“L’ultimo viaggio delle ragazze” di Tsukumizu, Edizioni Goen, un piccolo tesoro poco conosciuto -Girls’ Last Tour, a little-known hidden gem – multilingual review – ita-en-jp – 少女終末旅行、あまり知られていない小さな宝物 ― 多言語レビュー ― ita-en-jp

Sono anni che predico che i titoli originali di manga e libri vadano scritti con i kanji e non solo in rōmaji. L’ultimo viaggio delle ragazze gioca infatti sull’ambiguità della pronuncia “shūmatsu”, che all’orecchio può significare “fine settimana” oppure “fine del mondo”. Il titolo in kanji è 少女 終末 旅行, cioè “il viaggio delle ragazze fino all’apocalisse” (shūmatsuron è l’escatologia), ma potrebbe essere anche “la gita fuori porta nel weekend”.

Ed è su questo doppio senso che si basa Tsukumitsu, un vero volpone: i giapponesi sono entrati nel manga con una doppia attesa, o almeno un’aspettativa ambigua: sarà un racconto distopico, oppure uno slice of life? Noi no, ma oggettivamente era impossibile riprodurre l’omofonia in italiano (non dirò altro, perché questo piccolo capolavoro non va spoilerato in nessuna parte).

La cosa che balza immediatamente all’occhio è lo stile grafico: un tratto nervoso da real g-pen (Tsukumitsu lavora con Clip Studio Paint), affilato, tremolante e con una grande contrapposizione tra l’essenzialità quasi astratta dei volti delle ragazze, ottenuti da segni praticamente circolari, e l’affastellamento di dettagli degli sfondi. La piattezza grafica delle personagge si staglia contro una prospettiva profondissima che non può non ricordare Blame! e perfino il manga di Nausicaä.

Subito capiamo che gli elementi “apocalisse+ gita fuori porta” sono contemporaneamente presenti grazie allo stile narrativo portato come uno slice of life, ma l’ambientazione è postapocalittica.

I contrasti non finiscono qui, perché Chito e Yuri sono antitetiche a loro volta, e nel loro comportamento, specie in Chito, c’è una certa crudeltà, violenza, mentre Yuri è più razionale e curiosa. Yuri e Chito sono sorelle (credo, o forse cugine). Potrebbe esserci un altro tipo di legame, io però non l’ho percepito, tuttavia alcune volte in italia il titolo è stato considerato inseribile tra gli “yuri-seinen”.

Analizzando attentamente si capisce quanto Tsukumitsu abbia letto di Arte, del manga classico e moderno e quanto impatto abbia avuto su di lui Akira Toriyama (a sua volta non esente dalle influenze dell’illustrazione occidentale di metà Novecento, come Norman Rockwell). Si potrebbe a volte pensare che lo stile di disegno sia frettoloso, in realtà è solo nervoso, ma mai impreciso, e anzi, è dettagliatissimo senza essere dovizioso o affastellato. Rivela anche una grande conoscenza della prospettiva e dell’anatomia: Tsukumitsu è la classica persona che pensa una cosa e la disegna come l’ha pensata, senza nessun riferimento. Non c’è riferimento possibile per quelle scenografie, se non nella propria fantasia. L’interpolazione grafica è attraverso il filtro della grande Arte Informale, di Joan Miró, Paul Klee, Picasso, Brancusi, il Razionalismo architettonico, Le Corbusier.

La gabbia sempre lineare e molto regolare rende il racconto ben scandito e semplice da seguire, ma anche distaccato, in modo che *l* lettor* non sia trasportato troppo dentro alla distruzione del mondo e si aggrappi invece al tepore dell’ingenuità delle due protagoniste. L’azione è scandita senza prospettive esagerate, appiattita quasi di forza per non essere mai “troppa” e generare contrasto con lo scenario. Questo è genio, eh. Il mondo distrutto viene narrato e attraversato come in una fiaba. Che volpone, Tsukumitsu!

Insomma, leggetelo, perché è veramente poetico.

“Girls’ Last Tour” by Tsukumizu, Goen Editions, a little-known gem

Scroll down for the English and Japanese versions (translated with ChatGPT)

I have been saying for years that original manga and book titles should be written with kanji, not just in rōmaji. Girls’ Last Tour plays on the ambiguity of the pronunciation shūmatsu, which to the ear can mean either “weekend” or “end of the world”. The title in kanji is 少女終末旅行, literally “the girls’ journey to the apocalypse” (shūmatsuron being eschatology), but it could also read as “a weekend outing trip”. And this double meaning is Tsukumizu’s sly trick: Japanese readers enter the manga with dual expectations – is it dystopian or slice‑of‑life? We couldn’t pull off the homophone in Italian, but Tsukumizu, a real fox, uses it masterfully. I won’t say more, this little masterpiece must stay spoiler‑free.

What immediately strikes the eye is the art style: a nervous line from a real g‑pen (Tsukumizu works with Clip Studio Paint), sharp, trembling, with a stark contrast between the almost abstract simplicity of the girls’ faces – formed by near‑circular strokes – and the pileup of background details. The flat graphical representation of the characters strikes a a profound perspective that inevitably evokes Blame! and even Nausicaä.

