Il setter Cayenne

Confesso un non ben specificabile fastidio, una sorta di unghiata sulla lavagna, un acufene stridulo, diciamo pure un attacco di cinetosi, nel leggere Diario di campagna e di città , due “Gardenie” fa.
Pensare che era da poco che avevo scoperto che questa bustina di paesaggio cittadino era piacevole e ben scritta.
La marchesa Caterina Gromis di Trana è una che coi cani ci ha sempre vissuto. Ma mica canetti di quelli comuni, di quelli che trovi l’annuncio dal veterinario “regalasi cuccioli”. La sua è roba raffinata, costosa, di marca.

Boh, comunque sia, un cane è un cane, di marca o no, e tanto mi piaceva questo Diario di campagna e di città, che mi sono comprata Vita da cane. Confessioni di un capobranco, della piccola ma interessante Blu Edizioni, il cui catalogo vi consiglio di richiedere e sfogliare diligentemente.
Il libro è scritto con la degnazione di chi ha gli allevamenti di cani di marca e chiama i bastardini “cani da pagliaio”, elogiandoli pure ma con condiscendenza, trovando persino qualche parola di democrazia canina di risulta in una attrezzatura linguistica disciplinata e forbita.

Infatti il libro è finito sulla cassapanca in bagno, insieme a “Gardenia”. Ma questo va per conto suo.

La marchesa ci fa sapere che in quel momento ha dei setter adulti. Ma voleva una cucciolata. La sua cana però non ci stava col fidanzato che le avevano procurato e la cucciolata è andata a carte quarantotto. Allora la signora pensa “quasi quasi mi prendo un bovaro: non l’ho mai provato”. Anche io non ho mai provato un bovaro, né un setter, né un Cayenne. Vado in giro con i miei due bastardini e una Polo scassata che si ricorda i tempi dell’arca di Noè. “Un bovaro –continua imperterrita la signora- prende lo spazio di tre o quattro setter”. Anche una Volvo prende lo spazio di tre Twingo, penso io.
Mossa da ardore etologico e biologico, la signora vuole conoscere le attitudini di tutte le razze di cani (a quanto pare la razza per eccellenza, quella dei “cani da pagliaio”, però non le interessa), ed è pronta a disfarsi dei suoi quando se li è stufati. Ma non preoccupatevi: quei cani lì c’è chi li compra a peso d’oro, mica vanno a finire al canile di Sant’Ilario.
Posso anche capire questo zelo scientifico con cui si muove la signora (quello zelo che è appena ad un passo dalla vivisezione e dal trapianto di cervello sulle scimmie?). Ma mi chiedo: con che criterio e secondo quale impulso si sceglie, o meglio, si accoglie un cane? Per vedere come fa la punta o quante quaglie riesce a riportare? Per sapere come azzanna o quante medaglie si porta a casa ai concorsi? Per calcolarne la velocità e la resistenza? Per valutarne forma, dimensioni, peso, corporatura? Criteri legittimi, per quanto discutibili, per un cacciatore, un espositore, un allevatore o per chi i cani li compra o li alleva per rivenderli, come tacchini da ingrasso. Una filosofia un po’ meno gradita per chi scrive libri e articoli che dovrebbero illuminare l’umanità sulla “caninità”.

A mio modo di vedere, che sarà certamente opinabile e forse da poveraccia miserabile agli occhi della marchesa/duchessa/ochessòio, questa non è “caninità”, ma una parte di “caninità” scelta con criteri umani (e non canini). Non è generale, non è la cavallinità del cavallo o la cosità della cosa, ma solo un pretesto per l’esaltazione egocentrica e inammissibilmente inconsapevole del proprio ego.

