
Giardini e no, Bompiani
E’ di recente uscita per i tipi Bompiani il volume
Giardini e no di Umberto Pasti, che nel titolo vorrebbe riecheggiare il ben noto e drammatico
Uomini e no di Elio Vittorini, presumibilmente per indicare ciò che secondo l’autore è un giardino e cosa non lo è.
In questi tempi frastagliati, in cui la bellezza non si riconosce più quando c’è, o la si vede quando non c’è, ci sarebbe stato davvero il bisogno di un libro (di tanti libri) che aprissero gli occhi a molti giardinieri. Purtroppo Umberto Pasti si limita ad un catalogo piuttosto banale di non-giardini e di giardini costruiti per dimostrare uno
status symbol, per una forma di speculazione economica (il caso delle rotatorie) o anche solo per una profonda, inveterata, inammissibile e ingiustificabile ignoranza.
Il catalogo analizza varie tipologie di “soggetti giardinicoli”: dal miliardario milanese alla signora-bene in calore, dal collezionista psicopatico agli amanti del design a tutti costi.
Tutti soggetti che non comprerebbero mai un libro, e di certo non un libro del genere.
A chi si rivolge allora questo volume? Ovviamente al giardiniere appassionato, che su queste cose riflette ogni giorno della sua vita, con passione sincera, trovando spesso idee e soluzioni più profonde e originali di Pasti, che si libra sui problemi più centrali del giardino e del giardinaggio con una estrema superficialità, componendo pezzi “di colore” banali e senza nessun vero stimolo per una crescita culturale, progettuale, fattiva. Laddove poi lo stile si affloscia un po’, Pasti inserisce “qualche” ben congegnato riferimento sessuale che immaginiamo alzerà il tasso delle sue vendite.
In realtà il libro è più che altro un prodotto per la buona borghesia dei salotti milanesi, torinesi e romani, dove sciure e mandamin si sentiranno come vergini scoperte durante i loro primi giochetti erotici.
Come è sempre stata pratica usuale delle persone di cultura elevata disprezzare l’arte prodotta dalle élite, anche Pasti sottolinea la bellezza dei “giardini del benzinaio” (a quanto pare i giardini poveri stanno avendo una sorta di vendetta su quelli ricchi!), ciononostante per la correzione della nomenclatura botanica si avvale della collaborazione di Anna Peyron, una tra le vivaiste più chic d’Italia (collaborazione che peraltro non ha garantito l’assenza di qualche svarione nella tassonomico).
Tale tipo di letteratura, sulla cui qualità non ci pronunciamo, è certamente deteriore per la crescita della consapevolezza della pratica del giardinaggio e per l’arte della creazione dei giardini.
La sua inutilità è comprovata dal fatto che risulta difficile persino farne una disamina accurata, poichè c’è ben poco da esaminare.
Lodevoli invece le descrizioni dei giardini nordafricai minacciati dalla cementificazione selvaggia, così come l’impostazione grafica che è riuscita a rendere gradevoli anche le brutte illustrazioni di Pierre Le-Tan.
Non posso che concludere rimandando ad una discussione del Forum della CdG, dove qualcuno ha trovato le esatte parole per descrivere questo libro.
Più interessante invece l’intervista da Fazio a Che tempo che fa, che rimane comunque un programma che consacra al pubblico persone che non ne avrebbero bisogno, invece di essere portavoce di una cultura lontana dai processi digestivi del mercato culturale.
In questa intervista Pasti parla brevemente del regionalismo e della riscoperta dei valori estetici localistici, a volte vernacolari, che è senza dubbio una delle strade più interessanti e sulla quale si sono mossi molti grandi architetti, come Whright e Terunobu Fujimori.
Il problema è che molte zone d’Italia non hanno più un volto caratteristico, locale, ma hanno un’assoluta mancanza di elementi che le contraddistinguano.
Allora in questo caso come si fa? Ci si potrebbe inventare uno stile, come fece Haussmann? O si recupera il recuperabile e al resto il bacio dell’addio? o che altro?
Avremmo voluto sapere anche questo da Pasti, che sembra avere le idee tanto chiare.
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