Un paniere di frutta dedicato al Bel Sesso dall’Autore della Botanica e del Linguaggio de’ fiori – a cura di Simona Verrazzo , Bardi Edizioni 2021

In copertina la riproduzione di una cromolitografia dipinta a mano da Vittore Ranieri

Il piccolo libro Un paniere di frutta dedicato al Bel Sesso, a cura di Simona Verrazzo, non poteva trovare periodo migliore dell’autunno 2021 per vedere la luce. Un autunno che ha riportato i fiori alle fiere orticole, che ha visto il pubblico affamato di eventi culturali, libri, film. Il Salone del Libro molto accorsato, e la ripresa delle attività legate al mondo delle piante, dei fiori e del giardino, oltre che dei libri.

Inoltre nell’immaginario di ognuno di noi, l’autunno è da sempre legato al mondo della frutta. Forse perché anche il lavoro nei campi aumenta, dopo la vendemmia, la raccolta delle olive fino alla semina del grano.

Il volumetto è l’ideale proseguio della Botanica de’ fiori dedicata al Bel Sesso, ed è stato pubblicato da Bardi, una casa editrice legata all’Accademia dei Lincei, in una edizione graziosa e molto curata, con carta avoriata e un’illustrazione di copertina delicatamente acquerellata: una cromolitografia colorata a mano. Nell’introduzione di Simona Verrazzo e nella nota di Giulia Caneva, vengono spiegate le vicende editoriali del disegno e del libro, una copia del quale è custodita nella collezione di Cornelius J. Hauck, nell’Ohio.

Il libro è stato scritto nel 1830 dal poligrafo Giuseppe Compagnoni. La ristampa di opere antiche è un fenomeno editoriale raro in Italia, perciò non si può mai lodare a sufficienza editori e curatorƏ di questo tipo di interesse che può essere visto come marginale o poco attrattivo per un pubblico vasto e a volte distratto.

In realtà mi sorprendo del fatto che anche chi non ha interessi prettamente bibliofili o collezionistici non acquisti più spesso opere come questa, che sono in genere destinate aƏ conoscitorƏ.

La verità è che le ristampe sono “come una scatola di cioccolatini: non puoi mai sapere quello che ti capita”, o meglio, quello che c’è dentro, il ripieno, il gusto, e cosa ti diranno che non ti aspetti. Già, perché chi compra questo libro, non lo fa certo perché abbia bisogno di un trattato di frutticoltura, ma per diversissime ragioni. Scoprire quali erano, in determinate zone d’Italia, in un determinato periodo, le colture da frutta commerciale più diffuse, quali erano considerate le più pregiate, quali e quante varietà erano disponibili e che usi se ne facevano, anche non alimentari. Credenze, aneddoti, richiami storici, ma anche parole, suoni, fonemi, lettere come la “j” che rivelano un certo vezzo francese. Non da poco lo studio sullo stile: che parole, che termini, erano allora considerati all’epoca adatti alle donne, e qual era il modo migliore di porgere a un pubblico curioso ma inesperto un argomento scientifico fino ad allora precluso?

Tutto questo è di grande interesse e non posso non dire che personalmente ritengo moltissimi piccoli libri una sorta di TARDIS: dentro sono più grandi!

Un volume diretto esclusivamente al pubblico femminile, tanto da avere questo richiamo nel titolo, fa luce su elementi sociali e culturali dell’epoca, sulla posizione delle donne nella società, sul livello di istruzione della classe agiata, che poteva permettersi l’acquisto di piccola strumentazione scientifica. In particolare la scelta dello stile e delle parole è di grande interesse. Nel precedente volume sulla botanica dei fiori, Compagnoni non usa eufemismi o giri di parole (che sono più frquenti oggi, a dire il vero), né adotta un linguaggio scientifico tout court, essendo il volume divulgativo. Tiene sapientemente un registro a metà tra l’anneddotico e lo scientifico, senza diventare stucchevole o dottrinale.

In questo successivo volume dedicato alla frutta, Compagnoni mantiene lo stesso tipo di registro, ma si avverte una minore scioltezza nel trattare l’argomento, non già dovuta a pruderie o altro (il pubblico di Compagnoni e dell’Editore Sonzogno sembra essere ben delineato come colto e non impressionabile), ma per una visibile limitatezza geografica delle conoscenze orticole.

Il poligrafo milanese si dimostra figlio della sua epoca e del suo luogo, riunendo sotto una generica denominazione alcuni frutti tra di loro diversi soprattutto per uso alimentare, come le ciliegie, le marasche, le visciole, le amarene e i frutti dell’Amelanchier (e forse del Prunus virginiana, non è chiaro). Altre imprecisioni sono diffuse un po’ in tutto il libro, ma senza pregiudicarne la validità. Appaiono invece più interessanti gli inserimenti di aneddoti e vicende, più o meno realistiche, utili a lanciare frecciate politiche. Se il ’48 non era lontano, è anche vero che il Neoclassico aleggiava ancora nelle pagine dell’epoca, e le citazioni del mondo ellenico e latino sono numerosissime.

