Breve nota su Laurel Stevenson, da “I Langolieri”, di Stephen King

A Laurel Stevenson è toccata una sorte non comune nella sua vita di personaggia inventata, ma una iella piuttosto diffusa nell’elaborazione narrativa.

Laurel è una delle due protagoniste del racconto I Langolieri di Stephen King, Anno Domini 1990. L’edizione che ho io è quella pubblicata da Sperling nel ’91, in due volumi (Quattro dopo mezzanotte) .

Sembra un millennio fa, e forse lo era. Nel 1990 scoppia la guerra in Kuwait, parte l’operazione Desert Storm, inizia la guerra in Jugoslavia, Germania Est e Ovest si riuniscono. Nel 1990 l’OMS cancella l’omosessualità dal registro delle malattie, mentre occorrono ancora sei anni -sei- perché in Italia lo stupro diventi un reato contro la persona e non contro la “morale pubblica”.

A Mosca apre il primo McDonald’s e Kasparov batte Karpov, la notte di capodanno.

In questo clima non stupisce che la povera Laurel sia stata ritratta come una pescelessa, perfino da Stephen King, che ha sempre avuto una certa attenzione alle acquirenti femminili, anche se pruderie, turgori qui e lì, scenette da due spiccioli e grattatine varie, non mancano mai nei suoi romanzi e racconti.

Non è che ci sarebbe molto da considerare: Laurel Stevenson è la tipica personaggia di sponda, che viene sempre vista attraverso l’occhio maschile. Se Dinah, la bimba cieca, appare come il carattere femminile più rilevante, e perfino la quasi-comparsa, Bethany, ha maggiore autonomia descrittiva, Laurel rimane pescelessa dal primo all’ultimo momento. Percepita dapprima attraverso le sensazioni di Dinah, e immediatamente dopo da quelle di Nick e Brian (i due protagonisti del racconto), racconta sé stessa poche volte, e solo riguardo alla sua scarsissima attività sessuale. Grazie mille.

Darren, ti siamo vicini

Zio Stevie la smerdacchia sin da subito, facendoci sapere che sta mentendo sulle ragioni del suo viaggio, e che la menzogna serve a coprire -mio dio!- un appuntamento al buio con possibile scopata finale. Laurel, quando Zio Stevie fa così, non c’è rimedio, sei spacciata!

Ed è un vero peccato, perché non è Dinah il carattere femminile più di rilevo, ma proprio la nostra cara Laurel, che attraversa il racconto in modo sempre più intenso e presente, mentre Dinah è il classico personaggio-chiave, la bambina veggente nelle cui sensazioni tutto è riposto, in cui è la soluzione del problema e in cui risiede la salvezza per il gruppo. Dinah non esce dal solco classico in cui King pone i personaggi che ricoprono il ruolo di motore narrativo, né potrebbe farlo in una dimensione molto ridotta, quella del breve romanzo (I Langolieri è lungo circa 250 pagine, che per King significa davvero “breve”). In questa lunghezza lo Zio Stevie non è in grado di compiere mirabili sintesi, come tanti altri autori o autrici, e a maggior ragione non lo era nel 1990. Si assapora infatti una certa ruvidezza stilistica, un grezzo ancora non polito, tipico dei suoi racconti più vecchi. Era la fase in cui migrava verso uno stile più maturo e liscio, lavorato, forse meno fresco, ma più consapevole e attento – e per me certamente migliore.

Rendere Laurel più apprezzabile senza ledere la posizione narrativa di Brian e Nick è qualcosa decisamente alla portata di King. Diciamolo: Zio Steve ha svaccato mille e mille volte, ma nessuno come lui riesce a rendere i personaggi tridimensionali e amichevoli, veri. Il Vecchio riesce sempre a infilarti una frasetta che dipinge quel personaggio, una frasetta che torni a rileggere dieci volte, di cui conosci esattamente la posizione in quei dannati libroni, quella frasetta che sai ritrovare nella peste delle sue trame dispersive, “quella frase” che in qualche modo racchiude tutta l’esperienza di lettura. Sì, forse nessuno come Stephen King, oggi, sa fare bene questa cosa qui. Potete gettargli addosso il fango che volete, ma datevi pace: lui lo sa fare.

