanche con l’inciuciatissima Pia Pera, la nostra Mariarosa, e se la mette sottogamba, ricordando a tutti (avevamo tentato di rimuoverlo) che ha scritto Il diario di Lo, su cui per fortuna si sta stendendo l’oblio. Poi le fa pubblicità, a lei e pure al Perazzi, i cui libri sono un “segno sicuro che tra i giardinieri-filosofi sono già incominciate le lotte intestine, le scissioni, le punzecchiature. Leggere per credere Giardini e no di Umberto Pasti[…]dove si celebrano i “giardini del benzinaio”.

Prima obiezione: Perazzi e Pera filosofi? e da quando? da quando sono caduti dall’albero?
Le “lotte intestine” forse Mariarosa non sa neanche che cosa siano. Oggi c’è una totale omologazione del pensiero giardinesco ed estetico in genere.
Lotte ben più aspre che quelle tra Pasti e le sciure milanesi si sono consumate in passato, quando filosofi del calibro di Pope, Shaftesbury, Burke, per non citare il nostro Rosario Assunto, parlavano di giardini DAVVERO.

E vi prego, ti prego, Mariarosa, leggi bene questa parola: davvero.
Parlavano veramente di giardini, di quel che sono, o potrebbero essere, e di quel che rappresentano per noi, di quello che ci vediamo dentro, e ne hanno -cosa impossibile- tentato una definizione assoluta.
Durante il Settecento si è combattuta una grande battaglia tra filosofi veri che erano anche dei giardinieri. Nulla di paragonabile alla conformaziome estetica di adesso, contro la quale basta scagliare qualche sassolino perchè i media gridino al miracolo e si scrivano parole come “resistenza” “contromanuale”, “controcorrente”, qualsiasi cosa, purchè sia contro qualcosa.
Chi poi segue quel “contro” a sua volta crea una moda, esattamente come è successo per gli orti comuni, gli orti in terrazza, la città verde, la bioagricoltura, la permacultura, l’orto biodinamico, l’orto biologico, l’orto vegan, e mi taglio le vene e do il sangue alle rape, ecc.

Ammiccamenti sul “flep” di Serena Dandini (nè un flop, ma neanche un flip, diciamo una via di mezzo), su cui non capiamo nè se il libro le è piaciuto oppure le ha prodotto una scarica del letame da cui poeticamente “nascon i fior”. Quel che sembra di capire è che l’ha trovato inutile.

Per il resto Mariarosa continua nel suo lungo articolo di “cultura”, deridendo con un velo di spocchia di colei che questi libri neanche li legge poichè li ritiene del tutto superflui (ma intanto li recensisce). A dirla tutta sembra che anche Kant e Schopenauer risultino un po’ superflui per una cultura accettabile secondo l’apparente metro di Mariarosa, quindi non sappiamo immaginare che tipo di libro legga, forse Heiddeger o Wittgenstein, così, la sera, tanto per passare un po’ di tempo prima di dormire, nelle ore morte che le lascia la costruzione della sua astronave che la riporterà dal pianeta dal quale proviene, e su cui ci sono i giardini più belli della galassia.

Continuando con una infilata di luoghi comuni giardinicoli che sembra uno spiedino pronto da mandare sul barbecue, Mariarosa tira fuori dal cilindro l’arcinoto video di Moretti che parla coi gerani (“più acqua, meno acqua?”), che in “tempi meno lagnosi erano fiori da piccola borghesia”, Maria Antonietta che giocava a fare la lattaia, l’elogio delle erbacce e la pazienza del giardiniere.

L’unico libro che non conoscevamo è Diario intimo di una donna giardiniere suo malgrado, delle famigerate edizioni Albatros.
Il solo testo davvero da studiare, secondo Mariarosa, è il nuovo Breve storia del Giardino del mio amico Gilles, che a stento vale come fonte per i licealini di Wikipedia.

“Gran spreco di citazioni illustri”, dice lei.
Gran spreco di carta. Dico io.

Ma la cosa che non ti perdono, no, Mariarosa, è di avermi costretta a scrivere questo pezzo. Perchè sai che significa questo pezzo? Che gli intellettuali, voi, i giornalisti, quelli che scrivete sulle grandi testate, siete senza idee, e vi attaccate al web per avere qualche spunto per scrivere di cose di cui date l’apparenza di non conoscere nulla. Che per rendere spiritosi e leggibili i vostri articoli li rendete amorfi e inutili, intercalati da qualche battutina di scarto e da un tono derisorio che invece di apparire umoristico rende la lettura quantomai deprimente.
Non ti perdono, no, di non aver messo neanche una tua idea in quel pezzo, ma di aver solo fatto finta di commentare i libri presentatai. Hai scritto un articolo basato sulla frode culturale.
E quello che più di ogni altra cosa non ti perdono, no, Mariarosa, è di aver costretto me a commentatare il tuo incommentabile articolo. Perchè il tuo articolo incommentabile lo è. Ma io qui devo stare attenta alle suggestioni che voi che siete gli arbitri del potere mediatico avete nelle mani, e mettere in guardia quella manciata di lettori che ho.