Cara signora, un cane non si sceglie, ma un cane CAPITA nella vita. Non lo scegli tu, ma il tuo destino. E il cane si accoglie e si cura come un membro della famiglia non perché è bello, intelligente, fa la punta così e cosà, ha la testa al tot per cento di distanza dalla coda e fesserie simili. Con un po’ di rabbia le dico: se le tenga per sé, queste cazzate.
Negli occhi di un cane –se si è proprio molto bravi- si riesce a vedere ciò che il cane vede in noi: la nostra umanità (non intesa nel senso di pietà e misericordia, ma di “ciò che di umano v’è nell’uomo”).
Il cane ci mostra ciò che siamo, a prescindere dalla lunghezza delle sue zampe o dalla distribuzione delle sue macchie.
Io non cambierei i miei due “cani da pagliaio” neanche con Lassie e Rin Tin Tin.
Se la signora rinnova il suo branco come rinnova il guardaroba, l’automobile il taglio dei capelli, per favore, non lo proclami come atto di amore per la stirpe canina e men che mai se ne vanti. Vorrei anche sapere se a lei piacerebbe essere “rinnovata” da un alieno grande e grosso che le misura la distanza dell’attaccatura del collo da quella del bacino, o se sarebbe contenta di essere “rinnovata” da suo marito e dai suoi figli.

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Glicine, cipresso, palma

Glicine, cipresso, palma, cipresso, glicine

Il glicine. Il glicine ha forse il monopolio di queste settimane. Profumo, colore, vigoria, tutto contribuisce a farne il re della metà di aprile.
Il più delle volte è un rampicante contenuto lungo la ringhiera di una villetta (immaginamoci le potature annuali per limitarne la crescita, i fastidi dei vicini, i borbottii dei passanti). E’ sinonimo di eleganza, raffinatezza, capacità colturali, di lustro sociale. E’ insomma utilizzata dalla società borghese per definire il suo status.
A volte è utilizzato come una graziosa mantovana per ornare balconi e tettoie.
mantovana

Oppure per fare da ghirlanda fiorita al parapetto dei balconi-bene.
Ghirlanda

Mi viene in mente Hermann Hesse e la descrizione dell’Araucaria, che considerava pianta borghese per eccellenza. Il cedro, l’Araucaria, il glicine, la Washingtonia, la Phoenix, la Cycas e il loro seguito di palmizi assortiti, sono tutte piante che nel contesto delle periferie urbane delle province italiane, hanno finito per adornare le case di quel tipo di borghese che descriveva Dostoevskij in L’Idiota, quando parlava del generale Ivolguin, o George Eliot in Middlemarch.

Glicine del benzinaio

Questo è un glicine non potato e lasciato libero di correre sugli alberi, che è quello che il glicine dovrebbe fare. Qui sono cipressi, i cipressi del benzinaio, che con il loro fogliame scuro rendono in qualche modo lugubre il colore del glicine.
Foto di gruppo con palma
La palma c’è, ma in questo caso smorza la tetraggine del fogliame del cipresso. Sembra stare lì per pura combinazione, senza nessun atto di premeditata orticoltura.
Libero finalmente
Il glicine corre finalmente libero di esprimere tutta la sua vocazione. Dato che abbiamo tanti cipressi nei cimiteri, perchè non piantarci al piede qualche glicine? O semplicemente, perchè non lo piantiamo lì dove può essere piantato, senza costringerlo con potature in spazi angusti, come se fosse un rampicante da niente, piccolo come una clematis, docile come un pisello odoroso?
Ci ostiniamo a volerlo avere a tutti i costi, perché è bello, perchè è terribilmente romantico, perchè anche gli altri ce l’hanno, per non essere da meno.
Dovremmo pensarci due volte prima di piantare un glicine in giardino, capire dove andrà a finire e se saremo costretti a tagliarlo alla base il giorno che l’ENEL ci dirà che dà fastidio durante le operazioni di manutenzione ai cavi della corrente. Vogliamo avere una trina color malva sul cancello d’entrata? Bene, dovremo stare attenti che non se lo divori.
E vissero per sempre felici e contenti

Una cortina di alberi o un’alta siepe, non necessariamente privata, ma perchè no, anche comunale, sono un supporto ideale per un glicine, che potrà cessare di essere quel barboncino tosato e con la coda a pouf, e tornare ad essere l’animale selvaggio che è.
Cazzo, lasciate battere il cuore del glicine.