Then it becomes clear that the “apocalypse + weekend outing” elements exist simultaneously through a slice‑of‑life narrative style, despite the post‑apocalyptic setting.

The contrasts don’t end there. Chito and Yuri are antithetical: Chito sometimes shows cruelty and violence, while Yuri is more rational and curious. They seem like sisters (or maybe cousins). Some Italian fans have even classified the title as “yuri‑seinen,” though I didn’t perceive that myself.

A close reading reveals how deeply Tsukumizu has studied art and classic manga, and how much influence Akira Toriyama has had on them — in turn influenced by mid‑20th‑century Western illustrators like Norman Rockwell. The drawing style may sometimes appear hurried, but it is actually nervous and never sloppy. It is extremely detailed without being ornamental or cluttered. The work reveals a strong understanding of perspective and anatomy: Tsukumizu is the kind of creator who imagines something and draws it precisely as they’ve pictured it, with no external reference. Those scenographies are purely from imagination. The graphic interpolation is filtered through Informal Art giants like Joan Miró, Paul Klee, Picasso, Brâncuși, and architectural Rationalism — Le Corbusier.

The panels are always linear and very regular, making the story rhythmic and easy to follow but also detached—so the reader doesn’t get swept into the world’s destruction and instead holds onto the warmth of the girls’ innocence. The action is deliberately flattened—never “too much”—to contrast with the setting. This is genius. The destroyed world is narrated and traversed like in a fairy tale. What a fox, Tsukumizu!


🇯🇵 日本語訳

つくみず著『少女終末旅行』(Goen出版)、知る人ぞ知る小さな宝石

英語版と日本語版(ChatGPTによる翻訳)をスクロールしてご覧ください。

私はずっと、マンガや書籍の原題は漢字で書くべきで、ローマ字だけでは不十分だと主張してきました。『少女終末旅行』は「終末(しゅうまつ)」という発音の曖昧さを巧みに利用しています。「しゅうまつ」は耳では「週末=週末」か「終末=世界の終わり」のどちらにも聞こえます。タイトルの漢字は 少女終末旅行、文字通り「少女たちの終末への旅」(終末論=エシュカトロジー)ですが、「週末の遠足」としても読めます。この二重の意味こそがつくみずの狡猾さで、日本人読者は「これはディストピア? それともスライス・オブ・ライフ?」という二重期待を抱いて作品に入るのです。イタリア語では同音異義が再現できませんでしたが、つくみずは見事にそれを使いこなしています。これ以上は言いません。この小さな傑作はネタバレ厳禁です。

まず目を引くのはそのグラフィックスタイルです。実際のgペンのような緊張感ある線(つくみずはClip Studio Paint使用)、鋭く震えるようなタッチ、少女たちの顔はほぼ円形の記号で描かれた抽象的な構成、一方で背景には膨大なディテールがびっしり詰め込まれています。キャラクターの平面的表現と深遠な遠近法の背景との対比は、必然的に『BLAME!』や『風の谷のナウシカ』を想起させます。

次に気づかされるのは、「終末+週末の遠足」という要素が、スライス・オブ・ライフ的な語り口で同時に成立していることです。舞台は明らかにポスト・アポカリプスですが、淡々とした日常の延長として語られます。

対比はさらに深く、チトとユーリは相反する性格を持っています。チトには時に残酷さや暴力性が見え、ユーリはより理性的で好奇心旺盛。姉妹(あるいは従姉妹?)のような関係性ですが、イタリアでは“百合セイネン”として分類される場合もあります(私はそこまで感じませんでしたが)。

つくみずがいかに美術や古典マンガを読み込んでいるか、また鳥山明からどれほど影響を受け、その鳥山明がさらにノーマン・ロックウェルなど20世紀中頃の欧米イラストに影響されたかが見えてきます。描線は時にせっかちに見えて実は緊張感があり、決して不正確ではありません。装飾的でも雑でもない非常に緻密な描写で、遠近法や解剖学の知識も豊富です。つくみずは想像したものをそのまま紙に描くタイプの作家で、背景にモデルはありません。あの舞台装置はすべて彼らの想像力から生まれています。グラフィック表現にはミロ、クレー、ピカソ、ブランクーシといったアンフォルマルアートの巨匠、および建築ラショナリズム、ル・コルビュジエらの影響が感じられます。

コマ割りは常に直線的で整った構成なので、物語にリズムがあり読みやすく、それでいて距離感があります。読者が世界の破壊に“飲み込まれる”ことなく、少女たちの純粋な暖かさにしがみつけるように設計されています。アクションは意図的にフラットで“過剰”にならず、背景とのコントラストを生んでいます。これが天才的なんです。壊れた世界は、まるでおとぎ話のように語られ、歩む。つくみず、なんてずる賢いんだ!

L’artista non crea il mistero

Stasera, distrattamente, seguivo una repilica di Passepartout in cui Daverio ha intervistato un bizzarro artista danese che fa sculture con insetti, ossa tagliate a fettine, vetro e altro.
Non ricordo il nome dell’artista, nè sono riuscita a recuperarlo in rete.