Perché non lo ha fatto per Laurel? Semplice, perché Laurel non gli interessava. Classica rappresentazione della femmina da narrazione di pessimo livello: il personaggio che serve solo a rendere più interessanti i maschi. È infatti attraverso Laurel che il Fedele Lettore inizia ad assaporare la parte più tenera di Nick, ed è attraverso Laurel che Nick diventa coprotagonista assieme a Brian. L’essere trottolata da un maschio all’altro non fa bene a Laurel, ma soprattutto non fa bene al racconto.

Con Laurel lo Zio si è preso troppe libertà rispetto alla sua consuetudine. Non solo la appiattisce come una sogliola sul fondale, ma compie un errore fatale: la fa pensare in modo assurdo e inverosimile, in cui una lettrice anche disattenta non può né riconoscersi né ravvisare un minimo di credibilità, e che un lettore maschio sarà invece portato a ignorare o rimuovere. Chiedete a qualsiasi buon kinghiano chi è Laurel dei Langolieri: non se lo ricorderà. E questo, questo è infamante, Zio!

Di sicuro c’è chi ha considerato il reato più grave del racconto dell’orrore, la comicità involontaria. Io l’ho considerata, nella scena che segue.

Incoerenza logica e narrativa: se un personaggio perde la testa, non è consapevole di averla persa. Se la perde consapevolmente o è pazzo o delinquente. Laurel qui sragiona continuando a ragionare. E tu vuoi che io, fedele lettrice, me la beva? Zio, valla a vende a qualcun altro!

Dopo un po’ lo Zio ha smesso di fare così, rendendo autonomi anche i personaggi minori, e perfino le occasionali apparizioni hanno a volte un qualcosa di indimenticabile. Laurel è rimasta invischiata altro che in una frattura spazio-temporale, è rimasta invischiata in una transizione stilistica e contenutistica di uno degli autori più noti e venduti degli ultimi cinquantt’anni.

Che rogna. A confronto i langolieri stessi sembrano un niente.

Viaggio nelle praterie del West, di Washington Irving, ed. Spartaco

Viaggio nelle praterie del west_washington_irvingLeggere questo libro è stato difficile, per me. Più volte ho avuto la tentazione di chiuderlo: quasi a metà, dopo la metà, un po’ prima della fine. Ho tenuto duro perchè descrive gli spazi aperti del west, quella zona ai piedi delle Montagne Rocciose, dove spesso sono ambientati anche i romanzi di McCarty, o alcuni racconti di Faulkner.
Ma la lettura è stata lenta, bradipica, sofferta. Non per lo stile di Irving, che è molto frizzante, quasi salgariano. Ma -be’, sì- perchè è un libro che prima delle praterie, prima del cielo, prima dei cavalli, parla della “nobile arte della caccia”. Continua a leggere “Viaggio nelle praterie del West, di Washington Irving, ed. Spartaco”

Le attese premiazioni del prestigioso Premio “Amore al risciacquo”

Come regalo per l’Epifania, Giardinaggio Irregolare, ascoltata la Commissione e valutate le candidature, annuncia gli attesi premi:

-per la Categoria Elettroencefalogramma piatto:
Elizabeth Strout, Olive Kittrige, Fazi
con la seguente motivazione: “Una volgare operazione commerciale a partire dalla copertina (un particolare dell’ormai Kitschizzato Hooper): una serie di racconti che nulla hanno da dire in sè, e in cui compare occasionalmente il personaggio eponimo. Una inconcludente massa di carta su cui si è fatto gran battage pubblicitario”

-per la Categoria Rocco Tarocco:
Elizabeth Strout, Olive Kittrige, Fazi
per la motivazione si veda sopra.