Giovane, bello e quasi ricco. Dal TG1 “novità” sul giardinaggio

Ieri sera il Tg1 ha pensato bene di informarci che ci piace fare del giardinaggio.
Sentiti ringraziamenti.
Anche a marzo scorso il Tg1 aveva dedicato un servizio di cultura all’incremento della passione degli italiani per il giardinaggio.
Qualche settimana fa invece siamo stati incipriati di bellezza con un raccapricciante servizio sul décor d’interieur con fiori e fogliame.

Cosa dobbiamo dedurre dal fatto che la testata tv più vista d’Italia presenti almeno tre servizi di cultura dedicati al giardinaggio e alle piante, dopo aver per anni totalmente ignorato la questione?
Non certo che d’improvviso le amministrazioni comunali cesseranno di capitozzare a scalvare Cercis in piena fioritura, ma semplicemente che l’interesse per il mondo della natura, in Italia, è in forte aumento, grazie anche al diffuso mutamento culturale generato dalle nuove necessità ed istanze ecologiche. Il fenomeno non è rimasto solo di “colore”, ma è diventato un mercato il cui polso non sfugge all’analisi degli economisti. Secondo una statistica aggiornata a qualche anno fa, il giardinaggio è la terza voce di spesa per gli hobby degli italiani.

Sarà per questo che il Tg1 dedica tanto spazio alle piante?

Il ritratto fatto dalla giornalista è piuttosto chiaro: tra i 35 e i 40, con un lavoro ben avviato, pratica il giardinaggio per rilassarsi (come quello che ascoltava Mozart durante il tempo libero) o per avere un po’ di “natura” in casa. L’orto ritorna ad essere quello che era: una necessità e non un passatempo. In questo le persone più anziane sembrano essere più consapevoli dei giovani, che piantano le zucchette ornamentali e le insalatine nel prato per essere “di tendenza” più che per mangiarle realmente.
Altro dato sensibile: la riscoperta delle piante nostrane, autoctone e profumate o aromatiche, come lavande e rosmarini.
La riscoperta del primitivo, dell’originario, del naturale, del localismo, è un dato importante, perchè indica che si è stanchi dell’esterofilia anglosassone, e che si vuole intraprendere nuove strade, più vicine al sentiero di casa, che conducano insomma, alla riscoperta di se stessi.
Tutto questo si sta già tramutando in una moda, una moda per ora destinata alle persone di ceto medio con una autocoscienza giardinicola scarsa o in divenire.
Lo testimonia anche la superficialità dei servizi del TG1, che raffigurano una porzione di società in cui una buona parte degli appassionati di giardinaggio non si rispecchia, un po’ fatua e volatile. Per l’appassionato praticare del giardinaggio non è un hobby rilassante, ma una passione a volte anche stressante.

Di questo “effetto moda” è testimonianza il fatto che la pianta più cliccata in questi giorni sarebbe la Lithodora diffusa

Lithodora diffusa in ambiente naturale

…una pianta sicuramente amata per la travolgente fioritura azzurra e il portamento prostrato, che però non gradisce l’ambiente troppo ricco e umido dei vasi da balcone. Insomma, una pianta che si compra, si vede fiorire per poi spegnersi inesorabilmente. Magari l’anno dopo la si ricompra e si riparte daccapo, incuranti delle sue reali necessità di drenaggio, temperatura, acidità del suolo e umidità.

Rami in alto o vi spariamo!

