La botanica de’ fiori dedicata al bel sesso – Olschki 2018

La botanica de’ fiori dedicata al bel sesso
a cura di Simona Verrazzo

Introduzione di Lucia Tongiorgi Tomasi e Luigi Zangheri
Premessa di Duccio Tongiorgi
Olschki Editore 2018


A dispetto del titolo, volutamente fatuo e amabile, definire questo libro è assai complicato.
Come spesso accade in libri poco letti o poco studiati, apparentemente riservati a un pubblico di amatori o di collezionisti, in questo volume si incrociano, come file di formiche indaffarate, numerosi fatti che abbracciano la storia delle scienze e della divulgazione scientifica, questioni sociali, femminismo e –non ultima- la storia dell’editoria specialistica preunitaria.
Argomenti che occupano intere biblioteche, se considerati singolarmente: ecco perché i libri che in qualche modo ne sono un distillato rivestono un così interesse così carico di spirito indagatore e la loro ripubblicazione in tempi moderni assume un’importanza tutt’altro che marginale.

Il testo è la “gradevole operetta” ben descritta dalla quarta di copertina: in sé è poco significativa e persino fuorviante da un punto di vista scientifico. Frutto di traduzioni dal francese e rimanipolazioni da parte del poligrafo Giuseppe Compagnoni, abilissimo divulgatore di materie scientifiche per un pubblico non specializzato, in particolar modo femminile, pubblicata da Sonzogno in tre parti attorno al 1828.
Ma questo è solo un aspetto della complessa situazione che il libro racchiude in neanche 100 pagine.
Abbiamo una tortuosa vicenda editoriale, sulla cui pista si è messa la giornalista Simona Verrazzo. Emerge chiaramente come l’editoria dell’epoca fosse tesa alla traduzione o trasposizione di libri stranieri, fatto ancora attualissimo in Italia, non solo per la narrativa, ma particolarmente insistente in settori del “fare” poco praticati, tra cui il giardino o il giardinaggio, che spesso in libreria finiscono sotto il cartellone “hobby e tempo libero” tra il decluttering e il manuale di cucina zodiacale. L’editoria italiana si affida a traduzioni di libri che hanno già riscosso un certo successo nella ristretta cerchia di appassionati di giardino piuttosto che rischiare su nuove voci o impegnare somme per sostenere studi a lungo termine, come quelli botanici o giardineschi.

Nel 1800, secolo in cui la scienza era divenuta una forma di intrattenimento per la classe borghese (cfr. L’invenzione delle nuvole, Richard Hamblyn, Rizzoli 2001), e periodo in cui il fiore era padrone di ogni decorazione, dall’abito all’ambiente domestico, il pubblico femminile veniva sempre più coinvolto nella materia del giardino. Iniziavano infatti a moltiplicarsi i vivai, grazie al forte decremento della tassa sul vetro e all’avanzamento industriale, che consentiva produzione di lastre più sottili e di maggiori dimensioni a prezzi competitivi. In concomitanza con l’arrivo in Europa di numerose specie esotiche, il mercato fu letteralmente inondato di piantine che i vivaisti non sapevano più come smerciare. Fu l’epoca dei parterre fioriti e dei “bedding” di annuali da fiore, la cui sistemazione era graziosamente lasciata alle donne, fino a quel momento quasi del tutto escluse dalla pratica orticola (cfr. Il giardino di Elizabeth, Elizabeth von Arnim, Fazi), specie se di classe agiata.

Il cinquanta per cento del mercato, fino a quel momento emarginato, veniva reintegrato per ragioni finanziarie, e il viatico di questo rientro fu il fiore. In linea generale tutto ciò che era colorato, fiorito, transitorio o piccolo, facile da maneggiare o semplice da coltivare, veniva indirizzato alle donne.
Ho sentito o letto spesso frasi come “giardinaggio al femminile” o “non è una pianta per donne”, disgraziatamente anche a livello accademico o professionale, con la pretestuosità che le donne non siano intellettualmente interessate alla botanica scientifica o sufficientemente forti e resistenti da lavorare la terra e sollevare pesi. Evidentemente chi dice o scrive queste sciocchezze da webetismo qualunquista dimentica o peggio, nega, il fatto che la donna è sempre stata una potentissima forza-lavoro nel corso dei millenni, e che sollevare pesi anche notevoli o lavorare nei campi per vite intere non sono affatto romanticherie da fotografia in bianco e nero o da sceneggiati come La casa nella prateria, ma realtà di cui ogni nonna, italica o meno, potrebbe raccontare in prima persona, dalle gelsominaie calabresi alle mondine romagnole, alle sigaraie toscane (e habanere), alle portatrici di limoni nel sorrentino.
Fu quindi necessario proporre alle donne la disciplina botanica in modo gradevole e leggero, spiegando la morfologia dei fiori basata sulla sessualità già descritta da Linneo, cosa che terrorizzava gli editori, non già –forse- per timore che il pubblico femminile ne rimanesse scosso, quanto per le riserve sociali nel coinvolgere le donne in fatti che in qualche modo riguardassero la sessualità e la scienza.

