Ho raccolto un po’ di immagini da testi ormai fuori catalogo che possono essere utili per chi deve fare un sentiero. C’è spiegato come fare un letto di ghiaia o di calcestruzzo, come posare le piastrelle o dei mattoni, come evitare ristagni d’acqua, effettuare pozzetti d’ispezione ecc. Tutte cose che mettono in difficoltà anche chi non è alle prime armi.
Visto che i testi sono abbondantemente fiori catalogo non si fa nessun danno alle rispettive case editrici.
Il file pesa 8,13 MB e contiene circa 30 pagine. Se tutto va bene, si potrà scaricare semplicemente cliccando qui sotto, altrimenti lo posso inviare via mail.
Tag: giardino
Il giardino è morto
Dio è morto, e il giardino anche
Comprata come Sonia Rikyel

Giardino13
Inserito originariamente da Lidia Zitara
Prima domanda
Tutti i giardini sono Disneyland?
Direttamente da Vulcano, per la vostra delizia, venghino, siore e siori!
Ogni tanto mi scrive Judetheobscure: ogni volta mi prende un infartino, un colpetto, un piccolo ictus, una leggera aritmia. Capirò, non capirò? Sarò in grado di formarmi un’idea e di dare una risposta alla domanda (sì, ma qual è la domanda)? Riuscirò a seguirla nelle sue immense profondità di pensiero?
Con il suo permesso riporto quanto mi ha scritto, note personali escluse.
Caro Barlimar Butterbur (Omorzo Cactaceo, soprannome affibbiatomi dato che io le ho detto che il suo cognome, De Tassis, sembra uscito da una favola di Boscodirovo)
[…]
Invece ti scrivo per trovare una spalla a una riflessione che mi intriga senza sapere dove dovrebbe andare a parare. In fondo, credo che c’entri anche un po’ con la storia del “il giardino deve essere moderno” -ma non so come.
Per farla breve. L’altro giorno in auto sfogliavo, più che leggere, una “breve storia dell’architettura” (pubblicata da Einaudi, ma ora non ricordo l’autore).
Un testo su cui mio figlio sta cercando di farsi un po’ di cultura. Ecco un (breve) capitolo dedicato ad Alvar Aalto, che io amo molto, forse più nel design che nell’architettura: quei suoi legni curvati sono per me massima espressione di una bella simbiosi fra “antico” (il legno semplice, chiaro, pulito, un po’ rustico) e moderno. Vado pazza per lo shabby chic, anch’io, ma poi mi piacerebbe avere una casa molto Alvar Aalto…
Comunque alla fine del capitolo l’autore (che per la verità non sembra
apprezzare molto l’architettura alvaraaltiana) commenta: La forma dell’esperienza non ha stile.
Questa frase, in relazione ai giardini, mi ha folgorata. Perché che cos’è un giardino -e specialmente un giardino-opera d’arte (anche se io odio pensare all’opera d’arte, ancor più al giardino come opera d’arte, odio gli approcci estetizzanti e ancor più l’idea che si affronti l’opera d’arte negando l’approccio estetizzante, ma questo è troppo complicato e fuorviante ora) se non una sublime forma dell’esperienza? O perlomeno, la migliore forma dell’esperienza possibile? Proprio per questo, perché nasce da una sorta di
esperienza individuale o storicamente circoscritta (perché è ovvio che un giardino può anche essere opera collettiva) non ha stile, se si intende e sottintende uno stile codificato, codificabile, interpretativo. Certo si può fare un giardino all’italiana, all’inglese, un country cottage etc., ma è irrilevante: può comunque essere orribile. Un giardino che è opera d’arte può avere un proprio stile o uno stile qualunque, ma è un’opera d’arte esattamente quando è una forma dell’esperienza. Ed è questo che rende bellissimi certi giardini poveri, per tornare a tema antico, e questo che dà al giardino una sua verità e una sua credibilità (quindi, un suo stile).
Sono andata a parare nel nulla?
Ecco, questo è quanto scrittomi da Jude, che non ho corsivato per una migliore lettura.
Ciò dimostra fondamentalmente una cosa: Jude viene da Vulcano.
O spago o niente!
Il giardino dev’essere moderno.
Gli elementi propri del giardino
Con grave ritardo, dovuto ad impegni successivamente presi, leggo sul n° 20 di Rosanova (Aprile 2010) l’articolo di Guido Giubbini Giardino degli architetti e giardino dei giardinieri: un punto di vista.
L’articolo, come sempre ben scritto e molto informativo, illustra, attraverso la storia più recente del giardino, la discrasia tra giardino concepito come area in cui accogliere le piante e coltivarle personalmente, e il giardino che accoglie altri elementi oltre le piante, nella fattispecie diverse forme di architettura.