Potature, capitozzature, scalve: atti di inciviltà e incompetenza?
In realtà solo mezzi di contrattazione politica

Perché, perché, perché? PERCHÉ ogni tot anni, in un periodo variabile da febbraio ad aprile, le amministrazioni comunali capitozzano le piante? Il malcostume, una volta tanto, non è solo della Calabria, ma è felicemente detenuto da tutta l’Italia. In altri paesi, come la Germania o la Svezia, il taglio di un singolo ramo deve essere giustificato ed eseguito secondo le dovute norme tecniche.
Da noi, invece, ogni due o tre anni, nel periodo che va dalla fine dei rigori invernali fino ai primi caldi estivi, le amministrazioni comunali iniziano a scalvare le alberature comunali riducendole a dei relitti focomelici. Chi ne ha di più parte presto, chi ne ha di meno, come i piccoli comuni calabresi, si decide verso aprile, quando ormai il caldo è forte e la pianta stenta a rivegetare.
Ogni tanto qualcuno si lamenta, parte con uno “gne gne gne” piuttosto improduttivo in difesa delle piante e degli alberi come “creature”, come “esseri viventi”, facendo magari un paragone con i bonsai, i piedini di giglio giapponesi, le orecchie dei Dobermann e le code dei barboncini.
Non bisogna erigere la pianta a feticcio, a simbolo di una purezza perduta, di una vitalità naturale e incontaminata. In Italia sembrano esistere due polarità opposte in tal senso: la signora che si incatena all’albero perché non venga abbattuto e il vecchietto che va in comune a protestare perché l’albero gli fa ombra sul davanzale.