Ho sentito però questa frase: “Il mistero non viene creato dall’artista. L’artista non è colui che crea il mistero”.

Mi ha molto colpita, e non so neanche come inquadrarla. Forse per scultura e pittura può essere vero, ma per letteratura, cinema, musica?
In che modo secondo voi si può interpretare questa frase? Perchè sono sicura che c’è qualcosa tra le righe che non sono riuscita a cogliere.

La mostra fotografica “IntimeRose” prorogata per tutto maggio (Milano)

http://youtu.be/_GvbTSLbb7U
http://youtu.be/_GvbTSLbb7U

“IntimeRose”.
Dopo il successo avuto nei mesi precedenti, la mostra fotografica di Marò D’Agostino (Maro D) è stata prorogata al mese di maggio, periodo della fioritura delle rose.
Nata da un nucleo di una precedente esposizione fotografica avente come tema l’eros, la mostra “IntimeRose” espone 45 pannelli che invitano ad una visione “altra” attraverso multiformi ritratti del fiore più amato. Non si tratta di fotografie botaniche ma di una ricerca sul tema della intimità e/o di ciò che il nostro sguardo tende a tralasciare nei suoi processi d’osservazione.
L’autrice, cultrice di musica e musicista, ha dato ad ogni quadro fotografico il titolo di un brano musicale.

http://youtu.be/Iq0XJCJ1Srw
http://youtu.be/Iq0XJCJ1Srw

L’occhio indiscreto

http://youtu.be/me7P9qqBgwI
http://youtu.be/me7P9qqBgwI
Quanto sono tediosi i giardinieri! E quanto più sono tediosi se sono filosofi-giardinieri!
Si incaponiscono su una definizione, ti correggono nell’uso di una parola, s’infuriano se si usa scorrettamente un termine gergale.
E allora chiariamoci subito, le foto di Marò d’Agostino non sono foto di rose, sono foto anche di rose.
Non sono concepite per illustrare ricchi cataloghi di vendita per corrispondenza, né per corredare testi di esegesi rodofila. E non sono foto botaniche.

Confondono, dapprima. Perché non mostrare l’intero fiore, ma solo un dettaglio, una frazione di esso, o una composizione in cui linee, luci, ombre e colori si intersecano e si sovrappongono, fino a far perdere la dimensione iper-realistica tipica delle fotografie di fiori?
Nei suoi scatti Marò è andata a cercare proprio questo: il difforme, l’inquieto, il sorprendente, ciò che è infine nascosto all’occhio, e che può essere mostrato solo permettendo allo sguardo di inabissarsi all’interno dello scatto, o meglio, di un frammento rivelatore.
In questo il senso della ricerca estetica di Marò, che il suo sconfinato amore per le rose porta a scattare foto in ogni momento e in ogni condizione d’illuminazione in cui possa essere colta la suggestiva bellezza del fiore. Con un minuzioso lavoro da cesellatrice è poi andata a togliere l’inessenziale, l’ovvio, permettendo all’osservatore di affondare lo sguardo in una dimensione altra, in una gravità fluttuante, in contesti cromatici portati all’eccesso per simboleggiare la natura polivalente delle rose, che solo le rose –tra tutti i fiori- possiedono.

Spine e velluto, morte e vita, sensualità e castità racchiuse in un unico fiore.

Ogni scatto è in fondo un autoritratto dell’autrice, che nel mostrare l’inevidente, il lato oscuro della Luna, nel costruire e decostruire geometrie, catturare luci o movimento, compie un viaggio di analisi su se stessa, sulla parte inesplorata del nostro essere, addentrandosi nel mondo dell’intimità sensuale (cioè colta attraverso i sensi, estetica) e sensuale in quanto erotica.
Sorprendenti e a volte surreali i risultati di tale ricerca, che ci rivelano ciò che normalmente l’occhio interpreta come “rumore di fondo” di un’immagine. In particolare le zone “liminali”, cioè che delimitano una forma dall’altra, attraggono l’occhio indagatore di Marò. Nell’operazione della frammentazione e dell’accentuazione di alcuni dettagli, esse acquistano una totale autonomia compositiva e vengono restituite all’osservatore come una dimensione parallela a quella della visione d’insieme.

http://youtu.be/OfJRX-8SXOs
http://youtu.be/OfJRX-8SXOs

Orari della mostra: da lunedì a venerdì dalle 15 alle 19, sabato e domenica su prenotazione.
Ingresso libero

Maro D – Intimerose – dal 29 marzo al 21 maggio 2013
EXFABBRICADELLEBAMBOLE
Via Dionigi Bussola, 6 ( zona Navigli)
Milano

(per info e prenotazioni tel. 377-1902076)ù
Scarica il file docx con il commento di Marcello Sèstito Una rosa è una rosa (Marcello Sèstito)

http://youtu.be/75d2FRpFwxc
http://youtu.be/75d2FRpFwxc

GAM Torino apre il gabinetto dei disegni e delle stampe

Ricevo e pubblico:

GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
Via Magenta 31 – Torino

Dal 7 marzo 2013
APERTURA DEL GABINETTO DISEGNI E STAMPE GAM -Piano interrato

LA SEDUZIONE DEL DISEGNO

Cartoni, acquerelli e dipinti dalle raccolte della GAM,
a cura di Virginia Bertone

7 marzo – 5 maggio 2013 – Exhibition Area, primo piano

GIOVANNI MIGLIARA

Acquerelli e preziosi fixé,
a cura di Monica Tomiato

7 marzo – 9 giugno 2013 – Wunderkammer, secondo piano

Anteprima per la stampa: mercoledì 6 marzo alle ore 12 GAM – Sala Uno

GAM003La GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino apre al pubblico, nell’anno in cui la collezione civica compie 150 anni dalla sua istituzione, il nuovo Gabinetto Disegni e Stampe.