L’opera in sé non ha scivoloni in metafore o leziosismi inutili, anzi, avanza spiegazioni dettagliate (per l’epoca) degli organi dei fiori, dei sistemi riproduttivi, della formazione dei semi e dei frutti, anche se spesso imprecise o confuse. Assieme a queste nozioni sono presenti piccoli aneddoti piuttosto diffusi nella letteratura floricola ottocentesca, aneddoti non sempre corrispondenti al vero, ma che per gli appassionati sono diventati delle piccole e gradevoli leggende metropol-giardinesche, come quella dei soldati napoleonici avvelenati da un capretto cotto con uno spiedo di oleandro. Purtroppo per i non specialisti questo corpus di aneddotica, tramandato fino a oggi, ha assunto le fattezze di verità storica, in particolare per piante curative o velenose, generando immotivate paure nei confronti delle piante ornamentali (emblematico il caso dell’oleandro).
Non essendo certi della ricezione del pubblico, gli editori Sonzogno hanno diviso la pubblicazione in tre volumetti, qui riportati integralmente. La casa editrice Olschki, in un recupero filologico complesso e molto stratificato, ha prestato particolare cura all’apparato iconografico, a partire dal disegno di copertina -che è stato variato più volte nel corso della vicenda editoriale di questi volumetti- e alle tavole interne, che raffigurano fiori o composizioni all’epoca realizzate con una tecnica chiamata “tampone colorato” che caratterizza fortemente i decori floreali ottocenteschi (tanto che è stata imitata in vari modi nel primo exploit del découpage).

Al termine compaiono delle belle tavole dedicate al cosiddetto “orologio di Flora”, una sorta di tabella di orari di fioritura delle piante.
Un volume che ameranno tutti coloro che prediligono andare direttamente alla fonte e non al riassunto, per comprendere come venivano veicolate alle donne discipline fino a quel momento egemonizzate dagli uomini o chi ama molto la bibliografia, che troverà questa raccolta interessantissima per la storia editoriale che racconta tra le righe, che ci rivela molto sull’editoria preunitaria e –paradossalmente- anche su quella contemporanea.

Scheda del libro sul sito Leo S. Olschki

Il gigantesco genoma del tulipano e l’Ipomoea nil candeggiata. Novità scientifiche dal mondo della botanica

Tulipa hybrid @Orange Sherpa@ developed specially for the Nuclear Security Summit held in The Hague in 2014.
Sequenziato il genoma del tulipano. Enorme. Undici volte quello dell’Essere Umano, finora è il genoma più esteso mai studiato.
Due società di studi genetici, la BaseClear e la Generade, e una multinazionale di ibridazione, la Dümmen Orange, in pochi mesi hanno sequenziato il genoma della varietà ‘Orange Sherpa’. L’intero genoma umano starebbe dentro un solo cromosoma di questo tulipano, secondo Hans van den Heuvel, direttore del settore Ricerca e Sviluppo della Dümmen Orange.

Sempre grazie all’ingegneria genetica, in Giappone hanno candeggiato l’Ipomoea nil, molto nota e amata per il colore azzurro dei fiori, in genere piuttosto puro. L’Ipomea nil era già stata studiata geneticamente ed è stata “sbiancata” attraverso un procedimento che non credo di aver capito bene, ma comunque consisterebbe in un enzima che taglierebbe dall’RNA il gene DFR-B, che determina le antocianine in fiori, foglie e steli. Dei 32 individui modificati, 24 hanno portato fiori bianchi, identità che dovrebbe essere trasmessa alla generazione successiva.