Allora, signori, iniziamo a ragionare e cercare di capirci qualcosa: rispettare le piante è un fatto di civiltà, di educazione e segno di un livello superiore di coscienza civica, esattamente come lo è non lasciare le cacche dei cani sul marciapiedi o non gettare mozziconi di sigarette per strada.
Lasciamo stare l’albero inteso e il suo fascino selvaggio alla Walt Whitman (o Avatar, se preferite), parliamo dell’unica cosa che possa sinceramente interessare una pubblica amministrazione: parliamo di quanto l’albero può dare a noi, in termini di comodità, vivibilità e ritorno economico.
Cari sindaci e care sindachesse, sappiamo benissimo che dietro le potature periodiche ci sono begli appalti che sono importante merce di scambio politico (perlomeno da noi, il mercato del floroviavaismo, non meno che quello del mattone, è in buona parte controllato dalla mafia. La stessa asta dei fiori ad Aaslmer in Olanda serve a coprire il riciclaggio di danaro sporco, il traffico di armi e di “diamanti insanguinati”). Ma vi ricordiamo volentieri che i trafficucci non vanno in disaccordo con un’apparente civiltà, che tra l’altro terrebbe la cittadinanza in uno stato di quiescente sopore, più prona di fronte a eventuali “manipolazioni”.
Gli atti di inciviltà che si sono in queste settimane presentati a Reggio Calabria e nel comune di Locri, tanto per fare due nomi, sono di quel tipo scioccante che ha il potere di far ribellare la popolazione che non è ancora del tutto bovina.
Vi torna comodo? Non sarebbe più proficuo effettuare delle potature meno devastanti? Sarebbe meglio per voi, meglio per noi, e meglio per gli alberi.
Affidando i lavori di potatura in mano a degli esperti, non a dei semplici impiegati alle dipendenze del comune che non sanno distinguere un fico da una fichessa, vi garantiamo che risparmiereste perfino, anche se sappiamo che non è questo il punto, anzi, tutto l’opposto.
Vi diciamo una cosa: i vostri giochetti di amicizie e comparaggi potete farceli anche sotto il naso, ma per favore, evitateci lo squallore di alberi fatti diventare tronconi. Un caso lampante è quello di Locri, che ha ridotto il viale di tigli di via Matteotti a dei pali della luce confitti nel terreno. Sono così tristi da menarti nel cuore, da farti venire in mente cose tristissime e deprimenti, come le poesie di Quasimodo, la guerra, le Foibe.
Proprio nei giorni in cui Locri inaugura il suo Urban Center, che dovrebbe essere strumento di condivisione e apertura, il Comune di Locri ha lasciato inascoltati gli appelli e le rimostranze dei cittadini e delle associazioni ambientaliste che hanno mesi fa protestato per il nuovo progetto di riqualificazione e riassetto della Villetta antistante il municipio. Con decisione autocratica si è messo mani alla villetta tagliando e sventrando: per ora poco male, a parte un vetusto esemplare di Araucaria che forse avrebbe potuto essere recuperato.
La mia opinione l’ho già detta a suo tempo: la villetta era “overpiantata”, sovraffollata e tutt’altro che attraente. C’erano davvero molti modi per migliorarne l’aspetto, tra cui anche la rimozione di alcuni esemplari poco interessanti (come le perfide thuie) e di pini che si davano reciprocamente fastidio. Il cantiere è recinto per cui non è possibile accedervi, ma dall’esterno si vedono bene delle potature mal eseguite evidentemente da personale non qualificato. Un grosso problema è infatti la mancanza assoluta di qualsiasi nozione di base da parte del personale che annualmente pota gli alberi.
Spesso si tratta di ditte che sbandierano attestati e certificazioni di qualità, vivaisti, “esperti” del settore. Questo la dice lunga su quanto bassa sia la nostra cultura non solo per quanto riguarda le piante, ma per tutto il mondo naturale, sia esso di carne, di foglia, di pietra o d’acqua. Piuttosto che fare potature così scorrette da un punto di vista agronomico e florovivaistico, sarebbe stato più opportuno rimuovere gli esemplari (un pino in più o in meno non ci cambia la vita, ma un pino tutto storto sì).
Ma –amici miei- state a sentire, ché il bello deve ancora arrivare: in uno spazio grande come un fazzoletto, il nuovo progetto per la villetta di Locri propone un giardino all’italiana, dimostrando così che chi ha avuto cotale bizzarra idea non conosce affatto la storia del giardino e non ha la più pallida nozione di paesaggismo urbano.
Per le malattie siamo sempre pronti a rivolgerci a luminari e baroni di ospedali di Roma o Milano, mentre per queste pratiche che hanno una ricaduta permanente sul territorio, sulla nostra immagine e sulla sua spendibilità in Italia e all’estero, ci affidiamo “alla ditta la Qualunque”, purché prometta, porti, ricambi, infili.
A questa negligenza massima dobbiamo le scalve periodiche degli alberi, i progetti di riqualificazione che imbruttiscono, la totale inosservanza delle più elementari norme orticole nella cura del verde pubblico.
Per carità, signori, non vi stiamo chiedendo di farci il Viaduc des Arts come a Parigi, ma questa torreggiante negligenza è ormai diventata inaccettabile anche in un territorio come la Locride, che la Comunità Europea denomina “obiettivo1”, cioè quelle che ancora si devono equiparare alle altre. Insomma, le ripetenti, le bocciate.
Lo stesso discorso si può fare per il disastro compiuto ai danni dei Ficus (pumila, retusa, ormai chi li riconosce più: non c’è rimasta neanche una foglia) di Piazza Italia a Reggio Calabria. Il paragone con un ammalato di focomelia è fin troppo facile per la sua oscena verosimiglianza.
Perché poi piantare alberi a tutti i costi? E tutti così vicini, stretti stretti come galline in una batteria? Chiaro poi che sarà necessario potarli. La corretta distanza è di circa 10-20 metri, a seconda dell’albero, e per carità, cancelliamoci dalla testa quest’assurdo ideale anglo-francese di piazza alberata a tutti i costi! Le piazze più belle d’Italia non hanno alberi: cosa sarebbe Piazza Navona con un filare di tigli?
E Piazza del Campo a Siena con un bel platano nel mezzo? La moda del viale e della piazza alberata nasce in epoca relativamente recente, dopo il rifacimento di Parigi da parte dell’architetto Haussmann e delle località balneari come Bath in Inghilterra da parte dei due John Wood (padre e figlio) che idearono i famosi crescent e circle e da John Nash che costruì il Regent’s Park a Londra: entrambi modelli per l’attuale stile dell’arredo urbano (che più che stile, bisognerebbe chiamare “mancanza di stile”).
Ma parliamo di spazi diversi, di epoche diverse, di fenomeni artistici diversi e soprattutto di culture diverse. Qui da noi la cultura dell’albero è nel giardino privato, la piazza deve essere lasciata alla comunità per incontrarsi e discutere, confrontarsi. L’ozio è nel proprio domicilio, non nello spazio pubblico. E’ una dimensione fortemente latina della vita pubblica, in cui all’otium era riservata la campagna, al negotium la città.