Come concludi il tuo pezzo, Mariarosa? “Basterebbe accettare le storture del mondo e non ci sarebbe bisogno di consolarsi con la potatura. Basterebbe rinunciare a qualche corso di autostima e non avremmo bisogno di una grandinata sulle petunie per imparare l’umiltà”.

Penso che questo finale sia amorfo e piatto più del resto dell’articolo, che per un giornalista è un’onta, perchè il finale deve essere esplosivo.
Penso che in queste frasi ci siano scritte un mare di cazzate. E penso che tu le abbia scritte perchè eri a corto di idee.
Le storture del mondo vanno combatutte, con la politica e con la cultura, non accettate. Forse volevi usare il termine “contraddizioni”? In quel caso forse ti consiglierei un dizionario migliore del Thesaurus di Word.
E l’umiltà è una strada tutta in salita, si può imparare da una grandita sulle petunie o da un caporedattore che ti straccia il pezzo.

Il nuovo-vecchio bosone, l’industria della scienza e della religione

Odio l’appellativo Particella di Dio. Se fossi Dio me ne sentirei profondamente offesa.
Questa mattina, il 4 luglio, il giorno della Festa d’Indipendenza degli Stati Uniti, il mondo riceve l’annuncio che è stato trovato, dopo quarant’anni, il bosone di Higgs, la particella che spiegherebbe il perchè della massa delle altre particelle subatomiche.
A dire il vero è roba un po’ anzianotta: il signor Higgs, presente oggi all’annuncio dato dal CERN, non si reggeva in piedi e sembrava vecchio come un attore di Hollywood truccato da spirito del male.
Insomma, chi segue queste cose non è che non sa la questione della forza elettrodebole, della Grande Unificazione e del problema della gravitazione.
Confesso di aver seguito con grande scetticismo le pubblicazioni di questi ultimi anni che indicavano questo particolare tipo di bosone (non esiste solo quello di Higgs!) come “la particella di Dio”.
Perchè mai?
Perchè una particella dovrebbe essere di Dio e tutte le altre no? E’ una semplice questione di logica: o Dio esiste, oppure no. Tertium non datrur.
Quindi -strettamente per quello che riguarda noi- o ha creato tutte le particelle, anche le grosse molecole della cacca e della puzza, oppure non ne ha creato un bel niente.

Stavolta la notizia che aspettavamo da una cinquantina d’anni sembra vera: pare che il bosone trovato sia proprio quello teorizzato da Higgs (e da altri scienziati, che però non sono famosi come lui). Insomma, non una farloccata come quella dei neutrini superluminali, per i quali ancora non ho capito chi si sia mangiato i soldi (speriamo che almeno una parte sia finita nelle tasche dei giovani ricercatori).

Ma quest’industria della religione è quanto di più disgustoso ci si possa immaginare. Il mio massimo rispetto per tutti i religiosi del mondo, ma non per le loro religioni, buone solo per riscaldarsi davanti al caminetto le notti invernali. Fiabe del focolare, bibbie, tanakh, corani, babbi natale, upanishad e altre amene storielle della buona notte. Per me sono molto più vere le storie di Fedro e di La Fontaine.
In particolare la chiesa cattolica brilla in disonestà intellettuale, appropriandosi, con il suo super-potere economico, delle altrui culture, usi, costumi, per traviarli e portare adepti a questo culto infame e delinquenziale.
Non gli sono bastati i culti pre-ellenici, pagani, solari, lunari, presenti in Europa prima del Cristianesimo (culto di cui il cattolicesimo è la negazione vivente). Durante l’arco di tutta la storia europea la chiesa ha sempre fatto sua la scienza, o appropriandosene o negandola. Ma all’epoca eravamo dei rudi imbecilli, ora siamo in grado di discernere, anche se lo specchietto delle allodole di una vita ultraterrena è un abbaglio troppo forte a cui resistere per molte, troppe persone, anche stimabili e sagge.
Nel pieno stile neocapitalista, la chiesa è una fagocita di idee e non mi stupirei di sapere che abbia finanziato queste recenti scoperte per poi poter manovrare le notizie dall’interno. Ha fatto una vera industria di successo del suo ideologismo da quattro soldi.

E così oggi è stata trovata la particella di dio.
Adesso sul palcosenico del piccolo schermo vogliamo lui, vogliamo Dio. Se lo meriterà un applausino, per aver sopportato per tanti secoli le coglionate dei preti sul suo conto, no? E adesso, poveretto, gli toccano anche quelle degli degli scienziati venduti alla chiesa e al suo sistema di potere. Un doppio applauso per il signor Dio, onnipresente, onniscente, onnivedente!
Clap clap!