E per chiudere una bella notizia che servirà a rallegravi: altri alberi nella lista rossa della IUCN: si tratta di sorbi e almeno sei specie di frassini americani, minacciati, oltre che dalla deforestazione, dall’Agrilus planipennis.

Fahrenheit Radio3 l’ha cannata sul giardinaggio (come al solito)

Seguo Fahrenheit solo occasionalmente e sempre un po’ a smozzichi, tra una commissione in farmacia e una corsa in redazione. Non ne sono entuasiasta, ma quando lo trovo, lo ascolto volentieri. A volte è molto interessante, altre si adagia su una cultura superficiale e un tantinello commerciale.
Oggi veniva presentato un libro: La ladra di piante di Daniela Amenta, un’occasione per parlare di giardini e giardinaggio, che tirano sempre da aprile a settembre, per cadere nel profondo oblio mediatico in autunno e in inverno (quando il vero giardiniere lavora davvero).
Mi cade l’orecchio su una frase: “Le piante sono inanimate”.
Credo di essere sobbalzata sul sedile dell’auto e di aver per errore azionato i tergicristalli.

Se per “inanimato” vogliamo intendere “privo di autocoscienza, di intelletto, di ragione, di autodeterminazione e di organizzazione sociale”, in breve “esseri non senzienti”, posso anche essere d’accordo. Ma le piante sono ben lontane dall’esssere inanimate se con il termine “anima” si intende l’antico concetto greco, cioè “anemos”, spirito vitale, vento, movimento.
L’anemometro è lo strumento che usiamo per misurare la velocità del vento, e i “cartoni animati” sono tali perché si muovono. Gli animali vengono detti tali poiché ritenuti istintivi, in grado solo di muovere il corpo, spostarsi, quasi senza volontà.
Ovviamente anche un ragazzino appassionato di biologia sa che le piante si muovono, attraverso viticci, rami, semi e propaggini, proprio come se camminassero con i loro stessi piedi, non diversamente da quanto sono in grado di fare gli Ent di Tolkien.
kudzu+15
Pueraria lobata o Kudzu, tanto per fare un esempio.

Le piante possiedono una quantità incredibile di modi per reagire e interpretare i segnali esterni, sono in grado di esercitare una sorta di comunicazione tra loro, attraverso segnali biochimici. Non sono senzienti, ma sono esseri viventi. La parola “inanimato” non calza affatto e non voglio neanche provare a capire come possa venire in testa quando si parla di piante, di Natura.
Il fatto è che le piante si muovono più lentamente degli Esseri Umani, e qui “il deficit di attenzione del mondo moderno” colpisce ancora, facendo pronunciare a Lipperini questa frase rivelatrice di una superficialità esplosiva.

Andiamo avanti. A ridosso delle piante inanimate mi tocca sentire la SOLITASOLFA della botanica.
Il giardinaggio e la botanica sono due cose completamente differenti: basta il dizionario, vi assicuro.
Il giardinaggio è la pratica della coltivazione delle piante e di disporle secondo uno schema gradevole.
La botanica è una scienza finalizzata alla classificazione delle piante in famiglie, generi, specie, ecc.
Personalmente non mi è mai arrivata notizia che Linneo fosse un abile giardiniere, per contro John Bartram, che aveva scarse o nulle conoscenze di botanica, era un coltivatore formidabile.
Solo chi non conosce le immense sfide del giardinaggio, e quelle ancora più complesse della creazione di un giardino, può immaginare di nobilitarlo chiamandolo “botanica”, poiché il giardinaggio contiene la botanica, ma non viceversa.
Non posso addentrarmi nella distinzione tra giardinaggio e kepopoiesi per non stancare il lettore.

Proseguiamo oltre: se la botanica si insegna alle università, il giardinaggio non c’è scuola che lo insegni.
Gli istituti di agronomia e le Facoltà universitarie sfornano tecnici che considerano i vegetali come una merce: pomodori in scatola e fiori recisi. I pochi corsi di tecniche a scopo ornamentale sono del tutto insufficienti, al di sotto di qualsiasi manuale corrente. Ne consegue che i dottori in Agronomia sono in genere ignoranti su ogni cosa che riguarda il giardino ornamentale, ma avendo appeso al muro un titolo universitario, si comportano con arroganza e disprezzo. I pochi agronomi dotati di capacità creativa ed estetica, l’avevano anche prima di mettere piede nelle aule universitarie.