E’ la cultura inglese del genere “pittoresco” , nata in epoca illuminista, che ha portato il parco nelle grandi città, e di conseguenza, nei secoli successivi, ha affollato le nostre piccole piazzette comunali di alberi e alberelli. Non c’è una vera ragione per la presenza di questi alberi, si è semplicemente seguita la moda che lo stile dell’epoca imponeva. Alla fine siamo costretti a dirlo: questi alberi, mal piantati, sovraffollati, con le radici costipate in piccole buche dei marciapiedi, sofferenti, moribondi, mal potati…ebbene, sarebbe il caso di levarli proprio. Così non li vogliamo, e le amministrazioni non hanno il diritto di propinarceli.
Se è vero che il trattamento riservato al verde comunale evidenzia in maniera molto puntuale il livello culturale di una città, le conclusioni sono facilmente deducibili anche al più cieco degli osservatori. Gli alberi stanno lì, con “le mani in alto”, in fila come briganti in attesa di essere fucilati.

Dategli allora il colpo di grazia, ma risparmiateci la vista di quest’orrore!

Dall’Istituto agrario di Cesena: 6 buone ragioni per non capitozzare un albero

1) Deficit di sostanze nutritive: la potatura corretta rimuove non più di 1/4 – 1/3 della chioma, per non interferire con la facoltà dell’apparato fogliare di produrre sostanze nutritive. La capitozzatura, invece, elimina una porzione di chioma tale da sconvolgere l’assetto generale di un albero ben sviluppato, interrompendo temporaneamente la facoltà di produrre sostanze nutritive e determinando una “crisi energetica”.

2) Shock: la chioma di un albero è paragonabile ad un ombrello parasole capace di schermare le parti dell’albero dall’azione diretta dei raggi solari. Con l’eliminazione improvvisa di questo schermo, il tessuto della corteccia è fortemente esposto alle scottature solari.

3) Insetti e malattie: i grossi mozziconi presenti in un albero capitozzato cicatrizzano con difficoltà ed in tempi lunghi. La posizione apicale di queste ferite e le loro notevoli dimensioni ostacolano il buon funzionamento del sistema naturale di difesa, pertanto i mozziconi residui sono facilmente attaccabili da insetti e parassiti.

4) Indebolimento dei rami: nel migliore dei casi, il legno nuovo è molto più debole di quello vecchio.

5) Ricrescita accelerata: lo scopo di una capitozzatura è il controllo della crescita in verticale di una pianta. Spesso però si ottiene l’effetto opposto: infatti i ricacci successivi sono nettamente più numerosi e veloci di quelli che si svilupperebbero normalmente, tanto da riportare in breve tempo l’albero alla grandezza precedente, con l’aggravante di una chioma più disordinata e meno sana.

6) Risultato estetico sgradevole: un albero capitozzato diventa come “sfigurato”. Perfino in caso di buona reazione e di crescita non potrà mai recuperare bellezza e conformazione naturale della specie di appartenenza. Pertanto il paesaggio e la comunità sono privati di un aspetto estetico di valore.

“Dove sei?” Etica medica del telefonino

Sono infuriata, stanchissima, spaventata a morte e indignata dal più profondo dei miei sensi di essere umano.