Per la seconda volta su Rosanova leggo, sempre da parte di Giubbini, la frase: “utilizzando gli elementi propri del giardino, cioè le piante”.
Sebbene esista una differente visione del giardino da parte di architetti e giardinieri, dovuta non tanto a motivi ideali ma pratici, assumere che gli elementi propri del giardino sono le piante proprio non mi va giù.
La tradizione storica dice il contrario, specialmente quella orientale; ma anche il giardino rinascimentale toscano, il cosiddetto giardino all’italiana, pieno di statue, mura, scalinate, acqua e fontane a tutta forza.
L’opinione che gli elementi propri del giardino siano le piante è anzi abbastanza tarda, maturata dal naturalismo di Robinson e compagnia cantante.
Pensare che gli elementi propri del giardino siano le piante equivale a ridurre la storia del giardino alla storia del giardinaggio, che sono due cose assai diverse.
Insomma, mi sembra una trappoletta messa lì per farci cadere la gente (per carità, c’è caduto anche Mukarovsky).
E’ un po’ come dire che gli elementi propri della pittura sono le tele e i pigmenti ad olio (e Keith Haring, tanto per dirne uno?).
Ma il problema è ben più sostanziale: potrei sbagliarmi ma mi pare che l’articolo sia pervaso di un senso di ricerca dell’assoluto, come se tentasse di ricomporre un bipolarismo che è solo apparente.
Ecco, questo credo sia un errore perchè induce in tentazione. Quale tentazione? ma di credere che esista un giardino ideale, un giardino platonicamente inteso, un assoluta manifestazione esteriore di giardino.
Il giardino ha come elementi propri esattamente quelli che chi lo costruisce, mette in opera e mantiene, ritiene opportuni.
Questo non fa di tutti i giardini dei bei giardini, come non tutti i quadri ad olio sono belli.
Nè a mio parere il giardino -inteso come forma d’arte- è un processo che deve essere tenuto sotto controllo da un unico individuo. Questa è un’altra trappoletta messa lì a bella posta.
Il giardino è un processo, è vero, più che un prodotto; ma a questo processo possono prendere parte diverse persone, famiglie, torme di giardinieri ognuno con una sua idea personale, generazioni di storici dell’arte del giardino. Ognuno di loro contribuisce in maniera significativa alla prosecuzione di questo processo, e dopo di loro verranno altri che faranno la stessa cosa.
Se il filo del mio ragionamento è corretto, questo dimostra sostanzialmente due cose: che l’estetica moderna risente in maniera ancora evidente del pensiero di Kant e che l’arte del giardino è un terreno impervio e paludoso che mette a dura prova l’accademismo tradizionale.
Galeazza’s garden
Ho ricevuto una gentile richiesta di contatto alla quale sono contenta di poter aderire. Il link è questo: Galeazza’s garden che aggiungo nel mio blogroll.
Love me tender, Gardenia
Leggo “Gardenia” sempre con grande ritardo, in questo periodo poi ho trascurato tutte le letture perché sto preparando una conferenza a Forlì il 16 di giugno (anche per questo ho lasciato il blog un po’ negletto).
Di solito ammucchio “Gardenia” su un cesto che sta in bagno, e ogni tanto leggo qualcosa. Non trovando il numero corrente ho ripreso quello di maggio, che avevo letto a balzelloni (mi è molto piaciuto l’articolo sul cutting garden) e ci ho trovato una bellissima sorpresa, ma che dico, un gran regalo!
Me lo fa un insospettabile Carlo Contesso, nelle sue pagine di progettazione del giardino.
Si tratta di come realizzare una siepe di melo nanizzato, esattamente come nel sogno giardinicolo che descrivo nel capitolo Storia di un’aiuola: un giardino sul retro del mio libro. Perciò capirete che quando me lo sono visto spiegato e illustrato dalla bella mano di Massimo Demma, mi ha preso un infartino. Ho accuratamente ritagliato le pagine, spillate, segnato la data, e chiuse dentro al mio libro.
Per una volta, grazie “Gardenia”, grazie di avermi fatto vedere il mio sogno con gli occhi aperti.
Intanto vengo a scoprire come si chiama questo tipo di piantagione: step over, cioè “scavalcalo”. In effetti a seconda di quanto in basso si piega l’astone, si ottiene un cordone più o meno basso, scavalcabile.
E’ di certo una derivazione della coltura dei fruttiferi a cordone, a palmetta o a spalliera, già in uso ai tempi del Re Sole negli orti di Versailles, ma questo cordone si fa con dei portainnesto nanizzati, altrimenti non esce.