I corsi di paesaggismo e architettura del paesaggio sono praticamente ridicoli e comunque vincolati alle Facoltà di Architettura e Ingegneria.

In Italia un bravo giardiniere s’è fatto sempre e comunque da sé, attraverso lo studio continuo e la pratica indefessa e MAI attraverso un solo ed esclusivo percorso scolastico. MAI.

Concludendo: questa gran confusione tra giardinaggio, creazione di un giardino, botanica e agronomia è tipica dell’Italia ignorante in ogni cosa che riguardi la natura e la biologia.

Se uno confondesse il greco col latino, cosa pensereste?

Io penserei che s’è giocato ogni credibilità.

Miiiiitico!

Questa, ragazzi, è proprio tutta da gustare.
Ricordate il mio recente post sul giardinaggio e la botanica?
Ebbene, ne ho una da raccontare che vi farà ridere tutti: oggi un professore di biologia mi ha detto che è IMPOSSIBILE individuare una pianta se non si ha il fiore, aggiungendo in tono condiscendente: “Senti, tu ne sai un sacco più di me sulle piante, ma l’hai dato l’esame di botanica sistematica?”.

Orpokann, infatti senza fiore non riuscirei mai a distinguere una rosa da un carciofo, o un tulipano da una crisantemo!
E come fare a spiegare al nostro professore che per distinguere certe cultivar o certe specie è proprio la foglia l’indizio essenziale?

Aaaah, qui si gioca a rimpiattino!

Glossario indispensabile, leggere attentamente prima dell’uso

Qualche giorno fa mi è capitato di constatare, per l’ennesima volta, quanta confusione si faccia tra termini differenti ma sovrapponibili, come “giardinaggio”, “botanica”, “arte del giardino”.
Forse qualcuno che mi segue da tempo, dal periodo del mio vecchissimo blog Arboretum oggi “fumato”, ricorderà la breve considerazione che feci a proposito della sostanziale differenza tra giardinaggio e botanica.

Il “giardinaggio” è una pratica che consiste nella cura delle piante e nel fare in modo che esse prosperino nel miglior modo possibile. E’ anche l’operazione che svolgiamo quando ci occupiamo non delle piante come entità singole, ma del nostro giardino come unicum in cui comprendiamo tutto ciò che in esso vi alberga, sia fatto di piante, di roccia, di acqua, di calcestruzzo.
E non c’è alcun merito nel praticare giardinaggio, come mi sembra di orecchiare spesso. Non c’è alcun merito nel praticare il giardinaggio come non c’è alcun merito nel fare acquerelli paesaggistici, recuperate vecchi oggetti col découpage, dipingere sui sassi, o andare in palestra tre volte a settimana. E’ un’attività che ognuno conduce per conto suo e che non può essere imposta -nè a livello pratico nè a livello etico- come “buona” o “positiva” in senso assoluto.
C’è invece merito nel praticare “buon giardinaggio”, il che significa avere autocoscienza di ciò che si compie, sia a livello umano che a livello collettivo, individuale e globale, scientifico, pratico, storico, economico, sociale, culturale. Praticare “buon giardinaggio” a volte può anche voler comportare l’astensione dal giardinaggio.

La “botanica” è invece una disciplina che studia i caratteri tassonomici dei fiori e delle piante, i loro organi riproduttivi, la loro classificazione in famiglie, generi, specie, ecc. E si fa prevalentemente col “culo sulla sedia”. Linneo classificò migliaia di piante col “culo sulla sedia”, facendosi inviare da tutto il mondo esemplari che studiava e schedava. La botanica è una classica disciplina da microscopio, biblioteche, piastre di Petri, polvere e sedia. Molta sedia. Se vi siete immaginati romantiche avventure alla Conte di Bougainville, del tipo raccontato da Andrea Wulf, siete fuori strada, ma di parecchio.
Definire quindi un giardiniere un conoscitore di botanica o un appassionato di botanica, come fin troppo spesso capita, è un errore grossolano nel più felice dei casi, un insulto nel peggiore. Sfido molti ottimi giardinieri a esporre le loro conoscenze botaniche: per lo più saranno informazioni acquisite nel corso del tempo e dell’osservazione delle piante, una sorta di “sesto senso giardinicolo” che fa intuire -anche se di quella pianta non si sa nulla- a che tipo di famiglia appartenga e che tipo di trattamento orticolo gradisca.