Si tratta di uno spazio destinato alla conservazione, deposito e consultazione dell’ampia raccolta grafica del Museo, realizzato grazie al sostegno della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino. Il Gabinetto Disegni e Stampe ha sede nelle sale del piano interrato del Museo già adibite a deposito di opere non esposte.

Il patrimonio grafico, che annovera oltre trentanovemila esemplari tra fogli sciolti e album, rappresenta una delle più importanti raccolte pubbliche italiane su carta, otto e novecentesca, integralmente inventariata e informatizzata grazie a un impegnativo lavoro di schedatura avviato nel 2000.

L’arco cronologico dei materiali presenti si estende dagli ultimi decenni del Settecento fino a tutto il Novecento e annovera artisti italiani di primo piano – tra i quali Pietro Giacomo Palmieri, Giuseppe Bagetti, Felice Giani, Antonio Fontanesi, Domenico Morelli, Alberto Pasini, Giovanni Fattori, e ancora Leonardo Bistolfi, Felice Casorati, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Lucio Fontana, Fausto Melotti e così via – insieme ad alcune presenze straniere, da Bouchot, Delaroche e Boudin sino a Rauschenberg e Warhol.

Oltre a fogli di grande bellezza, come nel caso dei grandi paesaggi acquerellati di Giovanni Battista De Gubernatis, vi sono documenti esemplari per la storia dell’arte italiana, come il primo studio per La città che sale di Umberto Boccioni o la serie delle Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla. Tra le opere più antiche conservate vi è il dagherrotipo di Enrico Jest, vero e proprio incunabolo per la storia della fotografia in Italia.

Modellato sull’esempio dei Gabinetti dei principali musei, questo ambiente consente di conservare in condizioni ottimali le raccolte e di accogliere il pubblico interessato a ricevere informazioni, condurre ricerche e consultare gli originali conservati.

La struttura rappresenta un traguardo importante, capace di rispondere alla domanda crescente di accesso al patrimonio grafico conservato nel Museo proveniente soprattutto da studenti, ricercatori e docenti delle Facoltà legate agli studi storico-artistici e architettonici e dai funzionari degli Uffici di tutela, in particolare nell’ambito del restauro di edifici storici.

Il progetto è stato formulato da Virginia Bertone, conservatore e responsabile delle collezioni GAM, in stretta collaborazione con gli architetti Diego Giachello e Marco Gini di Officina delle Idee che ne hanno curato il progetto tecnico e con l’ing. Giuseppe Bonfante, che ne ha seguito la parte impiantistica per l’adeguamento della climatizzazione e della sicurezza. L’apertura su appuntamento della nuova struttura è garantita grazie al contributo della Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris.

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Per valorizzare l’inaugurazione del Gabinetto Disegni e Stampe, la GAM presenta al pubblico la mostra La seduzione del disegno. Cartoni, acquerelli e dipinti dalle raccolte della GAM allestita nell’Exhibition Area al primo piano del museo.

L’esposizione, curata da Virginia Bertone – curatrice anche del doppio volume Disegni del XIX secolo della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Fogli scelti dal Gabinetto Disegni e Stampe (2009) edito da Olschki – offre al pubblico l’occasione per ripercorrere i momenti salienti della storia della collezione moderna, mettendo in evidenza la splendida collezione grafica della GAM, un patrimonio rimasto a lungo segreto. L’allestimento è stato realizzato dallo Studio Simonetti’Faletti.

La mostra concentra l’attenzione sulla parte più antica della raccolta: quella che dagli ultimi decenni del Settecento giunge ai primi del Novecento. A guidare il percorso è il filo rosso della formazione di questo patrimonio, una storia che precede di alcuni decenni l’istituzione vera e propria del Museo Civico (1863), contribuendo a determinarne la nascita. Il susseguirsi degli acquisti e delle donazioni offre lo spunto per presentare circa centottanta tra i fogli più rappresentativi della collezione: dai disegni a penna di Pietro Giacomo Palmieri agli acquerelli di Giuseppe Pietro Bagetti, dai taccuini di Massimo d’Azeglio ai grandi carboncini di Antonio Fontanesi, sino ai fogli di Alfredo d’Andrade, Domenico Morelli e Leonardo Bistolfi.

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Ad arricchire il percorso espositivo sono gli spunti sulle diverse funzioni assolte dal disegno, sulle caratteristiche di materiali e tecniche, sulla storia del gusto e sul collezionismo torinese: un intrecciarsi di temi che ha per sfondo lo svolgersi dei primi decenni di vita della Pinacoteca Moderna, l’antica denominazione dell’attuale GAM.