L’etica medica prevede normalmente che il malato sia rispettato nella sua fisicità e nella sua moralità. Questo accade sempre di meno, ed è una cosa gravissima, indice di rapporti sociali sempre più selvatici.
Il buon medico rispetterà sempre la nudità del paziente o le sue difficoltà fisiche o fisiologiche. Il buon medico non offenderà mai l’intelligenza del suo paziente, anche quando questa non è eguale alla sua, il buon medico lascerà da parte i suoi problemi per meditare su quelli del suo paziente.

Il buon medico dovrebbe spegnere il telefonino.

Oggi ho visto cose che Roy Betty non avrebbe mai potuto immaginare, cose che sono all’ordine della quotidianità, e non credo solo nella famigerata Calabria.
A parte uno studio medico pieno di scalini e con porte strette che manco quelle del Paradiso, un medico, UN PRIMARIO, che passa un quarto d’ora al telefonino a cazzeggiare (sì, ripeto, cazzeggiare) con un suo “caro, caro amico” , un “avvocato tributarista di fine livello, tra i più quotati di Cosenza” (…ma vaffa), con un paziente steso su un lettino, mezzo nudo, morto di freddo, impaurito, innervosito, mortificato nel corpo già dalla malattia, a subire questo supplemento di Golgota a causa di uno che va a farsi la campagna elettorale tra i suoi amici medici.
Volgare farabutto, ladro di polli, abigeatore.
Il PRIMARIO, intanto, manovrava lo strumento col gomito, più o meno come io cerco di aprire la porta di casa mia quando tengo le buste della spesa, la posta e gli ossi dei cani in mano.
Sì, proprio, schiacciava i pulsanti col gomito mentre col telefonino nell’altra mano se la rideva dottamente dicendo frasi del tipo “Eh, ma da quando sono andato in pensione siamo troppo distanti, sei sempre nel mio cuore, per te farei questo ed altro…”
Ho il voltastomaco. Sono personalmente offesa e terribilmente incazzata.

Dove sono questi valori?
Consapevole dell’ importanza e della solennità dell’ atto che compio e dell’ impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’ uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale ed alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell’ esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione. Di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d’ urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a disposizione dell’Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’ esercizio della mia professione o in ragione del mio stato; di astenermi dall’ “accanimento” diagnostico e terapeutico.

DOVE , DOVE SONO?

La povertà è un privilegio?

Il frigo è troppo fresco
Il frigo è troppo fresco, non c’è niente sul mio desco. I ripiani tutti vuoti, peggio che gli Zopiloti. Con il gatto tutto rotto, filo via col fagotto. Non ci torno a casa mia, e mi perdo per la via.

I commenti a questo messaggio mi hanno letteralmente stupita: un vero e proprio regolamento di conti tra classi sociali. Come scrisse Pierre Bourdieu nel suo mai tanto celebrato La distinzione, critica sociale del gusto, non c’è nulla che divida le persone come il loro stile di vita.
A parte la deriva linguistica che in molti -con un fremito di perbenismo- troveranno inaccettabile (dovuta peraltro unicamente all’intrusione di Andrea che voleva solo regolare un suo conto personale) e che per sè è del tutto ininfluente se non per collocare una persona in un determinato ceto socio-culturale, ciò che rimane del discorso è l’inconscio rifiuto da parte della classe media dell’accettazione della povertà altrui come funzionale al proprio benessere, e il rifiuto dei ceti sociali con basso potere d’acquisto ma alto capitale culturale a lasciarsi diseredare da tutte le funzioni sociali e politiche, tra cui la produzione d’arte (o di politica).
Dinamica dei campi pura e semplice, condita da qualche colorita metafora, giustificata o se non altro giustificabile, dato il clima natalizio incombente.