Si comprano astoni giovani, di un anno di età, e poi si curvano durante tutto il periodo di crescita, fino a ottenere un angolo di 90° e infine si legano ad un filo teso tra due paletti.
La pianta tradizionale per lo step-over è il melo, ma Contesso sostiene che si possa usare anche il pero, seppur usando maggiore cautela nel piegarlo perchè è meno elastico. Questo è buono per noi che viviamo in zone calde dove gli inverni sono miti e il melo soffrirebbe. Inoltre il pero in piena fioritura è sempre uno spettacolo.
Non so che altre piante possano essere usate in questo modo, ma credo anche altre. I meli nani si trovano con una certa facilità anche in un buon vivaio locale (ce li ha anche la Bakker, veramente), ma spesso sono impalcati diversamente. Se volete suggerimenti e consigli, l’indirizzo che viene dato a cui rivolgersi è i Vivai Belfiore, a Lastra di Signa (FI), 055-8724166, info@vivaibelfiore.it.
Le piante vanno piantate testa-piede per evitare competizioni radicali, ma se ne piantate a coppie, magari come delimitazione dell’orto, le potete piantare anche specularmente.
Durante la crescita e l’allungamento del cordone, vanno accorciate a 5 cm tutte le ramificazioni laterali, soprattutto quelle che vanno verso il basso. Questa operazione -dice Contesso- va fatta quando il ramo inizia a lignificare, dunque quando ha una lunghezza di 20-30 cm). Si continua ad accorciare le successive crescite fino a 2 cm per tutta la stagione .
Quando il getto orizzontale raggiunge la lunghezza desiderata (circa un metro e mezzo), allora si accorcia ad una gemma laterale, che ramificherà e porterà dei frutti.
In inverno si procederà ad una manutenzione bassissima, sfoltendo i rami troppo vicini.

Come si vede nel progetto, c’è una striscia di prato in cui sono state fatte crescere aromatiche molto basse e decorative, come il prezzemolo riccio e l’erba cipollina, ma anche zafferano. Più in là il prato fiorito con le pratoline. Se il terreno è umido e fresco si può invece piantare della fragola (io però preferisco la prima soluzione).
Inframmezzati al prato dei narcisi del tipo giunghiglia.
Questi sono i fiori di aprile:

Potete anche optare per un prato di camomilla da lasciare andare a fiore. Contesso sceglie quella doppia, ma anche quella comune è estremamente decorativa.
Per continuare l’effetto campagna sono stati seminati dei papaveri rosolacci e dei fiordalisi.

Mentre le mele maturano, fioriscono papaveri e fiordalisi.
Sconsigliata per i giardini abitati da cani maschi, questa combinazione è molto gradita ai bambini, che raccolgono la frutta ad altezza d’occhio.
Noi -dal canto nostro- speriamo anche che questo insieme così fresco, profumato, semplice e campagnolo ci porti anche le visite di insetti e farfalle.
Questi i fiori dell’estate:

Adesso aggiungo dei suggerimenti miei che ripesco dal mio libro.
Io non mi farei mancare dei gagofani, sia del tipo semplice che pieni come il ‘Cranmere Pool’, l’importante è che siano dei Pinks, cioè garofani da bordura, non Dianthus caryophyllus, che sarebbe troppo alto e andrebbe sostenuto.
In una fila un po’ più arretrata ci vedrei bene della lavanda, magari la stoechas o un’altra qualunque a portamento basso, e della santolina, ma la cultivar a fiore giallo crema, la S. pinnata susp. neapolitana ‘Sulphurea’. Se il clima non è arido anche delle Phlox paniculata nelle zone più arretrate, e tra le tappezzanti il Tanacetum parthenium ‘Golden Moss’.
Invece del comune rosolaccio, scegliete la serie Shirley o il miscuglio ‘Angel Choir’. Già questi da soli basterebbero, ma se riuscite a seminarci dentro qualche fiordaliso, tanto di guadagnato.
Ovviamente non bisogna affollare troppo l’insieme, che più semplice è meglio sta. Sarebbe particolarmente bello il prato lasciato libero e falciato dopo la sfioritura delle annuali (in modo che possano liberare i semi), come intermezzo tra il cordone step-over e un muro (che può esser quello dell’orto o di casa), su cui far crescere delle rose rampicanti e arbusti profumati, oltre che piselli odorosi e Lathyrus latifolius. Un altro utilizzo splendido è usarlo per riquadrare il cutting garden, o semplicemente come siepe per “annunciare” una coltivazione intensiva di piselli odorosi in filari.
E’ un dolce sogno per me, e queste tre pagine di “Gardenia” mi fanno un effetto lenitivo, io le uso per farmi le coccole prima di andare a nanna.