L’esposizione pone in risalto l’apertura del Gabinetto Disegni e Stampe e per questo è anch’essa realizzata grazie al generoso contributo della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

Si rinnova infine, sempre a partire dal 7 marzo 2013, l’appuntamento in Wunderkammer, lo spazio al secondo piano del museo che presenta ciclicamente al pubblico disegni, acquerelli, grafiche, incisioni dell’Ottocento e del Novecento. La mostra Giovanni Migliara. Acquerelli e preziosi fixé, a cura di Monica Tomiato, è dedicata ad uno tra i più apprezzati artisti che esposero a Brera nei primi decenni dell’Ottocento.

Stimato da d’Azeglio come da Hayez, Giovanni Migliara fu il sapiente artefice di vedute e ambientazioni che sorprendevano per la verità ottica e la ricercata cura dei dettagli: qualità che egli seppe declinare anche in una chiave notturna e gotica in cui già riverbera una sensibilità romantica. La precoce presenza delle sue opere presso un raffinato collezionista piemontese come Pietro Baldassarre Ferrero ha ispirato questa Wunderkammer che si lega in modo coerente alla mostra principale che la GAM dedica alla sua raccolta grafica ponendo l’accento su alcuni acquarelli e rari fixé eseguiti dall’artista alessandrino.

Sono disponibili le immagini in alta risoluzione iscrivendosi nella zona PRESS del sito http://www.gamtorino.it

GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
Via Magenta 31 – Torino
APERTURA DEL GABINETTO DISEGNI E STAMPE GAM
dal 7 marzo 2013 – GAM piano seminterrato

LA SEDUZIONE DEL DISEGNO. Cartoni, acquerelli e dipinti dalle raccolte della GAM
a cura di Virginia Bertone
7 marzo – 5 maggio 2013 – Exhibition Area, primo piano

GIOVANNI MIGLIARA. Acquerelli e preziosi fixé
a cura di Monica Tomiato
7 marzo – 9 giugno 2013 – Wunderkammer, secondo piano

Orario: martedì – domenica 10-18, chiuso lunedì. La biglietteria chiude un’ora prima
Ingressi: € 10 – ridotto € 8, gratuito ragazzi fino ai 18 anni
INFO: Centralino tel. 011 4429518 – Segreteria tel. 011 4429595 e-mail gam@fondazionetorinomusei.it

Il cigno nero, l’arte come rinuncia a se stessi

Con questo benedetto decoder i collegamenti tra videoregistratore e lettore dvd sono saltati tutti.
Per vedersi un film tocca fare delle capriole alla Dimitri Sautin.
Ieri mia mamma ha insistito vivacemente di voler vedere Il cigno nero.
Era la seconda volta che lo vedevo e a me era piaciuto già la prima. Ieri invece l’ho visto in modo un po’ passivo.
Su questo film ho sentito molti pareri discordi e molte interpretazioni differenti. Io credo sia un bene. Quando di un film si danno diversi significati vuol dire che è andato al di là di quanto ci si aspettasse.
Quando un’opera può essere letta a molteplici livelli di interpretazione è lì che può nascere l’arte.

E qui entra in gioco il mio buon amico Jan Mukarovsky. L’in-intenzionalità è una delle caratteristiche dell’arte. Ciò che è precluso all’artista e che è invece peculiarità del caso, del tempo e -soprattutto- del pubblico.

Lo scultore dei Bronzi di Riace non poteva certo sapere che sarebbero finiti in acqua e le armi rubate. Ora quelle “pose plastiche” sembrano nascere da un semplice movimento, non da uno sforzo per sorreggere un giavellotto o uno scudo. E lo stesso vale per la Nike di Samotracia, il cui volto è il volto della bellezza e della potenza che ognuno di noi ha in mente, più o meno definito (ma alzi la mano chi ha in mente un volto ben definito della Nike di Samotracia!).
Perciò a volte non capiamo l’arte moderna, perchè è poco storicizzata. Gli Anni ’50, ad esempio, li abbiamo metabolizzati, ci vorrà ancora un po’ per gli Anni ’80.

Un’opera d’arte totalmente intenzionale non è “perfetta”, come si potrebbe pensare (tutti la guardano e pensano la stessa cosa), ma è del tutto Kitsch, cioè non lascia spazio libero all’immaginazione, non trova collocazione al di fuori di se stessa, non esiste neanche al di fuori di se stessa, non riesce a porsi in differenti piani di analisi e ad abbacciare funzioni diverse, seppure tangenti, come quella simbolica o magico-religiosa.

Perciò si può a buon diritto dire che l’opera d’arte è letteralmente costruita dal pubblico che la osserva, con le sue mille interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni (stratificazione del giudizio).
Ciò non significa che passare davanti ad un Moore e dire : “Che bella schifezza” contribuisca alla crescita della critica artistica, ma solo alla crescita dell’ignoranza crassa, supina e pluristratificata.