Si nota anche una certa resistenza a citare il Meridione d’Italia e la sua felicità climatica che gli ha sempre consentito una abbondantissima produzione di frutta. Solo in occasione della trattazione delle arance, peraltro descritte in modo un po’ anonimo, si parla di Calabria e Sicilia, che all’epoca producevano tante arance e agrumi da rendere il Regno delle Due Sicilie uno dei maggiori esportatori d’Europa. Il Regno non viene mai nominato, né la dinastia dei Borbone. Rimangono fuori dalla trattazione mandarini, limoni, il bergamotto. Non vengono citate le produzioni di ciliegie pugliesi, né viene fatta menzione del noto fatto che la maggior parte dei vini del Nord erano prodotti da uve meridionali. Norman Douglas ha lasciato ampia e godibile testimonianza della attività di compravendita dei mercanti milanesi nelle Calabrie.

Mi sembra di poter avanzare l’ipotesi che Compagnoni abbia avuto istruzioni editoriali un po’ prescrittive che probabilmente ne hanno limitato l’esuberanza. In questo senso questo libro è totalmente speculare a quello di Gaetano Zoccali, I giardini del Sole, edito anche questo nel 2021, ma a gennaio.

Et enfin, quante cose in questo piccolo TARDIS dalla forma di libro! Io posso considerare che ci sia in quest’anno di incertezza un interesse per la frutta e per le coltivazioni autogestite, un interesse che non è dettato solo da previdenza, ma da un sincero desiderio di avere un raccolto, di cibo, di idee, un raccolto di proposte volte a un progresso culturale, sociale, umano, verso una elevazione dello spirito.

Gli Oscar 2017 che volevano essere politicamente corretti

Odio con tutte le mie forze l’espressione “politicamente corretto”. È da stronzi. Lo associo a una vecchia amicizia giardinicola che faceva il refugium peccatorum del forum di CdG, e questo me la rende forse più odiosa.
Non voglio trattenervi: so che avete poco tempo, andate di corsa e che la soglia di stanchezza insorge dopo i 140 caratteri. Perciò non sarò breve.
Denzel Washington è diventato grigio, letteralmente grigio, all’annuncio della vittoria di Casey Affleck. Non so se si attendesse di vincere, penso di no, se devo essere sincera. Ma credo che lui, più di ogni altro, abbia in quel momento compreso come agli attori neri siano state date le briciole.
Questa kermesse dichiaratamente antipresidenziale, che si proproneva mediaticamente come “gli Oscar dei neri”, ha fatto quello che gli USA fanno di solito: premiare i bassi gradi (migliori attori non protagonisti) e consegnare statuette bianche e yankee ai vertici (Affleck, Stone, Chazelle). Durante la Prima Guerra Mondiale i neri non potevano diventare ufficiali, e in centododici anni non è cambiato niente.
Ci credo che Washington è diventato grigio, lo sarei diventata anche io, se avessi capito che anche nella cerimonia più “emancipata” nella storia dell’Academy Award le cose andavano come sono sempre andate (a parte una busta di scorta in soccorso al termine della premiazione).
I film con il vero “potenziale nero” sono stati ignorati, come Il diritto di contare, e i premi più illustri riservati ai bianchi.
La la Land alla fin fine ripropone il sogno americano, il sogno sognato dai sognatori delusi, che non ci credono più. Ma poi alla fine succede, perché tutto può succedere nella grande America.

Gli Stati Uniti d’America, nati su un’estinzione razziale e su secoli di torture schiaviste, non hanno mai avuto il cinema realista, e perciò hanno creato modelli e stili di incomparabile bruttezza e assurdità.
Ora però ce l’hanno, il cinema realista: gliel’hanno dato quelli che loro hanno tenuto in catene per secoli, a cui non era consentito entrare nei bar fino agli anni ’60, nell’America bella, nostalgica, romantica e pasticciona dipinta da Norman Rockwell.
Sempre quelli, quelli ammazzati come tordi dietro le siepi, gli hanno dato la forma musicale più innovativa del Novecento, il Jazz.
La Grande Madre America, che non ha storia dietro di sé se non quella di coloro che ha sterminato.

Agonia di una civiltà

Ho scoperto il ricco filone di Eugenio Turri attraverso un altro libro: Il grigio oltre le siepi.

Non mi è piaciuto granchè, Turri è lontanissimo da una scrittura brillante e icastica, come ad esempio quella di Vito Teti, o per citare esempi più famosi ma non per questo più profondi, Piovene, Rigoni Stern, Guareschi.