La botanica è uno strumento del giardiniere al pari degli attrezzi da giardino: serve per distinguere le piante e riconoscerle, in modo da comprenderne le esigenze colturali. Un giardiniere può avere ottimi risultati conoscendo poche nozioni elementari di botanica, di contro un botanico potrà essere un pessimo giardiniere. In effetti i botanici fanno raramente del giardinaggio, è più facile che si diano alle scommesse sulle corse dei levrieri.
Perciò, ricapitolando, il botanico non sa una beneamatissima di giardinaggio, il giardiniere qualcosina di botanica dovrà pur saperla, ma la botanica non sarà il suo obbiettivo primario: la botanica studia i caratteri morfologici delle piante, non le loro necessità di coltura.

Quando invece tralasciamo, dandolo per scontato, l’elemento di conoscenze botaniche e orticolturali, e parliamo di “giardino“, o di “arte del giardino“, o di “arte di creare un giardino“, il discorso si poggia su un terreno meno saldo e più polimorfico, in quanto non più attinente alle discipline scientifiche, come l’orticoltura (o il giardinaggio come tecnica) e la botanica, ma a discipline filosofiche ed artistiche su cui ancora si dibatte (per fortuna).
Questa forma d’arte che io ho chiamato kepopoiesi, è la proiezione della funzione estetica sul giardino. Ha a che fare quindi con una prospettiva squisitamente artistica del valore “giardino” e non più tecnica, laddove la tecnica di coltura sia comunque data a livelli che possono variare dallo zero assoluto all’eccellenza insuperabile.

Mi auguro che questa specificazione dei termini che più spesso vengono confusi tra loro possa essere proficua. Se devo essere sincera è un po’ triste trovarsi a scrivere queste cose, che dovrebbero essere conosciute e straconosciute da chi pratica il giardinaggio e si definisce giardiniere alla Russel Page. Insomma, a dirla tutta non è il post dei miei sogni questo, ma constatato che fosse necessario e doveroso scriverlo, l’ho scritto.

Saverio Macrì

Saverio Macrì

Saverio Macrì fu un personaggio estremamente poliedrico e versatile, e per tutta la sua vita nutrì interesse per un gran numero di materie.
Come molti, seppur notevoli, studiosi del Settecento illuminista, la sua figura è purtroppo poco conosciuta a livello nazionale. Drammaticamente, però, questa ignoranza si estende anche al suo paese di origine, Siderno,, che non gli dedica neanche una strada.

Saverio Macrì nacque nel 1754 da una famiglia votata alla cultura, specialmente alle scienze mediche ed alla filosofia teologica. Come la maggior parte dei giovani di qualche secolo addietro, ebbe la prima formazione presso un convento domenicano, poi si trasferì a Napoli dove studiò presso i Padri Gesuiti.
Si laureò in medicina all’Università di Napoli, allora capitale del glorioso Regno delle Due Sicilie, e qualche anno dopo anche in filosofia.

Si specializzò in botanica ed altre branche delle scienze naturali, ebbe la cattedra di zoologia degli insetti e di zoologia dei quadrupedi. Pubblicò numerosi studi su diverse specie animali e vegetali, fu in stretta corrispondenza con Carlo Linneo, divenne socio della Regia Accademia delle Scienze e Belle Arti fondata a Napoli nel 1778.
Fu anche tra i soci fondatori del Museo Zoologico Napoletano.
Nel 1838, all’età di 84 anni, fu nominato Rettore della regia Università di Napoli, che in epoca pre-unitaria produceva da sola tanti laureati quanti tutto il futuro regno d’italia.

Seppur molto vecchio fu operosissimo fino alla fine dei suoi giorni: morì a Napoli il 3 gennaio 1848, ormai novantaquattrenne.
Sebbene i suoi interessi abbracciassero tutte le scienze, si occupò anche di botanica. Fu inviato dal professor Domenico Cirillo in vari luoghi del Regno di Napoli per reperire alcune piante rare per il suo orto botanico e da inserire nel suo volume Flora Napoletana
.
Spinto dall’amore per il suo paese natale, nel 1823 volle compiere uno studio statistico su Siderno, descrivendone le condizione dell’acqua, del terreno e dei minerali, dell’agricoltura, della flora, della fauna, delle coltivazioni e del commercio.
Il titolo di questa opera è Saggio sull’istoria naturale sidernate, che fu pubblicata un anno dopo dal fratello Michelangelo, storico, filologo e letterato, accademico dell’Università di Napoli, sotto il lunghissimo titolo di: Memorie istorico critiche intorno alla vita e alle opere di Monsignor Fra’ Paolo Piromalli, Domenicano, Arcivescovo di Nassivan, aggiuntavi la Sidernografia.