Rimannendo in campo artistico vorrei proporre la mia interpretazione di Il cigno nero. Fatto salvo che non conosco la storia del cinema e i suoi stili e che le mie recensioni sono tutte elaborazioni logiche o commenti di pancia, io la vedo così:
Nina ambisce alla perfezione. E’ il fil rouge di tutto il film. La perfezione, come ogni artista sa, non esiste. Se una cosa fosse perfetta (cioè, secondo il latino, perfecta, “conclusa”), sarebbe con tutta probabilità un classico intoccabile o un un’opera Kitsch. Il compito più grande dell’artista è avvicinarsi il più possibile alla perfezione evitando accuratamente di toccarla.
La perfezione è un bersaglio mobile. E’ proprio quando ti avvicini e miri per colpire, che ti sfugge. Ma nella mia esperienza di artista e critico d’arte è lo sguardo con la coda dell’occhio il più sensibile: non bisogna mirare al bersaglio, ma appena un po’ di lato.

Per come la vedo io Nina si trasforma da “cigno bianco” (una ottima danzatrice, ma senza quel carico di emozioni che un vero artista deve saper trasmettere. Se vogliamo è “perfetta” ma fredda), in “cigno nero”, una vera artista, che è totalmente in simbiosi con l’opera prodotta. L’opera viene da lei, lei dall’opera. E’ un binomio indissolubile che tutti gli artisti conoscono. Il creatore e il creato sono la medesima cosa/persona, è quanto di più vicino alla divinità posieda l’Uomo (checchè ne dicano le varie religioni).
Non si può spiegare, accade, è il “passo del leone”. E’ il passo della fede.
Nel film tutto ciò è rappresentato dalla metamorfosi fisica di Nina nella famosa scena in cui volteggiando le crescono le ali nere.

Per essere una vera artista Nina deve morire, a se stessa e al mondo. Non è un procedimento che si impara a scuola: è la vita, il più delle volte, che si incarica di sfuggirti,e l’Arte diventa-come suggeriva Montale- un “surrogato, un compenso, per chi realmente non vive”.
L’artista è morto a se stesso. E’ l’Autore/Creatore, non un “io”. Non può farne a meno.
E il modo che ha, il solo modo che ha, per cambiare la realtà è quella di raccontarla, farla vedere, non già com’è, ma come egli vorrebbe che fosse.
Perciò la morte finale di Nina, che molti hanno trovato pretestuosa e incoerente, io la trovo simbolica di una rinascita ideale come artista.
L’arte richiede il sacrificio della vita interiore (si dice che Flaubert avrebbe venduto sua madre per un buon verso), della vita interiore di chi ci sta vicini e di chi amiamo, a volte anche della nostra stessa fisicità.

La mattina del Professor Dracula (citazioni, nostalgia, logaritmi, Platone, Marina Abramovic e l’antico vaso cinese travolti in un turbine di arte e sonno)

Gli occhi di un cane scappatore e ululatore, non fidatevi
Ieri è stata una giornata terribilmente faticosa, così sono caduta addormentata verso le otto di sera. E dato che nessuno aveva chiuso i cani, la cara Bibo si è data all’ululagione notturna più che mai, svegliandomi alle quattro di stamattina.
Avevo fame e mi sono fatta una colazione con un Pu Erh “riposato” e del pane tostato. Su Telereggio davano Dracula, quello con Vincent Price. Peccato non averlo beccato dall’inizio.
Poi ho vagolato un po’ alla ricerca di programmi con potere altrettanto svegliante, ma il meglio che ho trovato è stata una lezione di arte contemporanea per Nettuno, su Rai2.
Il professor Come-si-chiama è partito da Platone e dal suo concetto di idea primigenia, divina, fisiologica, semiotica, neurologica o genetica, scegliete voi, per arrivare alla Venere degli stracci e a Maurizio Cattelan.
Come-si-chiama ha detto: “il cerchio si chiude”, mostrando Una e tre sedie di Kosuth.
E questo mi ha risvegliato (proprio il caso di dirlo) un pensiero che aveva attraversato la mia fragile mente durante il film Midnight in Paris.

L’arte è come la matematica. Parti dalle quattro operazioni e dalla tabellina, arrivi all’aritmetica più complessa, al calcolo differenziale, alla geometria non euclidea e infine ti ritrovi la teoria della Relatività e un paio di quanti fluttuanti tra le dita.
Tales of the Jazz Age, è il titolo dell’opera di Fitzgerald a cui tutti avranno pensato vedendo Midnight in Paris. Chi non vorrebbe conoscere Fitzgerald? Chi non vorrebbe fare un po’ di chiacchiere con Platone o con Degas?
L’artista non può escludere il passato dalla sua opera, tanto più che la sua opera sarà inevitabilmente una delle molte possibili somme di tanti elementi della storia dell’arte precedente. Una somma algebrica, una media ponderata, una media armonica o di potenza. Una sottrazione, una radice ennesima, una variabile bernoulliana. Il che non giustifica il citazionismo e l’autocitazionismo, sempre più in voga nell’arte contemporanea, giardino non escluso.
L’arte non si muove nel discreto, ma nel continuo, come la vita stessa.
Non puoi fare lo studio di una funzione se non conosci le quattro operazioni e non capisci Duchamp se non conosci Giotto.