-per la Categoria Orchite:
Anna Marchesini, Di mercoledì, Rizzoli
con la seguente motivazione: “Anna Marchesini, sfruttando la sua celebrità, scrive un libro raccapricciante nella lungaggine e nella infelicità dello stile. Trama scontata, linguaggio contorto. Perdibilissimo”

-per la Categoria Photoshop:
Jabbour Douaihy, San Giorgio guardava altrove, Feltrinelli
con la seguente motivazione: “Se San Giorgio guardava altrove, di certo anche il grafico”

-per il Premio Speciale Green Guignol:
Alex Mitchell, L’orto sul balcone, Corbaccio
con la seguente motivazione: “Alex Mitchell propone delle indicazioni per la coltivazione sul balcone di una certa utilità, ma nulla che possa rendere questo libro migliore del già canditato testo di Massimo Acanfora. Ma il dramma non sono le indicazioni, più o meno tirate per adattarle a coltivazioni che poco si presterebbero per loro natura, ma le foto che accompagnano il testo, che mostrano un lieto mondo urbano, in cui piselli e fagioli possono essere coltivati con glamour, o con quello stile vintage che piace tanto oggi. Insomma, Alex Mitchell assembla un po’ di vecchie latte da collezione e le riempie di erbe aromatiche, non pensando che al rosmarino non basterà la confezione da 100 grammi di tè, o che la salvia desidererà qualcosa in più di una tazzina sbeccata. Alex Mitchell ci ammonisce di stare attenti alla sicurezza, prima d’ogni cosa, e poi nelle foto usa vecchi appendiabiti cadenti, che sembrano usciti dal cassonetto, su cui attacca indefessa cestini di piante e fiori. Anzi, i fiori. Sono quasi più i fiori che mostra nelle foto, specie i nasturzi. Forse perchè, loro sì, si prestano ad ogni tipo di vessazione e fanno bella figura in fotografia? La domanda a questo punto sorge spontanea: ché stai a piglà per culo?
L’orto in terrazzo o sul balcone è un tema delicato, sia dal punto di vista orticolo che estetico, la Mitchell lo archivia con delle foto di pomodori a cascata (probabilmente gli unici di quell’annata) e tre fiori di ipomea. In poche parole deve “vendere” il suo prodotto (un libro magari buono), ma lo deve fare “alla grande”, con foto strepitose (…) e da lasciare di stucco. Cioè compiendo nè più nè meno che un’opera di falsificazione. Tutto, dallla veste grafica alla carta patinata, lascia pensare ad un libro pensato solo per chi pensa di farsi un orto sul balcone, ma non si rovinerà mai il french style alle unghie”.

-per il Premio Alberto Forni :
Rebecca Coleman, La scuola dei giochi segreti, Dalai Editore
con la seguente motivazione: “Di cose che ci ossessionano ne abbiamo già parecchie, dalla TARSU all’IMU. Grazie, ma preferiamo fascette meno esaltanti”.

-per la Categoria Potemkin:
Stephen King, 22/11/’63, Sperling&Kupfer
con la seguente motivazione: “Ogni libro di King è sempre un’operazione mediatica e il più delle volte cinematografica. Questo libro non convince, la sua mole è del tutto ingiustificata se non intesa come una ormai deteriorata capacità narrativa di King. Le teorie esposte sull’omicidio di Kennedy sono abbastanza fantasiose, in più il finale buonista fa cadere le braccia”.

Per il premio Selezione dal pubblico verrà aperto un sondaggio che durerà sette giorni solari.

Questo è la prima e unica edizione per il prestigioso Premio “Amore al Risciacquo”. Il prossimo anno mi riservo di dire quali sono stati il migliore e il peggiore libri letti nel 2013.

Chi ha paura dell’avverbio cattivo?

L’avverbio cattivo
Esiste una norma di scrittura, ripetuta in manuali di auto-aiuto, testi letterari, biografie di autori e giornalisti, ecc, che se ascoltata e fedelmente messa in opera, come credo sarà, vedrà la scomparsa dell’avverbio da tutti i romanzi.

Gli avverbi sono la particella grammaticale più odiata dagli editor, appena ne vedono uno, zac, lo cancellano con un tratto di rosso come si spiaccica una mosca con la paletta.
Sono diventati il lupo cattivo dei romanzi, degli articoli di giornale, dei comunicati stampa, di ogni cosa scritta. Tra un po’ spariranno anche dalle etichette e dai cartelli.
Viuuulentemente mia diverrà “Ti farò mia con la violenza”.

…ma roba da pazzi.

La norma di evitare avverbi è saggia e quasi santa nell’articolo di giornale, ma è tutta da rivedere nel romanzo. Prima d’ogni cosa è una norma che ci viene dagli anglofoni, che hanno moltissimi avverbi con la desinenza -ly.
Killing me softly.
Certo, direte voi, noi abbiamo quella stupida desinenza: -mente che tra l’altro si presta a mille giochi di parole e fraintendimenti.
Qual è il contrario di “abbondantemente”? “A Berlino Petrarca dice la verità”.