Mi sembra che il mondo sia strano: perchè io che studio il paesaggio devo studiare quello veneto e i veneti non studiano quello calabrese?
Mah.

E’ un libro per chi vuole riscoprire le proprie radici, va’, per usare una terminologia alla tg di costume, ma non è esente da speculazioni.

Io ad esempio ho imparato che negli anni ’40, nella collina veneta si stava quasi come sulle montagne calabresi, e che negli stessi anni, il mio paese, Siderno, era molto più ricco e florido delle ville venete descritte. Era un paese più bello, più grande, più commerciale, più aperto, più acculturato, più pulito, più accogliente e meno classista.

Poi dicono che noi siamo quelli “arretrati”.

Il razzismo, quello silente e subdolo

Stamane dal fruttivendolo, attendo in coda di pagare la mia spesa, prima di me una bella ragazza indiana che parlava un buon italiano senza accento, con un sacchetto di monetine. Coda affollata, lei deve pagare poco più di un euro un paio di buste di frutta e di lenticchie. La proprietaria e le dice di contare le monete con calma e di poggiarle vicino alla cassa, aggiungendo: “Io di te mi fido”.
Ho dato uno sguardo alla ragazza che ha fatto una smorfia e poi ha detto:”Grazie”.
Quando la ragazza ha finito non le ha neanche avvicinato le buste. Avrei voluto avere le mani libere per allungare io la mano e afferrare la busta di lenticchie, troppo lontana per lei, che cercava di avvicinarla dimendando le dita.
Ho poi velocemente elaborato un pensiero sommario e generalizzato, generato da un moto di rabbia, ma forse non del tutto sbagliato: “L’umanità si divide in due categorie: quelli che si fidano di tutti e quelli che non si fidano di nessuno”.
Per i secondi, che dio (o chi ne fa le veci) abbia pietà.

L’evoluzione della tratta ferroviaria regionale

Sembrano due vagoncini dei plastici per modellini di treni, di quelli argento e verde, che attraversano un paesaggio di polistirolo variamente dipinto.
Paiono finti: è questo il treno regionale Reggio Calabria- Catanzaro, e viceversa?
Si sballottola come panni in lavatrice, l’aria condizionata c’è e non c’è, la velocità è quella di una comune automobile che procede su una strada poco trafficata. Dormire è impossibile, mancano gli appoggi, testiera e braccioli sono scomodi, lo spazio per allungare le gambe insufficiente, i sussulti rendono impossibile chiudere gli occhi.
Neanche leggere il giornale è pensabile, solo ammorbarsi con l’Ipod di musica stordente che copra lo sferragliare del treno.

Per me e il mio compagno di viaggio due biglietti: un adulto e un piccolo animale in gabbietta. Mi assicuro che il trasporto del piccolo animale sia consentito da Trenitalia, dopo la baruffa, poi risolta (o forse no) del divieto di trasporto in treno di animali.

Non si preoccupi– risponde l’operatore dell’agenzia- su quei treni viaggia di tutto, e ride sotto i baffi.

La battuta l’ho capita due giorni dopo, prendendo il treno regionale da Catanzaro, quello del mattino.
Credevo di essere la sola “italiana” a salirci. Diciamo pure, con un termine un po’ crudo, la sola bianca (perché “bianchi” poi? Siamo più rosa che bianchi).
I vagoncini formato Lego erano stracolmi di stranieri, marocchini soprattutto. “Vucumprà” che con i loro enormi sacchi di vestiti, collane e varia minuteria, scendono alle stazioni intermedie per sistemarsi al mercato o percorrere le spiagge per vendere ai bagnanti. Tra di loro conversazioni, qualche schiamazzo, ironia sui cinesi che gli rubano il lavoro. Miii-hhaaa-oooo! -dileggiano.
Nessuna integrazione con i pochi residenti o i turisti.
Qualcosa non funziona nel nostro sistema di socializzazione con gli stranieri.
Mi spiego adesso la battuta dell’operatore che rideva di me, tutta preoccupata per il mio animaletto. Circa 12 euro di biglietti, nessuno dei quali mi è stato controllato, né all’andata né al ritorno, nonostante l’altoparlante minacciasse multe salatissime ai passeggeri sprovvisti di biglietto vidimato.
Mi spiego anche perché questi vagoncini miniatura siano tali: servono giusto a una frangia di popolazione che accettiamo a stento, tutti gli altri viaggiano in costose e potenti automobili.

Mi spiego perché le tratte regionali siano abbandonate al pasto che ne fanno il tempo e all’usura, perché i sedili non vengano rinnovati e perché il tasso di pulizia ed “eleganza” sia minimo. Non dobbiamo certo far colpo sui turisti svizzeri che viaggiano da Bologna a Milano sulle varie Frecce colorate.
C’è solo bisogno di portare qualche “negro” da una parte all’altra.