Ciò che volevo mettere sul tappeto, e che solo Trem ha capito, e anche forse solo in parte, è che per molti versi non poter consumare è un privilegio, ma per molti altri no (e li ho anche spiegati: non poter viaggiare, confrontarsi, vedere posti, opere d’arte ecc). Difatti c’è un bel punto interrogativo nel titolo, cosa di cui nessuno sembra essersi accorto.
Ciò di cui mi sarebbe piaciuto discutere sarebbe stato quando, come e perchè ciò che apparentemente è una privazione a volte diventa un privilegio, cioè quando ci si riconosce in qualcuno o qualcosa, che possiamo fare nostro, diventandone contemporaneamente parte. E questo sia da un punto di vista sociale, umano, che estetico, giardinesco. Ed è il riconoscimento nell’altro da sè che genera bellezza. Nient’altro che questo.
La povertà è un privilegio anche quando nella ristrettezza più totale, è maggiorato il piacere del dono. Ma possibile, signori, che nessuno abbia letto “Se questo è un uomo” o “Il diario di Anna Frank”?
La libertà della mente non coincide certo con quella fisica, altrimenti Steven Hawking penserebbe solo a come ingoiare, non al quinto postulato di Euclide.
Purtroppo -come capita sempre a me- è finita a tric e trac e castagnole.
Pazienza, la fortuna non è mai dalla mia.

E mo’ s’attaccamo tutti arca’

Niente di più vero. Una conferma -come se ce ne fosse bisogno- di quanto le tendenze estetiche, anche quelle che sembrano dettate da spiriti puri, siano sempre più legate al mondo del popolare e del massivo. Ne sono un esempio la moda Punk, del Vintage, dei tatuaggi e del piercing.
Un tempo erano gli arbiter elegantiarum a dettare le mode, oggi gli stessi arbiter si devono confrontare con le nicchie che diventano masse, e che sono sempre meno genuine e meno originali, meno istintive e creative.
E’ un circolo vizioso, un cane che si morde la coda.
E ora? Ora s’attaccamo a chi viene viene, basta che ci dica qualcosa di nuovo.

Con o senza frangetta?

Centro Polifunzionale siderno

come son bello con la frangetta

moschino

Sigarette, topi, gelsi e acido muriatico: la signora omicidi

Ieri sono andata a comprare le sigarette per mia zia. La signora tabaccaia, una ragazzona più giovane di me con prole già pubescente, è cintura nera di attaccabottoneria. Parlando del più e del meno ho raccontato gli eventi occorsi a casa, cioè l’allarmante ritrovamento di escrementi di topo nell’armadio delle lenzuola, con tragicomiche conseguenze domestiche.
“Ah sì? anche a me mi si è dovuto il problema del topo”, mi dice.
Cerco di spiegare che secondo me l’urbanizzazione selvaggia conduce i piccoli roditori a cercare ospitalità nelle nostre case, ma quasi non avevo iniziato a parlare che la signora si produce in una lunga arringa contro i campi abbandonati, gli incolti, le zone franche e i terzi paesaggi.
“I topi vengono di là, dal suo campo, e lui se ne sta beato all’estero. Ma tu me lo devi gestire, o te o chi per te. Non è possibile che tu, picchì non vo’ fa’ nenti ‘dna ma’ llordi a mia. E oi ca forfica, e domani ca runcula. Pigghiai e si iettai nu bidoni ‘i acido muriatico sutta a murara e chiglia si seccau. E igli s’arraggiau puru.
. Marituma appena mi vitti cu l’alcool ‘nte mani pigghiau e chiamau i carabineri mu fannu fari pulizia.

*perchè non vuoi fare niente devi sporcare casa mia. E oggi con la forbice da pota, e domani con la roncola, ho preso e gli ho gettato un bidone di acido muriatico sotto il gelso e l’albero è morto. E quello s’è pure arrabbiato. Mio marito, quando mi ha visto con la bottiglia di alcool in mano, ha dovuto chiamare i carabinieri per far pulire in modo che non dessi fuoco.

C'è grande crisi
C'è grande crisi

Leggete questo Thread su Compagnia del Giardinaggio e confrontate il citato articolo di Severgnini