Ma non tutti gli avverbi inglesi finiscono in -ly nè tutti quelli italiani in -mente. Quelli sono gli avverbi cattivi, gli altri sono avverbi buoni, che possono essere usati come parole normali.
Vado spesso al mercatoVado al mercato frequentemente.

Ecco un editor terrorizzato dall’entrata nella frase di un avverbio cattivo:

Wendy, sono a casa amore-volmente!

L’avverbio buono, che non finisce in -mente, ha un aspetto piuttosto anonimo, impersonale, non minaccioso e quasi professionale.

L’avverbio buono

Un altro terrore degli editor sono le ripetizioni, che cancellano ossessivaMENTE con tratti di penna rossa, sostituendole con i sinonimi più assurdi pescati nel Grande dizionario dei sinonimi e dei contrari per l’editor di case editrici di provincia, edizioni WhallaWhalla, oppure col Thesaurus di Word.

…in effetti fanno paura anche a me

L’avverbio in sè per sè non è nè buono nè cattivo, ma è quello che gli sta intorno a renderlo pericoloso.

contesto pericoloso

Così gli editor si aggirano per le pagine dei libri e cancellano tutti gli avverbi cattivi e le ripetizioni, mettono gli aggettivi dietro ai sostantivi, come in un dettato per le elementari, e sono sospettosi nei confronti anche degli avverbi buoni, quelli che non finiscono con -mente. Zio Steve chiama swifty il verbo seguito da un avverbio cattivo.
Disse lui rudemente.
“Non fatelo, oh, vi prego, non fatelo! – La cosa migliore è scrivere ‘Disse George, disse Helen’ “, prescrive il Vecchio Steve.
Ergo Lo salutarono amichevolmente è uno swifty, va eliminato. Lo salutarono con amicizia.
A me sembrano due concetti diversi, ma evidentemente la Leggibilità è la divinità dell’editor. A furia di cancellare i cattivi swifty, gli editor perdono la vista, e iniziano a cancellare qualsiasi cosa che non sia un sostantivo o un verbo, pertanto un romanzo per loro dovrebbe essere più o meno così composto. Egli andò, lei tornava, il cane esiste, Dio c’è. Con un punto interrogativo sulla particella pronominale “ci” di “c’è” che trasformerebbero volentieri in “è”.

E così si perde mezzo romanzo e una buona quantità di sfumature stilistiche e narrative. Sull’altare della Leggibilità (che significa solo Vendibilità), muoiono avverbi cattivi, avverbi buoni, aggettivi e particelle pronominali, il registro parlato, i corsivi, le interiezioni, i puntini di sospensione, la punteggiatura insolita, trattini, gli a capo, e tutto ciò che richiede un minimo sforzo al lettore. Insomma, un’ecatombe

…te l’avevo detto che facevi una brutta fine

Perchè il romanzo deve essere ingollato come uno sciroppo, a cucchiaiate, liscio, rosato e dolce, altrimenti l’editor s’incazza
l’editor mentre corregge il tuo libro

Tutto deve avere un’apparenza discreta, ci devono essere solo sostantivi, verbi e aggettivi, come in una famiglia normale.
Una frase tipo: egli andava in albergo

Insomma, la strada per scrivere un libro senza avverbi cattivi e molto dura e lunga, a volte confusa
taglio, non taglio, cambio verbo, fammi prendere il grande dizionario, aspetta, tolgo la frase, la pospongo, la anticipo, no, la tolgo…

Non è un caso che libri di pessima qualità, da elettroencefalogramma piatto, passino per essere “stilisticamente raffinati” perchè gli editor hanno cancellato tutti gli avverbi cattivi e messo gli aggettivi davanti ai sostantivi.
Un miserabile esperimento di scrittura – Un esperimento di scrittura miserabile. Ma cos’è miserabile, l’esperimento o la scrittura, editor, fammi capire. Ma soprattutto, editor, non avere paura. Il peggio che può succedere è che quel libro non venga pubblicato.
E forse è un bene.

ma editor non aver paura di lasciare un avverbio cattivo, non è mica da questi particolari che si giudica uno scrittore…