Garantito, timbrato e protocollato.

Perciò mi fanno sempre incazzare quegli storici che sanno tutto della Transavanguardia e disconoscono Poussin. E anche quelli che fanno il contrario, veramente. Sanno tutto sulle punzonature dei cibori barocchi e non distinguono Van Gogh da Picasso.
Meglio fare il copista, l’amanuense, ché c’è è più nobiltà in quel lavoro che nel grigio sollazzo dell’erudizione senza nè conoscenza nè sapienza.
Lo stesso vale per la storia del giardino: capiremmo Villandry senza conoscere l’orto medievale o il giardino Tudor, o Sissinghurst senza conoscere il giardino rinascimentale italiano o quello barocco francese?

E allora se per noi il sogno può essere un natale vittoriano, per Degas l’età dell’oro era il Rinascimento, e per Poussin il mondo dell’antica Grecia, Platone, Socrate e l’Arcadia.

Conoscere il passato per vivere con maggiore autocoscienza il proprio tempo. Un artista non può vivere il proprio tempo (il che equivale a dire che non può operare sulla realtà, quindi produrre opere d’arte) se non conosce quello passato, perchè compito dell’artista è anticipare il futuro.
Voler proseguire la “timeline” dell’arte, sentircisi dentro o perlomeno appaiati, non è necessariamente un atto di negazione o di abiura, più spesso l’opposto, anche se spesso il desiderio di proiettarsi nel futuro viene confuso con un generico senso di fastidio per il presente, soppragliosità, puzzosottoilnasismo e presunzione (solitamente sono le teste di cazzo che fanno questo genere di confusione: alle persone di cultura e dotate di intelletto non accade).

Quindi durante la lezione Nettuno ripensavo alle parole del professor Come-si-chiama. “Il cerchio si chiude”.
Il cerchio si chiuderà, direi che sarebbe la considerazione successiva, per ora è una circonferenza al cui completamento mancano parecchie sezioni, o forse, con maggiore approssimazione, una spirale.

Perciò ho pensato a un paio di cosette che mi piacerebbe fare per allungare questa spirale. Dopo il vaso cinese mi piacerebbe impacchettare Marina Abramovic.

la sanpaulara

Se poi finisse che non respira più e muore soffocata, si potrebbe mettere sotto formalina insieme allo squalo di Damien Hirst.

E come si poteva chiamare uno che metteva gli squali in formalina? Giusto il 666 sulla nuca gli mancava. Per fortuna s’è dedicato all’arte e non alla scienza.

Ditemi se non ha la faccia da serial killer

Arte=dolore. Sottotitolo: “Il linguaggio della notte”

Ursula K. Le Guin
Qualcuno su questi schermi ebbe a dire che la mia domanda sul perchè l’arte scaturisca spesso dal dolore era una menata o qualcosa del genere.
Voglio calorosamente ringraziare la signora Ursula K. Le Guin per avere risposto a questa (ed altre) di quelle che tanti chiamano “menate”, sperando che sveglino le loro menti dal torpore soporoso della quiescenza dell’accettazione acritica.

Più lontano si va dentro di sè, più vicino si arriva all’altro. […]Il dolore, la più solitaria delle esperienze, fa nascere la partecipazione, l’amore: il ponte tra l’io e l’altro, il mezzo della comunione [qualcuno direbbe della comunicazione, n.d.c.]. Lo stesso accade con l’arte. L’artista si spinge più profondamente dentro di sè, ed un viaggio doloroso, è l’artista che più ci tocca nell’intimo, che più ci parla in modo chiaro. […]Non troverò un archetipo vivente nella mia libreria o nell’apparecchio televisivo . Lo troverò soltanto in me stessa: in quel nucleo di individualità che si trova nella comune oscurità.

In uno scenario urbano, l’artificio è il giardino

Sto leggendo Elogio delle vagabonde del solito Gilles Clément.
Clément mi disturba un po’ con la sua spocchia da grande esploratore, con la sua aura di viaggiatore “estremo” e la sua autoproclamazione di sovrano dei “giardinieri planetari”.
Tra l’altro sembra che la parola “elogio” vada un sacco di moda, oggi: oltre le tradizionali follia e imperfezione, si va dalla pigrizia alla pizza, dai gatti, ai cani, dal calcio al frammento fino al nulla più totale. In IBS troverete 16 pagine con la ricerca “elogio”. Leggasi sedici.

Però ho detto mi disturba solo un po’ , e lo penso. Il caro Gilles è “uno che si sente”, eh, per carità, non è uno che va a vangare la terra dell’Amazzonia e poi non ne scrive sopra un libro, ne fa un e-book, un reportage fotografico, un servizio su un magazine importante. Insomma, è uno di quelli a cui piace stare sotto i riflettori.
Ma nonostante quel sottile senso di orticaria che pervade la lettura, non si può non riconoscere che scrive veramente bene. Una scrittura familiare, ma non domestica, lontanissima dai miserevoli impiastri di san Carletto Pagani, buoni appena per il volantino domenicale della diocesi, e dall’aneddotica romanzata di Paolo Pejrone, veleggiante su un mare di superficialità come una barchetta di carta in una pozzanghera.
E’ uno stile limpido, scorrevole, arguto, informativo, che non lascia margini all’incertezza, che dice quel che vuol dire e lo fa con chiarezza e precisione. Stile da cui noi italiani siamo lontanissimi, e per la verità anche Gilles è un eccezione tra i francesi, che di solito si abbandonano a vagheggiamenti poetici sull’onda di Rousseau. In tal senso credo che Gilles abbia letto molto in inglese e forse anche in tedesco, lingue fortemente concise. Comunque si evince la sua natura letteraria poliglotta.