Un’altra cosa che aggiungo per ultima ma alla quale dedico molta partecipazione: questo tipo di piantagione può essere ottimamente usata nei giardini per le sedie a rotelle. Si possono raccogliere i frutti semplicemente allungando una mano, da seduti, ed anche praticare le comuni manutenzioni non sarà difficile, tenendo in grembo le cesoie e un sacchetto per i residui di potatura.
Unico problema: per potersi avvicinare a sufficienza sarà opportuno ridurre al minimo la piattabanda di prato e aromatiche, in modo che non ci si debba sporgere troppo dalla sedia. In secondo luogo è importante che la superficie sia liscia abbastanza da permettere una comoda andatura delle ruote, ma non troppo scivolosa. Terzo, è essenziale che sul bordo della pavimentazione ci sia un cordolo sottile e sufficientemente alto per evitare che una ruota scivoli nella terra, provocando cadute accidentali.Il cordolo può essere anche un mattone messo di taglio, o un asse di legno, magari sagomato.
Attenzione agli interstizi, se volete evitarli, meglio una colata in comune calcestruzzo ben lisciato.
Bravo mio, voglio io, mangio io, così buono, così dolce…ebbbravo mio!
Prendendo un libro dalla scaffalatura mi scivola a terra un piccolo libriccino regalatomi tempo addietro. Una scena da film…sapete quando il protagonista cerca un libro e tirandolo fuori scivola via una foto compromettente, un testamento, una vecchia lettera d’amore?
Mi sono dunque detta: è il destino, devo leggere questa cosa che ho trascurato per mesi.
Il piccolo pamphlet è -tra le altre cose- una discussione attorno ai giardini. Vi si trovano numerose osservazioni scritte con stile bello e leggiadro. Lo stile, quando si parla di giardini, è essenziale. Si possono dire anche delle grandi sciocchezze quando si scrive bene. Non è solo il contenuto del messaggio ad avere valore, ma anche la forma e il mezzo con cui viene trasmesso, che diventa esso stesso contenuto (altrimenti il noto volume Esercizi di stile dovrebbe totalizzare zero sull’asse Y del grafico Pritchard).
A parte un paio di prescrizioni artistiche poco convincenti e per nulla solide, le mie obiezioni circa questo pamphlet sono dunque sostanzialmente solo di carattere etico, se vogliamo usare questa parola.
Ciò che ricaviamo da questa breve lettura è che il giardino deve essere “nostro”. Deve rappresentare quindi un individuo, essere fatto su misura come un abito dal sarto, una sorta di seconda pelle, il distillato della nostra identità, il precipitato umano del nostro io.
Il giardino deve rispondere alla qualità della terra e del clima, ma a parte questo -sostiene il pamphlet– la distinzione è data dal giardiniere, che deve adattare alla sua personalità il giardino.
Il “tuo” giardino deve sapersi far capire e tu devi essere in grado di capire lui, come in un matrimonio. Il giardino non deve avere uno stile preciso per essere bello e armonioso: deve essere il “tuo”. Il giardino racconta di te meglio della tua biografia, descrive i tuoi gusti, le tue inclinazioni, le tue fantasie. Insomma il giardino riesce a parlare al cuore di tutti quando è “il tuo giardino”.
Questo è senz’altro vero, anche se il risultato di questo racconto sarà spesso impietoso.
Ma -mi chiedo- se uno non volesse un giardino “suo”, ma per la gente, per gli altri, per la moltitudine, ton pollon?
In fondo non è molto diverso da ciò che fanno molti progettisti e proprietari di giardini privati che però sono aperti al pubblico.
Io non desidero un giardino “mio”, che rispecchi me stessa, il mio carattere, il mio romanticismo, le mie passioni, le mie fantasie. Anzi, vi dirò, quello che ho mi va già benissimo, ma voglio che il mio giardino rispecchi la mia idea che il giardini possono e devono diventare fulcro di aggregazione e incontro sociale, che debbano essere un bene realmente democratico. Un giardino privato può farlo, basta pensare a Parc Monceau dove Phlippe l’Egalité incontrava i rivoluzionari contro l’ancien régime. Ma Parc Monceau ora è un parco pubblico.
E’ normale o anormale, o solo insolito, o magari dovrebbe essere la normalità, pensare che il giardino non sia altro che una propaggine della propria identità (magari della propria casa), ma che possa accogliere altre istanze?
Bauman dice che è ciò che gli altri danno a noi a renderci consci di essere degni di essere amati, che siamo soggettivamente responsabili di una responsabilità oggettiva. Voglio caricarmi addosso la responsabilità dei miei simili, voglio amare i loro giardini come il mio.