Nella sezione riguardante la flora, Macrì elenca le specie spontanee e quelle coltivate, usando la nomenclatura binomiale linneana, ed usando i termini botanici di Bahuin, spesso affiancando al termine latino quello volgare o aggiungendo qualche breve nota sulla diffusione delle specie .
Particolare attenzione è stata dedicata ad alcune piante. Gran parte della sezione botanica è occupata dalla spiegazione della tecnica della caprificazione e da note sulla qualità degli agrumi sidernesi.
Si citano piante utili come l’ “Ampelodesmus Plinii”, descritta come una specie di Arundo con cui a Napoli si facevano stuoie e funi. In Sicilia invece veniva usata per costruire reti da pesca e a Siderno per la realizzazione di crivelli detti “cerniglie” che servivano a cernere il grano.

Del “Cactus opuntia” si dice che i contadini lo piantano là dove altre piante non avrebbero attecchito per via della siccità. Il frutto non era considerato pregiato, e veniva consumato solo dai poveri o dato ai maiali. Oggi invece è molto ricercato e costoso. Sulla foglia (detta “pitta”) era possibile dipingere (“pittare”), e se i frutti venivano raccolti ancora non maturi con la foglia attaccata, si conservavano fino all’inverno.

Oggi un rinnovato interesse per gli antichi mestieri e tradizioni vede la produzione di piccoli oggetti ricavati dalla struttura fibrosa e resistente della foglia.
Le foglie del fico d’india sono un ottimo concime.

Si parla anche del “Sesamum orientale”, sesamo o giuggiolena, con cui a Siderno si faceva la “copeta”, cioè il torrone siciliano, e dell’ormai sempre più raro Pistacia lentiscus , dai cui frutti si ricavava un olio per friggere dolci.

Per maggiori informazioni su Saverio Macrì cfr. “Elogio di Saverio Macrì” pubblicato negli Atti dell’Accademia Pontiniana, vol. V, anno 1846, oppure il volume di agevole reperibilità “Siderno nel Settecento” di Domenico Romeo, AGE edizioni, Ardore 1997

Saverio Macrì su Google Books

Ah, ma allora ti piace la botanica!

08/29/08
Ah, ma allora ti piace la botanica!
Filed under: Giardinaggio e natura
Posted by: Lidia @ 5:30 pm

Quante volte ve lo siete sentito dire? “Ah, ma allora ti piace la botanica!” è la frase tipica che ci rivolge qualcuno quando vuole farci un complimento, dopo averci sentito dire che siamo appassionati di giardinaggio.
Sì, grazie, la botanica mi interessa, ma giardinaggio e botanica sono due cose molto diverse.
Il giardinaggio non si esaurisce nella composizione degli organi del fiore, nelle diversità tra i frutti, tra le infiorescenze e tra i semi.
Si può fare ottimo giardinaggio senza conoscere che poche cose di botanica, e per contro il botanico non necessariamente saprà fare del buon giardinaggio.
Sono due materie convergenti e complementari, ma non sono affatto la stessa cosa.

Ma perché la gente ci chiede se siamo appassionati di botanica? Semplicemente per essere gentile nel tentativo di “nobilitare” il giardinaggio. Chi parla di botanica è perchè non conosce le immense difficoltà tecniche che risiedono nel giardinaggio, il vasto numero delle materie di cui un buon giardiniere deve essere a conoscenza. La botanica si studia all’università, il giardinaggio negli istituti per agronomia o nelle scuole specializzate (ed anche lì molto male). Non ha una dignità, insomma, agli occhi della gente. Per non essere scortesi meglio tirare fuori la botanica.

Sempre i miei paragoni con l’Arte: lo stesso accade al disegno nei confronti della pittura. Ti vedono con i pastelli colorati in mano e ti dicono che stai “dipingendo”, questo per onorare le tue fatiche, che non dovrebbero sprecarsi in tecniche inferiori, ma anche per una sorta di altezzosa condiscendenza, per non far capire che si ha un po’ di pietà per noi, che ci dilettiamo con cose da poveri.