Bene, nel capitolo Cardo asinino ci sono due frasi che hanno attirato la mia attenzione, la prima è questa:

L’onopordo figura tra le piante “ornamentali”[…]. Sospettoso riguardo a tutto ciò che si nasconde dietro all”ornamento” –visto che respingo in una botta sola le specie che si fregiano di tale posizione– non faccio uso di questo vocabolario.

Riguardo a ciò, esattamente come Gilles è sospettoso della parola “ornamento” , io sono sospettosa dei progettisti di giardini che sostengono di non usare il vocabolario delle piante ornamentali.
Sarei curiosa di sapere che aggettivo attribuisce alle piante, che l’amministrazione pubblica di Parigi gli ha fatto pervenire, regolarmente acquistate presso vivai (di piante ornamentali), che ha usato nei giardini della Défense o nel Parc Citroen.
Visto che lui respinge in “una botta sola tutte le piante che si fregiano di tale posizione” forse avrebbe fatto meglio a creare un deserto di sabbia rossa o a comprarsi un nuovo dizionario.
In un mondo in cui i tropicalisti vanno alla ricerca dell’ultimissima novità tra le specie finora sconosciute, in cui anche le rose che non fanno fiori sono considerate “da collezione”, in cui i maniaci della prateria hanno riportato in auge le “erbacce”, in cui gli ecologisti attribuiscono funzione biodiversitale anche alla pianta più raccapricciante, mi spieghi il signor Clément cosa non è oggi ornamentale.
Mi permetto l’azzardo -non poi tanto azzardato- di spiegare questo passaggio. Credo che Gilles volesse dire più propriamente che rifiuta tutte le piante nel momento in cui il loro status ornamentale è dichiarato.
Ciò non cambia però la riflessione riguardo ai suoi giardini e al perchè -data questa premessa- lui preferisca fare giardini (la cui ornamentalità è storicamente nota) e non parcheggi, sul cui lato estetico effettivamente poche parole sono spese.

Insomma, signore e signore, diciamocelo: il caro Gilles sa benone che i giardinieri vogliono essere presi un po’ in giro e amano le frasi d’effetto. E d’altra parte, noi “blogger verdi”, se non ci fosse lui, di cosa parleremmo? Di Pejrone, di Mauro Corona? Meglio il suicidio mediatico.

Seconda frase:

L’onopordo si sposta e si mantiene in quell’area urbana dove trova uno spazio fatto su misura per lui, una compagnia vegetale in accordo con il mondo che esso rappresenta.

Da questa frase si evince prima d’ogni cosa un elemento che sta diventando sempre più caratterizzante delle metropoli moderne e dei giardini delle archi-garden-star: in una città totalmente disumana, artificiale, omogeneamente aliena e alienante, è paradossalmente il giardino, che dovrebbe essere l’elemento naturale, ad essere quello d’artificio. Il nostro elemento naturale sono i muri, i caseggiati, i cancelli, i portoni, gli ascensori, le impalcature, le vetrate. Un giardino diventa esotismo, trascendenza, innaturalità.
Ed è proprio su questa linea che si muovono le garden-archi-star. Gradiscono, anzi, bramano, che il loro giardino sia ficcato tra palazzoni e costruzioni così fitto come una zeppa nel culo. E’ il caso della High-Line a New York e del Millennium Park, tanto per dirne un paio.
Le garden-archi-star si sentono immediatamente gratificate se possono “riqualificare” una zona.

Torniamo all’Onopordum. Clément dice: “[…]uno spazio fatto su misura per lui, una compagnia vegetale in accordo con il mondo che esso rappresenta”.
Già, ma quale mondo rappresenta? L’Onopordum rappresenta un mondo in assoluto, o di volta in volta diverso? Io non l’ho capito e non so spiegarlo.
Questa frase potrebbe voler dire che l’Onopordum rappresenta il mondo naturale, in senso assoluto. Oppure che rappresenta quello delle specie selvatiche e ruderali, in assoluto. Oppure che rappresenta la natura sottratta agli scopi a cui è destinata dall’uomo, in assoluto. Oppure che rappresenta il mondo naturale all’interno della città, in assoluto.

Oppure potrebbe significare che rappresenta una di queste cose di volta in volta a seconda del caso, o che rappresenta quello che Gilles Clément vuole che rappresenti in quel momento.

Infine, signore e signori: occhi aperti e orecchie appizzate.

Il passo del leone

L’arte richiede coraggio.

Aforisma n°1

Probabilmente la cosa che sente più stupidaggini al mondo è un quadro al museo